giovedì 7 luglio 2016

L’influenza delle concezioni filosofiche sull’evoluzione delle teorie scientifiche

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Pubblichiamo questo interessante contributo del 1954. Grassettature e sottolineature nostre. Alexandre Koyré, De l’influence des conceptions philosophiques sur l’évolution des theories scientifiques, conferenza pronunciata alla American Association for the Advancement of Science, Boston, 1954, pubblicata in Etudes d’histoire de la pensée philosophique, Gallimard, Paris 1971, pp. 256-269, tr. it. di Alberto Strumia; rinvenuto su: disf.org. [RS]

di Alexandre Koyré - Fonte: http://www.radiospada.org/
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In questo saggio, lo storico della scienza Alexandre Koyré (1982-1964) presenta le sue riflessioni a sostegno di una triplice tesi:
a) il pensiero scientifico non è mai stato del tutto separato dal pensiero filosofico;
b) le grandi rivoluzioni scientifiche sono sempre state determinate da grandi rivolgimenti o cambiamenti delle concezioni filosofiche;
c) il pensiero scientifico (comprendendo in esso le scienze fisiche) non si sviluppa in vacuo, ma sempre all’interno di un quadro di idee, di princìpi fondamentali, di evidenze assiomatiche, che abitualmente vengono considerate come appartenenti propriamente alla filosofia. Alcuni fra i principali libri di A. Koyré vengono inclusi nella Bibliografia tematica “Storia del pensiero scientifico” alla sezione di Orientamento Bibliografico del Portale disf.org.
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La storia del pensiero scientifico ci insegna (come cercherò di sostenere) queste tre cose:
— che il pensiero scientifico non è mai stato del tutto separato dal pensiero filosofico;
— che le grandi rivoluzioni scientifiche sono sempre state determinate da grandi rivolgimenti o cambiamenti delle concezioni filosofiche;
— che il pensiero scientifico — e parlo delle scienze fisiche — non si sviluppa in vacuo, ma sempre all’interno di un quadro di idee, di princìpi fondamentali, di evidenze assiomatiche, che abitualmente vengono considerate come appartenenti propriamente alla filosofia.
Con questo non intendo, ben inteso, negare l’importanza della scoperta di fatti nuovi, né quella della tecnica, e nemmeno l’autonomia e l’autologia dello sviluppo del pensiero scientifico. Ma questa è un’altra faccenda di cui non avrei intenzione di parlare in questa sede.
Quanto a sapere se l’influenza della filosofia sull’evoluzione del pensiero scientifico sia stata buona o cattiva, è un problema che, a dire il vero, da un lato non ha molto senso, perché viene da notare che la presenza di un ambiente e di un quadro filosofico è una condizione inevitabile per l’esistenza stessa della scienza, e dall’altro è un problema profondo perché ci riporta al problema del progresso — o della decadenza — del pensiero filosofico in quanto tale.
Infatti, se si risponde che le buone filosofie hanno un effetto buono e quelle cattive uno meno buono, si finisce fra Scilla e Cariddi, perché bisogna riuscire a scoprire quali sono quelle buone… Mentre le si valutano dai loro frutti, cosa del tutto naturale, si rischia di cadere, come ha mostrato Descartes in un caso analogo, in un circolo vizioso.
E inoltre bisogna diffidare delle valutazioni troppo precipitose — quello che era ammirevole ieri, può non esserlo più oggi, e viceversa, quello che ieri era ridicolo oggi può non esserlo più. La storia mostra non pochi esempi di questi corsi e ricorsi di capovolgimenti e se, in certi casi essa ci insegna l’epoché, in ogni caso ci insegna almeno la prudenza.
[…] La rivoluzione scientifica del XVII secolo, epoca della nascita della scienza moderna, ha di per sé una storia assai complicata. Ma, dal momento che ho già trattato questo argomento in altri lavori, mi permetterete di essere rapido. La caratterizzerò con i seguenti tratti:
— Distruzione del Cosmos, cioè sostituzione al mondo finito e gerarchicamente ordinato di Aristotele e del Medio Evo, di un universo infinito, legato in sé all’identità dei suoi elementi e dall’uniformità delle leggi.
