giovedì 14 luglio 2016

Riabilitare Lutero?

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di Danilo Castellano - Fonte: http://www.radiospada.org/


1. Si va affermando da qualche tempo che Lutero deve fare da ispiratore alle grandi riforme, spirituali e di governo, che attendono la Chiesa (cattolica) nei prossimi anni. Lo ha detto, per esempio, recentemente il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga e attualmente presidente della Conferenza Episcopale Tedesca. L’opinione è diffusa. In alto e in basso. Tanto che in qualche Chiesa particolare (italiana) sono già state prese iniziative per «beatificare» Lutero, un tempo considerato eretico ed apostata e contro la cui Riforma la Chiesa (cattolica) ha riunito uno dei suoi principali Concilî, quello di Trento. I tempi – si dice – sono cambiati. Molta acqua è passata sotto i ponti. La stessa verità – si afferma – sarebbe evoluta. Perciò sarebbe giunto il momento di «ripensare» la Riforma e di attuarne una che non sia una «Controriforma» ma una vera Riforma in continuità con quella luterana, non in opposizione ad essa; una Riforma radicale della Chiesa sia sotto il profilo dogmatico (i dogmi – si sostiene – dovrebbero essere abbandonati), sia sotto il profilo istituzionale (la Chiesa dovrebbe essere solo «spirituale» e soprattutto «popolare»), sia sotto il profilo morale (non più la legge ma l’«autenticità» della persona dovrebbe essere promossa; non più i Comandamenti – nemmeno i Dieci consegnati a Mosè – ma la libertà). Non c’è dubbio che Ecclesia semper reformanda. La riforma è una necessità vitale soprattutto della Chiesa militante e della Cristianità. Questa deve tendere al continuo rinnovamento, a cominciare da quello spirituale e da quello morale. Se essa non coltivasse questa esigenza, decadrebbe e alla fine morirebbe. Il rinnovamento, la tensione alla perfezione, non è però il fine perseguito dalla Riforma protestante. C’è, infatti, riforma e riforma. La Chiesa anche nei secoli antecedenti a Lutero ha avuto bisogno di riforme. E le ha realizzate.
Basterebbe pensare, a titolo di esempio, alle riforme per le quali si era impegnato il benedettino Ildebrando da Soana (1020/21-1085), eletto Papa con il nome di Gregorio VII, e a quella realizzata da Francesco d’Assisi (1181/82-1226). L’uno e l’altro si impegnarono nella «restaurazione» della Chiesa; «restaurazione» che non è né conservatorismo né «rivoluzione» gnostico-ideologica, ma «rinascita» come continuo impegno sia alla fedeltà alla Parola sia a una prassi di vita coerente con e conforme all’ordine morale voluto da Dio. La stessa Controriforma – la cosa è stata ampiamente dimostrata – non è una mera e sterile contrapposizione alla Riforma protestante: è piuttosto un programma e un’opera sia di intenso rinnovamento nella fedeltà dottrinale al Deposito ricevuto da Cristo e custodito e tramandato dalla Chiesa sia sul piano educativo. Più recentemente la Chiesa ha goduto di una notevole e fruttuosa riforma, quella voluta da san Pio X, che oggi o viene semplicemente ignorata e respinta oppure, all’opposto, strumentalizzata per giustificare scelte che segnano, per usare una felice espressione di Paolo VI, l’ingresso del fumo di Satana nella Chiesa post-conciliare. Scambiare, pertanto, la Riforma luterana con la sempre necessaria riforma della Chiesa e nella Chiesa è un errore, frutto o dell’ignoranza o della malafede.
