mercoledì 9 ottobre 2013

Professione: «love giver»… un errore concettuale.

A cura di Carmelo Modica
Assistenza (?) ai disabili

Cosa vuol dire disabilità? La disabilità è una situazione di svantaggio sociale conseguente a menomazione e/o handicap intelletivo che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato individuo in funzione di età, sesso, fattori culturali e sociali. Una realtà individuale che una volta socializzata, ha delle conseguenze per l’individuo sul piano culturale, sociale, economico ed ambientale.
Cos’è la sessualità? A cosa è legata? Si tratta di un aspetto dell’essere umano profondamente legato in egual misura a tutte le dimensioni dell’individuo: corporeità, dimensione psicologica, relazionale, affettiva, cognitiva e culturale.
Approfondire ogni aspetto in questa sede non ci è possibile, pertanto possiamo sintetizzare il concetto di sessualità al binomio “desiderio di relazione-carnalità”.

L’errorre concettuale. Cosa vuol dire «desiderio di relazione»? Cos’è questo «desiderio»? Nella ricerca dell’incontro e della relazione a cui ogni essere umano tende costantemente, il desiderio va inteso come aspirazione al bene, al vero, a ciò che realizza pienamente la persona.
Purtroppo, se questo incontro è naturale per chi non ha problemi di esteriorizzazione, oggettivazione e socializzazione, per le persone con disabilità, fisica o intellettiva, la realtà è certamente piu’ complessa. Ricordiamo che nel caso di disabilità fisica siamo di fronte ad una incapacità di fare, mentre nel caso del disabilità intellettiva si tratta di una incapacità nella responsabilità di fare. Pertanto è facile capire che sono necessari anni di studio per acquisire quell’empatia necessaria a lavorare in ambito terapeutico, per poi essere in grado di accompagnare un’altra persona nella comprensione di tutte le sfumature relazionali, affettive, caratterizzate da manifestazioni tanto particolari quanto vitali, come carezze, abbracci, ricerca di contatto fisico, comprensione, ascolto.
Le difficoltà per chi vive la realtà della disabilità, non sono certo dovute alla propria volontà, ma sono il frutto di una visione distorta dell’altro, voluta dalla società moderna, in cui chi non vive secondo certi canoni deve essere emarginato. Pertanto se proprio si volesse ingaggiare una battaglia sociale, i propri sforzi sarebbero da indirizzare verso l’integrazione e la tutela dei piú deboli, in modo che siano gli unici privilegiati della società.
Solo cosí si realizzerebbe il concetto di desiderio, che va ben oltre la mancanza di qualche cosa; si concretizzerebbe la possibilità per l’uomo di ampliare le proprie capacità conoscitive ed espressive, permetterendo infite l’affermazione e la valorizzazione di tutte le sue potenzialità.

Carnalità come bisogno. Ciò che, invece, gli intervenuti nel video in allegato vogliono far passare per desiderio, è un aspetto totalmente diverso della natura umana, ovvero quello del bisogno, presentandolo come «diritto» ad una soddisfazione in tempi brevi secondo modalità e significati prestabiliti, immutabili.
Approfittando dell’esperienza di un vuoto e l’insoddisfazione che ne consegue, tentano di strumentalizzare, con grande confusione mediatica e concettuale, tutto ciò che ruota attorno a questa mancanza, facendo passare il proprio operato per volontariato, presentandosi come paladini dei diritti dei piú deboli, ottenendo anche un discreto consenso, dovuto piú che altro all’ignoranza specifica dell’argomento che caratterizza l’uditorio contemporaneo.In sintesi, mentre il bisogno appartiene alla sfera biologica dell’uomo in quanto gli permette la sopravvivenza e la conservazione della specie, il desiderio rende l’uomo soggetto creativo, capace di comunicazione, unico ed originale, perché inedita è la modalità di relazione di ogni persona; in altri termini propongono un modello di terapeuta che col proprio lavoro, realizza la degradazione del desiderio ad un’azione specifica, rendendo l’uomo un po’ meno uomo.
E’ chiaro quindi, che l’attività di queste persone ottiene l’esatto opposto di quanto lascino intendere, che ne siano consapevoli o meno, non c’è dato saperlo…

Come andrebbe affrontata la questione? Identità sociale della persona disabile.
Come abbiamo già detto, la sessualità fa parte del normale sviluppo di ogni essere umano, quindi il nostro contributo in termini di tempo e risorse economiche, va indirizzato a tutto lo spettro della crescita individuale e non solo ad una singola realtà, in modo da ottenere uno sviluppo il piú armonico possibile.Per superare questo limite abbiamo a disposizione due modelli di lavoro: il modello medico e il modello sociale.
Il primo modello lavora sul singolo individuo portatore di disabilità, aiutandolo a raggiungere la migliore autonomia possibile. L’educatore insegna ad attribuire un nome e un senso a ciò che sta sentendo per aiutarlo, di conseguenza, ad imparare a gestire queste pulsioni ed emozioni, ad essere piú consapevole di sé, delle proprie possibilità e dei propri limiti, consegnando gli strumenti per essere il piú autonomo possibile, anche all’interno di un eventuale rapporto di coppia.Il secondo modello di lavoro, invece, affermato negli anni ’70 in Inghilterra, si basa su di un approccio che interpreta la disabilità come un prodotto sociale, pertanto pone l’accento su come abbattere la condizione di svantaggio superando cosí la disabilità.
Secondo il modello sociale è opportuno che la società fornisca gli strumenti per ridurre lo svantaggio nel compiere le proprie attività personali.
In tal caso si agisce su tutto il contesto in cui vive la persona con disabilità, famiglia, scuola ambienti ricreativi, rendendo tali aggregatori sociali adatti ad accogliere anche chi ha delle esigenze diverse rispetto ai piú.
L’obiettivo è la creazione di servizi mirati alla rimozione delle barriere sociali e ambientali, in modo da rendere possibile una piena partecipazione relazionale, fisica e lavorativa dei disabili.
Nello specifico dell’ambito sessuale, il primo elemento da rimuovere è la concezione del disabile come un eterno bambino, dato che le persone disabili in ambienti istituzionalizzati sono spesso infantilizzate, è raro che sia loro permesso di esprimere la propria sessualità; il tutto senza però dimenticare l’alto grado di vulnerabilità all’abuso fisico e sessuale.
Solo con l’eliminazione di tali barriere, si può parlare d’identità sociale della persona disabile. Ottenuto questo risultato, sarà la società stessa a fornire i mezzi necessari per confrontarsi in materia di riconoscimento normativo, politico ed economico.


Tanto è stato fatto, ma tanto resta da fare.