— Geometrizzazione dello spazio, cioè sostituzione dello spazio concreto (insieme di “luoghi”) di Aristotele con lo spazio astratto della geometria euclidea, d’ora in poi considerato come reale.
Si potrebbe aggiungere — ma lo dirò anche in seguito — sostituzione della concezione del moto-come-stato a quella del moto-come-processo.
Le concezioni cosmologiche o fisiche di Aristotele hanno, in genere una pessima fama, che si spiega, secondo me, soprattutto:
a) per il fatto che la scienza moderna è stata in opposizione ed è in lotta contro quella di Aristotele, e
b) per il persistere nella nostra coscienza della tradizione storica e dei giudizi di valore degli storici del XVIII e XIX secolo. Per costoro, infatti, per i quali le concezioni newtonianae erano non solo vere, ma anche evidenti e naturali, l’idea stessa di un Cosmos finito appariva ridicola e assurda. E hanno riso di Aristotele perché ha attribuito al mondo delle dimensioni finite, perché ha pensato che i corpi potessero muoversi senza essere trainati o spinti da forze esterne, per la sua credenza che il moto circolare fosse un moto di una specie particolarmente importante, e perché lo ha chiamato movimento naturale!
Sappiamo oggi — ma non l’abbiamo ancora accettato o ammesso — che tutto ciò non è forse poi così ridicolo e che Aristotele poteva avere più ragioni di quanto lui stesso si rendesse conto. Anzitutto il moto circolare sembrava essere particolarmente presente nel mondo, e particolarmente importante: tutto ruota e gira, a quanto pare, le galassie e le nebulose, gli astri, i soli e i pianeti, gli atomi e gli elettroni… anche i fotoni sembrano non fare eccezione alla regola.
Quanto al moto spontaneo dei corpi sappiamo bene, dopo Einstein, che una curvatura locale dello spazio può produrre bene dei moti di questo tipo; sappiamo anche o riteniamo che il nostro universo non sia affatto infinito — pur non avendo limiti, contrariamente a quanto credeva Aristotele — e che “fuori” di questo universo non c’è rigorosamente niente, perché non c’è un “fuori” e tutto lo spazio è “dentro” [Koyré si riferisce evidentemente qui ad un modello di universo chiuso, ndt].
È precisamente quello che credeva Aristotele, il quale non avendo a disposizione le risorse della geometria riemanniana, insisteva nell’affermare che fuori del mondo non c’è niente,pienovuoto, e che tutti i luoghi, cioè tutto lo spazio essendo all’interno, sono dentro (cfr. Le vide et l’espace infini au XIVe siècle, in “Archives d’histoire doctrinale et littèraire du Moyen Age”, 1949).
La concezione aristotelica non è una concezione matematica — ecco la sua debolezza, ma anche la sua forza — è una concezione metafisica. Il mondo di Aristotele non è un modo dotato di una curvatura geometrica: è, se così si può dire, metafisicamente curvo.
I cosmologi di oggi, quando chiediamo loro di spiegarci la struttura del mondo einsteiniano e post-einsteiniano, con il suo spazio curvo e finito benché illimitato, ci dicono abitualmente che si tratta di concezioni matematiche molto difficili e che, se tra di noi c’è qualcuno che manca della formazione matematica necessaria, non riuscirà ad averne una comprensione adeguata. Ed è giusto, senza dubbio. Ma è interessante notare che i filosofi medioevali, quando dovevano spiegare a dei profani — o a dei loro allievi — la cosmologia di Aristotele, dicevano qualcosa di analogo, tipo, che si trattava di concezioni metafisiche molto difficili, e che quelli che non avevano una formazione filosofica sufficiente e non potevano elevarsi al grado dell’immaginazione geometrica, non avrebbero capito, e avrebbero continuato a porre dei problemi (stupidi) come per esempio: Che cosa c’è fuori del mondo? o anche: Dove si arriverebbe se si ponesse un bastone attraverso la superficie ultima della volta celeste?