2. L’errore più grande di questo scambio/identificazione sta nel non vedere il carattere gnostico della Riforma. All’origine – è vero – lo gnosticismo luterano non è palese. Meglio: è evidente solo a chi sa portare alle estreme conseguenze il significato delle affermazioni e delle tesi. La Riforma manifesterà nel tempo la sua vera essenza. Il disvelamento dello gnosticismo del luteranesimo sarà fatto da Hegel. Il luterano Hegel, infatti, metterà in luce le opzioni fondamentali della Riforma, che raccoglie e sviluppa germi di pensiero sparsi anche in e da taluni filosofi cristiani e da teologi precedenti a Lutero e dai quali Lutero per taluni aspetti dipende. La Riforma, pertanto, è in ultima analisi una «rivoluzione gnostica», razionalistica. Essa fa dipendere le sue affermazioni da «decisioni originarie» che rappresentano, appunto, opzioni non giustificate dalla realtà, ma solamente affermate, imposte sulla e contro la realtà. Ciò vale, per esempio, per la libertà, intesa come «libertà negativa» che, a sua volta, coerentemente porta al primato della coscienza sull’ordine (la coscienza come sola fonte del bene e del male; quindi, la coscienza soggettiva non è sensibilità nei confronti dell’ordine, ma pretende di essere l’ordine in sé) e al libero esame della Scrittura sia esso inteso come esame assolutamente individuale sia esso inteso come esame «comunitario» (come esame del popolo definito di Dio: è la posizione, in ultima analisi, anche di diversi autori cattolici contemporanei, compreso per esempio il cardinale Kasper). Le «decisioni originarie» della Riforma segnano il primato/affermazione del volere sulla ragione; sono imposizioni di atti di (ritenuto) potere dell’uomo sulla realtà. Esse, pertanto, sono la rinnovata manifestazione dell’orgoglio che caratterizza il peccato originale: l’ordine della creazione è «piegato» alla volontà umana.
3. Il risultato, cui arriva la «rivolta» di Lutero contro la Chiesa (cattolica) alla quale apparteneva e alla quale suggerì di rimanere fedele alla madre (anche dopo aver dato vita alla cosiddetta «Chiesa riformata»), è legato a questa impostazione. Può essere stato favorito da errori del Clero cattolico e da esagerazioni. Certamente fu facilitato dalla decadenza della Chiesa del secolo XVI, soprattutto in Germania; decadenza le cui cause secondo, per esempio, il cardinale Nicolò Cusano stavano nell’entrata di molti indegni nello stato ecclesiastico, nel concubinato del clero, nel cumulo di benefici (senza adempiere agli offici) e nella simonia. Ciò non toglie che sia in sé un errore: non è lecito, infatti, tentare di rimediare a un errore sostenendone uno più grave. A eventuali difetti bisogna rimediare tenendo per modello la perfezione dell’essere; gli errori vanno corretti sulla base della verità, non sulla base di altri più gravi errori. Gli errori di Lutero sono molti. Talvolta essi sono evidenziati dalle contraddizioni intrinseche alle sue tesi. Gli errori di Lutero sono principalmente dogmatici, morali ed ecclesiali. Non mancano, però, errori di altro genere. Su taluni di questi richiameremo l’attenzione fra breve. Gli errori di Lutero sono stati messi in luce non solo da coloro che allora vi si opposero «dialetticamente» (in modo particolare dai Domenicani), ma anche e soprattutto dalla Bolla Exsurge Domine di papa Leone X (15 giugno 1520). Con questa Bolla il Papa, operando molti ed opportuni «distinguo», confutò con fermezza gran parte delle proposizioni di Lutero, alcune delle quali furono giudicate eretiche, altre scandalose, altre ancora false, altre infine capaci di offendere particolarmente le anime dei semplici. Soprattutto, però, – come si è accennato – la dottrina luterana fu confutata e condannata dal Concilio di Trento. Qui non è opportuno né elencarle né entrare nel merito di molte tesi che hanno un rilievo notevolissimo sul piano dottrinale e conseguenze gravi sul piano pratico. Basterà ricordare che teorie come quelle della «giustificazione», del «libero esame», del «servo arbitrio» incidono pesantemente sul piano morale. Non meno rilevanti (erronee e dannose) sono, inoltre, le dottrine della «consustanziazione» (elaborata in polemica con la «transustanziazione»), della «sola Scriptura» (con la quale si intendeva negare valore alla «Tradizione»), della illiceità del culto alla Madonna e ai Santi, e via dicendo. Leone X dovette intervenire con una seconda Bolla, la Decet Romanum Pontificem, del 3 gennaio 1521 con la quale scomunicò Lutero dopo aver preso atto delle sue eresie e dopo il suo «gran rifiuto» di presentarsi a Roma.
