lunedì 7 ottobre 2013

Il fine ultimo — parte II

—Pubblichiamo alcuni estratti dalla raccolta «Temi di Apologetica» di don Ennio Innocenti (Biblioteca Edizioni Roma, 2004).—

Il fine ultimo: la beatitudine
 
La legge impreteribile. Le nostre esperienze fisiche sono molto varie, ma la ragione di questa varietà è tutta spirituale. È solo in grazia dello spirito che noi non ci ripetiamo come gli scoiattoli o come le api. Lo stesso si dica degli amori dell’uomo: essi sono tutti diversi perché sono, prima di tutto, fatti morali, ossia liberi. Non si riflette, però, abbastanza che la legge immanente al mondo morale è il superamento, la trasformazione verso il meglio. Infatti, chi vuole il bene deve volerlo tutto senza fermarsi fino all’infinito. Ecco perché l’amore che non si trasforma migliorando è destinato ad intristirsi e perfino ad involversi, se non addirittura a degenerare.
Strano! Gli uomini vedono il bruco che diventa farfalla, ma non imparano da tale metamorfosi che la loro vita morale è sottoposta alla stessa legge: o volare o perire. Ci sono animali che vivono nell’acqua degli stagni ma si tramutano prontamente in esseri del tutto diversi quando si ritrovano all’asciutto: a questo prezzo sopravvivono. Come mai, dunque, gli uomini non promuovono con decisione queste trasformazioni quando i loro amori languiscono? Essi si ostinano, con stupido irrealismo, nell’antica forma, si chiudono in essa, bloccandone ogni sviluppo, rifiutando la metamorfosi salvatrice ed esaltatrice. Perché? Se il fiore non si espandesse in petali per cambiare in frutto e seme e nuova pianta, la sua vita sarebbe ben effimera…
Gli uomini, spesso, non apprendono la lezione e proprio nel mondo in cui sono protagonisti e padroni, il mondo morale, aperto ad una metamorfosi infinita e divina, proprio là essi si perdono di coraggio e ripiegano sul già vissuto, sul già sperimentato, si ripetono come schiavi invece di rinnovarsi come liberi. E i risultati sono tristi, tristissimi, più che se si spegnesse la luce degli occhi, perché mortificano la spinta stessa della felicità. Infatti uno solo è il motivo della felicità ed è il dimenticare sé per il bene illimitatamente voluto, come diciamo ogni sera nell’atto di carità tramandatoci dal buon catechismo: “Ti amo sopra ogni cosa perché sei il bene infinito, nostra eterna felicità”. Impariamo, cari amici, la legge impreteribile: se i nostri amori non crescono inaridiranno; o rinnovarsi o perire. Impariamolo in tempo.
Il traguardo è felicità. Nel prendere coscienza del nostro esistere, noi cogliamo – ad un tempo – la nostra ricchezza e la nostra povertà: siamo ricchi perché aperti all’infinito, poveri perché tale apertura è un vuoto. Colmare questo vuoto è il compito esistenziale, da alcuni giudicato disperato. Diresti, dunque, che si vive per diventare ricchi, ma bisogna subito sottolineare che la ricchezza mirata è perfezione infinita, non è di questo mondo finito. Questo mondo limitato può aiutarci, in quanto può accendere in noi i desideri dell’infinito, e può diventare una trappola deludente, se lo scambiamo per il nostro vero fine. I desideri delle perfezioni infinite sono spirituali, sono le tensioni morali del nostro vivere. Al contrario, se i nostri desideri fossero esclusivamente limitati a beni materiali, noi saremmo prigionieri di un pervertimento immorale, negatore della nostra stessa umanità.
Certamente il conseguimento dei nostri traguardi spirituali e morali conduce alla felicità. La contemplazione della bellezza – sia naturale sia artistica – come la coscienza di volere il bene morale nella sua interezza sono, purtroppo, solo dei momenti nelle nostre tensioni, ma ci persuadono che moralità e felicità tendono a coincidere e ci fanno intuire che vivere rinnegando l’ordine morale ci condurrebbe a suprema infelicità. Il santo agisce solo per il bene e proprio per questo è felice; al contrario, chi non si orienta al bene, è inevitabilmente tormentato; direi che è tormentato proporzionalmente al suo disorientamento; e il tormento gli viene sia dall’interno di sé sia dall’esterno. Tutto il vivere umano, infatti, soggiace all’ordine morale.
Felicità depurata. Qualcuno pensa che i confessori, stimolando le persone a mirare al proprio perfezionamento e alla perfetta felicità, si rendano praticamente responsabili d’insegnare l’egoismo. Se questo fosse l’effettivo risultato, l’ufficio dei confessori, lungi dal condurre alla perfezione e alla felicità, condurrebbe piuttosto a frustrazioni e a nevrosi. Tale giudizio, però, non tiene in alcun conto la mentalità tipica del sacerdote confessore. Costui è ministro di Dio, non della salute; insegna l’amore di Dio, non l’amore di sé; stimola alla virtù per l’amore dovuto a Dio, non per la preoccupazione del proprio bene.