La difficoltà reale della concezione aristotelica consiste nella necessità di collocare una geometria euclidea all’interno di un universo non euclideo, in uno spazio metafisicamente curvo e fisicamente differenziato. Ma questo non preoccupò molto Aristotele. La geometria per lui non era una scienza fondamentale del reale, espressiva della sua struttura essenziale e profonda; ma una scienza astratta che costituiva, al più, un coadiuvante della fisica, che invece, era la scienza delle cose come sono realmente. I fondamenti della scienza vera del mondo reale sono la percezione e non la speculazione matematica, l’esperienza e non il ragionamento geometrico a priori.
La situazione fu, invece più difficile per Platone che ebbe in animo di legare insieme l’idea di Cosmos con un tentativo di costruire il mondo del divenire, del movimento, e dei corpi a partire dal vuoto, cioè dallo spazio puro (chóra) totalmente geometrizzato. La scelta tra queste due concezioni — quella dell’ordine cosmico e quella dello spazio geometrico — fu inevitabile, pur essendo intervenuta solo molto tardi, cioè nel XVII secolo, quando venne presa in seria considerazione la geometrizzazione dello spazio e i creatori della scienza moderna si trovarono a rigettare la concezione del Cosmos.
Mi sembra evidente che questa rivoluzione, che ha sostituito al mondo qualitativo del senso comune e della vita quotidiana il mondo archimedeo della geometria reificata, non possa essere spiegata adeguatamente con l’influenza di un’esperienza più ricca e più vasta di quella che ebbero gli antichi — Aristotele — a loro disposizione.
Come ha dimostrato P. Tannery la scienza aristotelica sussisteva da così tanto tempo perché fondata sulla percezione sensibile; essa era veramente empirica, e si accordava molto meglio con l’esperienza comune che non quella di Galileo e Descartes.
Infatti, i corpi pesanti cadono naturalmente in basso, il fuoco punta naturalmente verso l’alto, il Sole e la Luna si levano e tramontano e i corpi, una volta lanciati, non continuano indefinitamente a muoversi in linea retta… Il moto inerziale non è certamente un fatto di esperienza, ma da questa viene continuamente contraddetto.
Quanto all’infinità dello spazio essa non può essere evidentemente oggetto di esperienza alcuna. L’infinito, come Aristotele ebbe più volte a sottolineare, non può essere oltrepassato e neppure raggiunto. Confrontato con l’eternità, un miliardo di anni è come nulla; confrontati con l’infinità spaziale i mondi che ci hanno rivelato i telescopi — compreso quello di Monte Palomar — non vanno più in là del mondo dei Greci. Ma l’infinità dello spazio è un elemento essenziale della struttura assiomatica della scienza moderna; è richiesta dalle leggi del moto, e in particolare dalla legge d’inerzia […].
La nascita della scienza moderna è concomitante a una trasformazione — una mutazione — dell’atteggiamento filosofico, di un capovolgimento del valore attribuito alla conoscenza intellettuale rispetto alla conoscenza sensibile, della scoperta del carattere positivo della nozione di infinito. E, dunque, è del tutto comprensibile che l’infinitizzazione dell’universo — “la rottura del cerchio” come l’ha chiamata Miss Nicholson (The Breaking of the Circle, Evanston 1950; cfr. il mio Dal mondo chiuso all’universo infinito) o “l’esplosione della sfera”, come preferisco chiamarla io, avvenuta ad opera di un filosofo, Giordano Bruno, per ragioni scientifiche, empiriche — sia stata violentemente combattuta da Keplero.
Giordano Bruno non è certo un grande filosofo, né un migliore scienziato. E le ragioni che adduce dell’infinità dello spazio e del primato intellettuale dell’infinito non sono molto soddisfacenti (Bruno non è Descartes). Tuttavia non è un caso unico — ve ne sono molti altri, non solo in filosofia, ma anche nel campo della scienza pura: pensiamo a Keplero, a Dalton o allo stesso Maxwell — in cui un ragionamento non corretto, fondato su premesse inesatte ha condotto a dei risultati importanti.
La rivoluzione del XVII secolo, che ho chiamato “la rivincita di Platone”, è stata in realtà l’effetto di un’alleanza. Quella di Platone con Democrito. Strana alleanza! Ma come è accaduto nella storia che il Grande Turco si sia alleato con il Re Cristianissimo — i nemici dei nostri nemici sono nostri amici — o, per tornare alla storia del pensiero filosofico-scientifico, quale alleanza fu più strana di quella, più recente, tra Einstein e Mach?