È stato scritto – fondatamente – che la Riforma è l’innalzamento dello spirito contro l’autorità, dell’energia dell’individuo contro le idee. Non lo fu immediatamente ed esplicitamente, perché Lutero, come osservò un autore dalle molte derive (Maritain), aveva della vita un concetto dogmatico ed autoritario. Ciò non gli impedì, tuttavia, di porre le premesse del radicale immanentismo moderno principalmente attraverso l’istituita opposizione di Fede ed opere, di Vangelo e legge. Lo sviluppo delle «opzioni» luterane porterà, perciò, a una incompatibilità fra autorità e libertà, fra legge morale ed autenticità. Poco importa che lo stesso Lutero abbia favorito, sotto diversi profili e per molteplici occasionali ragioni, la genesi dello Stato moderno, liberale in quanto Stato ma assolutamente illiberale nei confronti dell’uomo singolo. Quello che rileva è il fatto che le dottrine moderne della libertà sarebbero incomprensibili senza Lutero; meglio: non sarebbero nate, non si sarebbero sviluppate e non si sarebbero storicamente affermate. La tesi idealistica, perciò, è a questo proposito descrittivamente fondata, anche se il giudizio di valore di Hegel, di Croce, di Giovanni Gentile e di molti altri su questo processo non è condivisibile.
4. Il modo di intendere la libertà è il nodo dal quale si sviluppano coerentemente tutte le dottrine (dogmatiche, etiche, politiche, giuridiche, ecclesiali, etc.) cui il luteranesimo ha dato vita. Il luteranesimo la intende come assoluta e sola affermazione del volere. La volontà, qualsiasi volontà, che si affermi, che diventi effettiva, è realizzazione della libertà. La volontà, per essere libera, non deve avere guide (non deve essere guidata né dalla ragione né da magisteri) e non deve sperimentare interventi esterni di alcun genere, perché questi segnerebbero limiti al suo agire e alla sua affermazione. Celebre, per esempio, per quel che riguarda la morale è l’ironia polemica di Hegel (un luterano coerente) contro gli usi praticati al suo tempo dai Gesuiti (erroneamente identificati con la Chiesa cattolica), i quali nel cuor della notte in alcune regioni avrebbero fatto suonare le campane per ricordare ai coniugi i loro doveri. Anche queste forme di intervento lederebbero la libertà «interiore», l’unica libertà; quella libertà che, per essere tale, deve rifiutare leggi, richiami, indicazioni, guide spirituali (istituzionali e personali). In breve, la libertà deve essere esercitata con il solo criterio della libertà, cioè con nessun criterio. Non è la verità, quindi, che rende liberi come si legge nel Vangelo (Gv. 8, 32), ma la libertà. La libertà rivendicata da Lutero è la libertà gnostica, quella cioè che si rifiuta di liberamente servire, perché intende solamente dominare, affermando se stessa.
5. Le conseguenze – anche gravi – di questo modo di intendere la libertà non sono mancate. L’epoca moderna è caratterizzata proprio da queste. Il cosiddetto «principio di immanenza» proprio della Riforma ha rivoluzionato ogni settore della vita.
5a) Sul piano della conoscenza esso ha significato il passaggio dal teoretico al teorico. La metafisica è stata abbandonata. Dichiarata inaccessibile o inutile, è stata sostituita dalla verità costruita e, quindi, convenzionale. È significativo che Hegel (un luterano coerente, come si è detto, e un pensatore di classe) abbia sostenuto che la verità è solo la verità del sistema: « la vera forma nella quale la verità esiste – scrisse, infatti, il filosofo tedesco – può essere soltanto il sistema scientifico di essa». Dunque l’incontrovetibilità starebbe nella sola coerenza rispetto a premesse assunte acriticamente come fondative del sistema medesimo. La filosofia si fa, così, scienza come essa è intesa dallo scientismo. Perciò la filosofia sarebbe per definizione nichilista in quanto, prima ancora, sarebbe convenzionale. La convenzionalità del sapere è, però, l’autonegazione del sapere. La convenzionalità è necessariamente razionalistica in quanto il sistema è elaborato a tavolino e sovrapposto alla realtà. Prima ancora di Hegel, un altro pensatore a intermittenza protestante sotto il profilo formale ma sempre di cultura e di formazione protestante (anche per i brevi periodi nei quali si fece formalmente cattolico), aveva sostenuto che per «leggere» la realtà bisogna elaborare prima i criteri con i quali leggerla. Non la realtà era (ed è) da considerarsi condizione del pensiero, ma questo condizione della realtà:«prima di osservare – sostenne, infatti, Rousseau – bisogna farsi delle norme per le proprie osservazioni; bisogna farsi una scala per riferirvi le misure che si prendono». Per la vera filosofia, quindi, con la Riforma e a causa della Riforma, inizia un periodo di crisi, contrariamente a quanto comunemente si pensa. La cosa è grave, perché dalla convenzionalità del sapere derivano le illusioni dei sistemi e degli antisistemi; deriva la inutile corsa ai miraggi, erroneamente scambiati con la realtà. La crisi profonda in cui versa attualmente anche la Chiesa (cattolica) è, in parte, dovuta proprio alla scomparsa del sapere metafisico, non solo non ricercato ma combattuto. Il convincimento secondo il quale dottrine (sul piano filosofico) e dogmi (sul piano teologico) è bene che non vengano né ricercati, né riproposti, né considerati è diffuso anche a livello di cultura antropologica. Per surrogare la metafisica si ricorre, poi, sempre più frequentemente alle «scelte condivise», le quali offrono verità «sociologiche», sempre cangianti e prive di reale fondamento. Si ritiene di sfuggire al relativismo, istituzionalizzandolo e facendo, così, dipendere la «verità» dalle mode e dai tempi. Su queste premesse la Chiesa nulla avrebbe da dire agli uomini.