Quando il confessore parla del Paradiso, dice che esso consiste nella perfetta comunione con Dio; quando parla dell’Inferno, afferma che esso è, innanzi tutto, privazione di Dio. Certamente il confessore aiuta a perfezionare se stessi, ma a suo giudizio la perfezione consiste nel provare la propria libertà sia davanti alle cose sia davanti a se stessi. Anzi, la perfezione sulla quale egli posa gli occhi è proprio la libertà da se stessi. Certamente il confessore aiuta a concentrare l’esame della propria coscienza, ma non per fissare il peccatore o la persona virtuosa su se stessa, bensì per educare il credente a trascendere se stesso in Dio.
Il confessore è amico della salute fisica e mentale di chi colloquia con lui, ma questo succede in quanto l’uomo sta davvero bene solo nel volere stabilmente il bene. Il confessore non lavora, propriamente, per la felicità personale di chi ricorre a lui, anzi, neppure per il suo perfezionamento morale; egli lavora per facilitare la collaborazione degli uomini con Dio, ma questa sua fatica produce sicuramente frutti sia sul piano delle virtù morali sia sul piano delle soddisfazioni esistenziali. Sull’altare il sacerdote converte poca materia nel corpo risuscitato di Cristo, in confessionale converte tendenze egoiste in perfetta offerta di sé al Bene.
La speranza adeguata. Ci sono persone che, per incoraggiare la moralità, fanno assegnamento su un solo premio: la virtù. I sacerdoti cattolici si sono mostrati sempre increduli davanti a tale impostazione. I sacerdoti cattolici affermano che il premio della persona buona è non già la virtù morale bensì la stessa Bontà Infinita, Dio stesso, la perfetta comunione con Dio, l’Infinito che sazia ogni giusto desiderio e ogni vero bisogno. Quanto alle virtù, esse stabilizzano la volontà nel perseguimento del bene, ma sono inadeguate a soddisfare tutte le esigenze. Primo, perché – nella loro polivalenza – le virtù sono soltanto perfezioni limitate che tendono all’armonia nell’unità organica della vita spirituale aperta all’Infinito: non ci si può fermare alle singole virtù, bisogna tendere all’Infinito.
Secondo, perché l’acquisto e il mantenimento delle virtù è sempre periglioso e comporta limitazioni e sofferenze mal conciliabili con la perfetta armonia. Ebbene: proprio a perfetta armonia noi aspiriamo. Non solo noi vogliamo che il Bene sia e prevalga; vogliamo anche essere tutt’uno col Bene. I sacerdoti cattolici insegnano che lo sforzo morale è connesso con un risultato. A chi vuole davvero il Bene, tutto il Bene, sarà dato davvero lo stesso Bene Infinito, Lui in Persona. Questo è il premio davvero adeguato. Desiderare questa ricompensa non è punto disordinato perché equivale ad una perfetta offerta di sé al Bene e per nulla affatto ad un’appropriazione limitativa del Bene. Il Bene Infinito merita tanto d’essere amato che il non desiderare d’essere tutt’uno con Lui sarebbe disordinato; al contrario, il desiderio d’essere tutt’uno con il Bene impedisce che ci si possa contentare di qualcosa di meno. Lo sforzo morale è necessariamente sostenuto, nelle sue autentiche esigenze, da una speranza d’infinito.
Giustificazione ultima dell’ordine morale. Per colui che nega categoricamente l’esistenza di Dio risulta troppo difficile, a lume di logica, fondare il dovere morale. Se Dio non c’è, infatti, il mondo è fatto a caso, la libertà personale è inesplicabile, la legge morale perde l’assolutezza. Solamente chi lasci aperta la possibilità che Dio esista trova motivi ragionevoli per giustificare un ordine cosmico e morale e la responsabilità dell’uomo. Tuttavia anche questa posizione di neutralità religiosa non appare sufficiente garanzia logica di moralità, perché la persona insicura dell’esistenza di Dio non possiede criteri adeguati per organizzare il mondo dei valori morali. I valori morali, infatti, sono diversi e, in pratica, appaiono – talvolta – perfino contrastanti. Armonizzarli tra loro è importante, per evitare confusione, contraddizioni e demoralizzazioni, ma questa operazione logica non è punto facile. Si corre il rischio di riprodurre, nel mondo morale, quella schizofrenica scomposizione che dette luogo, nel mondo religioso, al politeismo.
Se Dio esiste, Egli – senza dubbio – armonizza in sé tutte le perfezioni degli esseri creati, di cui Egli è la libera Fonte; e poiché la più alta perfezione creata è, a nostra conoscenza, lo spirito, ossia la libertà – e quindi, il dono personale di sé nell’amore – è indubbio che Dio possieda, all’infinito, anche questa perfezione; anzi, se Dio esiste, esiste solo come persona perfetta, sintesi di tutte le perfezioni, anche quelle morali. Già: se Dio esiste. Affermare l’esistenza di perfezioni infinite senza affermare l’esistenza di Dio è non solo una incompiutezza logica, ma anche una disarmonia morale: le perfezioni morali, infatti, risulterebbero senza sicura gerarchia ed organicità. La persona che, pur non essendo agnostica in morale, resta agnostica in religione, si rassegnerà ad un vago politeismo etico incapace, probabilmente, di offrire la bussola per tutte le scelte morali.

A cura di Marco Massignan (http://radiospada.org/)