Atomi democritei in uno spazio platonico — ovvero euclideo —: è chiaro che Newton avesse bisogno di un Dio per mantenere un simile legame tra gli elementi costitutivi del suo universo. Si comprende bene, allora, il carattere strano di questo universo — e nondimeno ci rendiamo conto che il XIX secolo è stato troppo avvezzo ad esso per percepire questo carattere di stranezza — strano nei suoi elementi materiali, oggetto di un’estrapolazione teorica, immersi senza esserne toccati, nel non-essere necessario ed eterno, oggetto di una conoscenza a priori, dello spazio assoluto. Si comprende altrettanto bene l’implicazione rigorosa di questo assoluto — spazio, tempo, movimento assoluti — rigorosamente inconoscibile, se non per il pensiero puro, attraverso dei dati relativi — spazio, tempo, movimento relativo — i soli accessibili.
La scienza moderna, la scienza newtoniana, è assolutamente legata a questa concezione di spazio assoluto, di movimento assoluto. Newton, buon metafisico quanto fu buon fisico e buon matematico, l’ha perfettamente riconosciuto. E con lui i suoi grandi discepoli, McLaurin e Eulero e il più grande Laplace: solo su queste basi gli Axiomata seu leges motu sono validi e hanno senso.
Altre controprove vengono dalla storia. Basti Hobbes che non accetta la nozione di uno spazio separato dai corpi e, quindi, non comprende la nuova concezione galileiana, cartesiana del moto. Non era un matematico. Non è a caso che John Wallis un giorno dichiarasse che è più facile insegnare a parlare a un sordomuto che far capire al Dr. Hobbes il senso di una dimostrazione geometrica. Leibniz, al contrario, come genio matematico è nulli secundus ed è, dunque, un campione molto migliore. Ma, cosa strana, per quel che riguarda la dinamica, sarà Hobbes il modello a cui si rifà Leibniz. Questi, non meglio di Hobbes, non ha mai ammesso l’esistenza di uno spazio assoluto, e perciò non ha mai potuto comprendere il vero senso del principio d’inerzia. Ma non tutto il male viene per nuocere: come si sarebbe altrimenti arrivati il principio di minima azione? Infine possiamo citare Einstein stesso: è chiaro che nella fisica di Einstein la negazione del moto e dello spazio assoluto comportano immediatamente la negazione del principio d’inerzia.
Ma torniamo a Newton. È impossibile, dice, che ci sia un solo corpo in tutto il mondo che sia veramente a riposo e che, inoltre, sia impossibile distinguerlo da un altro corpo in moto uniforme. È vero, dunque, che non possiamo né potremo mai — benché Newton sembri nutrire una certa speranza — determinare il moto assoluto — uniforme — di un corpo, cioè il suo moto rispetto allo spazio, ma possiamo solamente determinare il suo moto relativo, cioè il suo moto rispetto ad altri corpi, del moto assoluto dei quali — fintanto che si tratta di moti uniformi e non sono presenti delle accelerazioni — abbiamo altrettanto poche informazioni che su quello del primo corpo. Ma questa osservazione non è una obiezione contro le nozioni di spazio, tempo e moto assoluto; è al contrario, una conseguenza rigorosa della loro struttura.
Inoltre è chiaro come nel mondo newtoniano è infinitamente improbabile che un corpo si trovi proprio in riposo assoluto; è quasi del tutto impossibile che si trovi in uno stato di moto rigorosamente uniforme. In ogni caso la scienza newtoniana non può fare a meno di utilizzare queste nozioni.