5b) Sul piano morale la Riforma ritiene che l’etica dipenda dalla coscienza soggettiva: è bene ciò che il soggetto avverte essere bene, è male ciò che il soggetto avverte essere male. Il bene e il male dipendono, dunque, dal soggetto. Egli ne è il dominus. La coscienza è considerata facoltà naturalistica, fonte del bene e del male. Rousseau, dopo Lutero ma in continuità con Lutero, dirà che la «coscienza è la voce dell’anima». Essa non inganna mai. Essa è la vera (e sola) guida dell’uomo: essa è per l’anima ciò che l’istinto è per il corpo. La coscienza, dunque, pare esaltata. In realtà è umiliata, ridotta in ultima analisi a «pulsione ed istinto» dello spirito inteso come soggettività caratterizzata dalla «libertà negativa». Una specie di vitalismo che fa dell’uomo una creatura senza ragione, senza autonomia e senza responsabilità: «autentico», nel senso dell’immediata spontaneità; un essere, dunque, innocente. Può sembrare strana questa dottrina della coscienza che dovrebbe dischiudere all’ottimismo il quale sembrerebbe non solo lontano ma opposto al «pessimismo» luterano. Così, invece, non è. Lutero, infatti, pone le premesse per l’elogio di questa coscienza/non coscienza, per il nichilismo etico che finisce, per esigenze di sola convivenza, per cercare punti di appoggio nella legge positiva dello Stato o nella normatività sociologica. La dottrina dello Stato etico, vale a dire creatore dell’etica, di Hegel ne è la conferma.
5c) Sul piano politico la dottrina di Lutero sta all’origine dello Stato moderno, concepito come strumento di castigo per la malvagità umana. Lo Stato è necessario a causa di questa. Lutero anche a causa della sua formazione agostiniana (qualcuno – Maritain, per esempio, – ha detto a causa di un agostinismo mal «letto»), ritiene che l’autorità non sia un bene in sé, sempre utile all’uomo (Tommaso d’Aquino, per esempio, la considerò al contrario indispensabile anche nel paradiso terrestre; quindi anche prima del peccato originale). Essa è un «male necessario», come continuano a ripetere molti. Lo Stato moderno, inoltre, soprattutto a partire dalla pace di Augusta (1555), si fece «intollerante». Tanto «intollerante» da costringere molti protestanti ad abbandonare l’Europa per poter preservare le proprie, sia pure erronee, convinzioni circa la coscienza, la libertà e la religione. La dottrina luterana rafforza, sia pure in virtù di un articolato e graduale processo, l’assolutismo, che non tarderà a «ribaltarsi» nella democrazia moderna, in particolare invocando la sovranità popolare, la quale è l’«altra» strada, rispetto a quella dello Stato moderno «forte», per affermare la «libertà negativa», la volontà senza ragione, l’assoluto primato dell’uomo su ogni ordine, compreso quello della creazione.