Nel mondo e nella scienza newtoniani — contrariamente a ciò che pensava Kant che li aveva distorti, ma attraverso la sua interpretazione aprì la strada a un’epistemologia e a una metafisica nuove, fondamento possibile di una fisica non newtoniana — non sono le condizioni del sapere che determinano l’essere fenomenico degli oggetti di questa scienza — o dei suoi enti — ma, al contrario, è la struttura oggettiva dell’essere che determina il ruolo e la nostra facoltà di sapere. Rifacendoci a una formula di Platone potremmo dire: nella scienza newtoniana e nel mondo newtoniano non è l’uomo, ma è Dio che è misura delle cose. I successori di Newton se ne sono potuti dimenticare, hanno potuto credere di non aver bisogno dell’ipotesi di Dio, impalcatura ormai inutile di una costruzione che stava in piedi da sola: ma si erano ingannati; privo del supporto divino il mondo newtoniano si è trovato instabile e precario. Altrettanto instabile e precario che il mondo di Aristotele che aveva sostituito.
L’interpretazione della storia e della struttura della scienza moderna che sto proponendo non è certo la communis opinio doctorum, o almeno non lo è ancora, anche se, penso, potrà diventarlo. Ma ancora non ci siamo arrivati. Infatti, l’interpretazione più comune è del tutto differente. È ancora un’interpretazione positivista, pragmatista.
Gli storiografi di tendenza positivista hanno l’abitudine di insistere, a proposito dell’opera di Galileo e Newton, sull’aspetto, sul taglio sperimentale, empirista, fenomenista; sulla rinuncia alla ricerca delle cause per la ricerca delle leggi, sull’abbandono della domanda: perché? e la sua sostituzione con la domanda: come?
Interpretazione non del tutto priva di fondamento storico: il ruolo dell’esperienza, o meglio della sperimentazione, nella storia delle scienze è evidente; le opere di Gilbert, Galileo e di Boyle, ecc., sono piene di lodi della fecondità dei metodi sperimentali in opposizione alla sterilità della speculazione. E quanto al preferire la ricerca delle leggi a quella delle cause, tutto il mondo conosce il famoso passo dei Discorsi di Galileo, nel quale annuncia che sarebbe infecondo e inutile discutere delle teorie causali della gravità proposte dai suoi contemporanei o dai suoi predecessori, dal momento che nessuno sa che cosa sia la gravità — che non è che un nome — e che è molto meglio accontentarsi di stabilire la legge matematica della caduta.
È altrettanto noto il passo dei Principia dove Newton, sempre a proposito della gravità, nel frattempo divenuta attrazione universale, dice che, fino a quel momento non è stato capace di scoprire la causa «delle proprietà della gravità (e quindi) dei fenomeni» e che non «fa» ipotesi esplicative «perché ciò che non discende dai fenomeni si deve chiamare ipotesi e le ipotesi, tanto fisiche che metafisiche, meccaniche o (supponenti) qualità occulte, non devono aver posto nella filosofia sperimentale. In questa filosofia le proposizioni particolari si devono inferire dai fenomeni, e in seguito, rendere generali per induzione». In altri termini le relazioni, stabilite mediante l’esperienza, vengono trasformate in leggi per induzione.
Dunque, è comprensibile che secondo un gran numero di storici e filosofi, questo aspetto legalista, fenomenista, positivista della scienza moderna sia apparso come la sua essenza, o come il suo proprium, e sia stato contrapposto alla scienza realista e deduttiva del Medio Evo e dell’Antichità.
A questa interpretazione vorrei rivolgere alcune obiezioni:
a) Mentre il carattere legalista della scienza moderna è del tutto indubitabile, ed è stato estremamente fecondo e ha permesso agli scienziati del XVIII secolo di dedicarsi allo studio matematico delle leggi fondamentali dell’universo newtoniano — studio che culmina nell’opera mirabile di Lagrange e Laplace, che però trasformarono la legge di attrazione in causa e in forza — tuttavia il suo carattere fenomenista è molto meno appariscente; infatti non sono i phainómena [ciò che appare], ma le noetá [le cose percepite con l’intelligenza] che si trovano legate insieme tramite delle relazioni causalmente non spiegate — o inspiegabili. Non sono i corpi dell’esperienza comune, ma i corpi astratti, le particelle e gli atomi del mondo newtoniano che sono i relata, o fundamenta delle relazioni matematiche stabilite dalla scienza;
b) L’autointerpretazione e l’autorestrizione non sono per nulla un fatto moderno. Come già rilevarono Schiaparelli, Duhem e altri, sono fatti antichi come la scienza stessa, e come tutte le cose, o quasi, sono stati inventati dai Greci. Il compito della scienza astronomica, spiegavano gli astronomi alessandrini, non è quello di scoprire i meccanismi reali dei moti planetari, che non siamo in grado di conoscere, ma solamente quello di salvare i fenomeni, sózein tà phainòmena, e costruire, sulla base empirica delle osservazioni, un sistema di cerchi e di movimenti immaginari — un trucco matematico — che ci permetta di calcolare e predire le posizioni dei pianeti in accordo con le osservazioni future.