5d) Da qui lo stravolgimento del significato di «popolo». Lutero, da una parte, raccoglie a questo proposito fermenti già presenti nei secoli medioevali e valorizza quindi dottrine già elaborate; dall’altra, inietta in queste alimento con la sua teoria della coscienza e della libertà. Il popolo diviene politicamente un insieme di individui assolutamente liberi di determinare il loro destino sulla base della sola volontà. È il popolo «sovrano» che, come il «Sovrano» dell’assolutismo, dipende (per usare le parole di Bodin) unicamente dal potere della propria spada. Il potere diventa la fonte di «legittimazione» dell’agire. Non, dunque, la «potestas» e nemmeno l’«auctoritas», anche se questi termini si conservano, si usano e si continuerà ad usarli impropriamente come attributi caratteristici del cosiddetto «potere politico». Il potere brutale nella dottrina di Lutero è considerato caratteristica della politica. Convincimento, questo, attualmente generalmente diffuso. Si tratta di un errore conseguente alla trasformazione della verità in verità del sistema o, peggio, in verità come tale assunta in virtù o di convenzioni o dell’effettività sociologica. Tutto questo è evidente nello slogan (eretto a criterio) «politicamente corretto», che significa semplicemente «coerente» rispetto al sistema. Non vanno cercati, quindi, il fondamento e la legittimità dell’esercizio del «potere politico» (anche se di fatto, poi, vengono erroneamente individuati nel «consenso» moderno). Quello che rileva è che l’esercizio del potere non rappresenti una smentita delle premesse del sistema (assunte come vere) o una applicazione incoerente del sistema medesimo.
5e) Come è stato giustamente sottolineato (cfr. G. SANTOANASTASO, Le dottrine politiche da Lutero a Suarez, Milano, Mondadori, 1946, p. 11), la Riforma, per quel che riguarda il suo aspetto politico, è contraddittoria: da una parte, infatti, essa utilizza (impropriamente) la concezione sacra dell’autorità, ereditata dal Medioevo; dall’altra, poggiandosi soprattutto sulla nuova dottrina della coscienza e sulla teoria del libero esame, pone – come si è detto – le premesse della sovranità (sia essa quella dell’Assolutismo, si essa quella popolare). Ciò vale anche per quel che attiene alla concezione della Chiesa, la quale sia a causa della considerazione di Gesù come solo testimone, sia a causa dell’applicazione della tesi secondo la quale «omnes in Christo sumus sacerdotes et reges, quicumque in Christum credimus» – come scrive testualmente Lutero nel De libertate christiana (Weimar, vol. VII, p. 56) – subisce un radicale cambiamento. Essa non è vista e definita come un organismo (un corpo, sia pure mistico, visibile), fondato da Cristo e animato dallo Spirito Santo, ma come una mera organizzazione. La Chiesa come società/istituzione diventa, così, (almeno virtualmente) nemica del popolo: tra popolo e società ci sarebbe una contrapposizione che deve essere risolta a favore del popolo cui spettano simultaneamente sacerdozio, profezia e regalità. Alla società perfetta dei congregati battezzati che professano la stessa fede e legge di Cristo, partecipano agli stessi sacramenti e obbediscono ai legittimi Pastori, principalmente al Papa, viene sostituita l’associazione dei predestinati che dànno vita a una comunità puramente spirituale, priva di gerarchia. È il «popolo», infatti, detentore dei munera, e, perciò, i suoi Pastori da esso dovrebbero dipendere.
6. Non sono queste le uniche questioni poste dalla Riforma. Anche limitandoci a queste, però, pare che Lutero non possa essere proposto come modello delle «grandi riforme» di cui attualmente ha bisogno la Chiesa. Volutamente, poi, non si sono qui considerati gli aspetti morali, quelli oggettivamente noti, della personalità di Lutero. Pur essendo questioni morali gravi non è sembrato opportuno insistere (come ha fatto in passato certa pubblicistica cattolica) sull’omicidio compiuto da giovane, sulla sua scelta di «sposare» una monaca, sulle sue abitudini non certo esemplari per quanto riguarda alcuni vizi che la Chiesa giustamente definisce peccati. Non lo ha fatto nemmeno il Concilio di Trento che ha mantenuto un livello teologico alto pur contrapponendosi alla Riforma. Si dirà che le questioni dottrinali dividono. Soprattutto oggi si assegna un primato alla prassi. La prassi, però, dipende sempre (implicitamente o esplicitamente) dalla teoria. Comunque, anche il primato della prassi è questione che non si può considerare priva di problemi. Anche su questi sarà opportuno tornare. Quelle presentate sono alcune riflessioni e alcune considerazioni preliminari per un discorso (da farsi) più ampio e più approfondito.


Fonte: Instaurare, maggio-agosto 2015