[…] Mi sembra, quindi lecito concludere in via provvisoria, almeno, che l’insegnamento della storia ci mostra:
a) che la rinuncia — la rassegnazione — positivista è una posizione di ritirata che dura solo un certo tempo e che, se lo spirito umano, nell’investigazione del sapere assume periodicamente questo atteggiamento non lo accetta definitivamente — non lo ha mai fatto finora —; presto o tardi smette di fare di necessità virtù e di compiacersi della propria sconfitta. Presto o tardi torna all’attacco, si rimette a cercare la soluzione, inutile o impossibile, di problemi che erano stati dichiarati privi di senso, cerca di trovare un spiegazione, causale e reale, delle leggi che ha istituito e accettato come valide;
b) che l’atteggiamento filosofico, che a lungo andare si rivela giusto, non è l’empirismo positivista o pragmatista, ma al contrario quello del realismo matematico. In breve non l’atteggiamento di Bacone o di Comte, ma quello di Descartes, Galileo e Platone.
Se ci fosse ancora tempo potrei presentare esempi del tutto analoghi, tratti dalla storia dello sviluppo di altri campi della scienza. Potremmo, ad esempio seguire lo sviluppo della termodinamica dopo Carnot e Fourier — è risaputo che furono i corsi di Fourier ad ispirare August Comte — e vedere che cosa è avvenuto alla termodinamica quando è passata in mano a Maxwell, Boltzmann e Gibbs; senza dimenticare la reazione, significativa per il suo successo, di Duhem.
Potremmo prendere in considerazione l’evoluzione della chimica, in cui malgrado l’opposizione — più che “ragionevole” — di alcuni grandi chimici, la “legge” delle proporzioni definite venne sostituita con una concezione atomistica e strutturalista della realtà, con il risultato di ottenere una spiegazione di quella legge.
Potremmo analizzare la storia del sistema periodico, che qualche tempo fa il mio collega e amico G. Bachelard ha presentato come esempio perfetto di “pluralismo coerente” e vedere che cosa è successo con Rutherford, Moseley e Niels Bohr.
Ancora analizzare la storia dei princìpi di conservazione, princìpi metafisici se si vuole, per mantenere i quali si è obbligati, di volta in volta, a postulare degli oggetti — come il neutrino — non osservati o non osservabili all’epoca in cui sono stati postulati, cosicché la loro esistenza sembra non avere altro significato che il mantenimento della legge di conservazione.
Ritengo che si possa arrivare a conclusioni perfettamente analoghe prendendo in considerazione — e penso che già si possa cominciare a farlo — la storia della rivoluzione scientifica del nostro tempo fino a noi.
È fuor di dubbio che è stata una riflessione di carattere filosofico che ha ispirato l’opera di Einstein, per cui si può dire, come per Newton che fu filosofo nel mentre che fu fisico. È manifestamente chiaro che la negazione risoluta e appassionata dello spazio assoluto, del tempo assoluto, e del moto assoluto — negazione che in certo qual modo prosegue quella iniziata da Huygens e Leibniz — si basa su un principio metafisico.
E non sono gli assoluti in quanto tali ad essere messi in proscrizione. Nel mondo di Einstein e nella scienza einsteiniana ci sono, in effetti degli assoluti — più modestamente vengono chiamati invarianti e costanti — come la velocità della luce o l’energia totale dell’universo, cose che farebbero inorridire un newtoniano, ma si tratta di assoluti che non vengono supposti fondati sulla natura delle cose.
[…] E così la filosofia — e può non essere quella che si insegna nelle Facoltà universitarie, e fu così anche ai tempi di Galileo e Descartes — è ridiventata la radice di un tronco che è la fisica e di cui la meccanica rappresenta il frutto.