martedì 17 gennaio 2012

La nascita del separatismo siciliano ottocentesco



La Sicilia è un’isola, abbastanza grande, in mezzo al Mediterraneo ma in situazione sempre periferica (non solo geograficamente) rispetto ai grandi potentati politici e militari. È stata sempre provincia, è vero, ma una provincia “speciale”. È stata con la Grecia, con Roma, con l’Islam, con Bisanzio, con il Sacro Romano Impero, con la Spagna, ma è sempre riuscita a mantenere la sua peculiarità. Ha dimostrato la sua diversità anche nei confronti del Papato. Col papa si, ma rappresentata dal proprio re come “legato”, non soggetta quindi, ma autonoma anche dalla Chiesa. Lo stesso Marx, commentando l’insurrezione antiborbonica del 4 aprile 1860 capeggiata da Francesco Riso (in realtà le insurrezioni furono due e contemporanee: una popolare, capeggiata da Francesco Riso, idraulico, ed una aristocratica, capeggiata dal barone Riso, nobile. Coincidenze!), osservava che i siciliani hanno sempre lottato per ottenere non tanto l’indipendenza da qualche potenza straniera ma il diritto di vivere secondo le proprie leggi, secondo i propri costumi senza dover cambiare al cambiare delle dominazioni. Il diritto di essere “indipendenti” anche nella “dipendenza”. Anche Toqueville ha osservato che “i siciliani non erano nati per servire”.
Per meglio capire il fenomeno del separatismo, in generale, dobbiamo risalire all’affermarsi di quel processo che, nato dalla crisi del mondo medievale, ha dato origine alla formazione dei grandi stati nazionali.
Le grandi nazioni si sono formate a spese di nazioni più piccole o in maniera incruenta (perché la fusione forniva un vantaggio economico e culturale), o molto più spesso in maniera cruenta. In entrambi i casi all’interno delle nazioni più grandi sono rimasti i fantasmi di quegli stati più piccoli che a volte sopravvivono nelle tradizioni, nel linguaggio, nella nostalgia.
Queste “isole” hanno dato luogo a movimenti nazionalistici che, talvolta, sono sfociati in “separatismi” rivoluzionari.
Perché succede? Perché si formano i separatismi? Una risposta potrebbe essere questa: il non rispetto del giusto rapporto di convivenza tra la piccola comunità locale, con tradizioni proprie e diverse, e la comunità nazionale. La incapacità, in uno stato centralizzato che assicuri efficienza, potenza, civilizzazione, cultura, di assicurare quel tanto di decentramento che garantisca l’equilibrio tra i diritti e le esigenze dei singoli gruppi senza sconvolgere i diritti e le esigenze dell’intero paese. Questo significa consentire alle piccole comunità non egemoni la partecipazione paritaria, tramite i loro rappresentanti, al governo dello stato. Le piccole comunità, specie se hanno un passato che le connota di peculiarità e che si identificano proprio nel loro passato storico, si identificano nello stato di cui fanno parte e vi partecipano solo se sono riconosciute come “pari”. Quando questo non si verifica il “separatismo” diventa “reale” e spesso violento (F. Renda, Storia della Sicilia).
Il separatismo antinapoletano ottocentesco che si sviluppò in Sicilia ha anch’esso questa matrice.
Nessuna voglia o manifestazione di separatismo ci fu durante i primi 50 anni del regno meridionale da quando Carlo di Borbone venne in Sicilia per chiedere il voto favorevole al parlamento siciliano. Fu mantenuto il rispetto dell’ordinamento costituzionale siciliano e i dirigenti dell’isola partecipavano, in egual misura con quella napoletana al funzionamento dello stato. Carlo di Borbone ed i suoi successori riconoscevano inoltre l’autonomia del regno di Sicilia e il rispetto delle sue istituzioni, parlamento compreso. Carlo di Borbone, pur facendosi incoronare a Palermo, stabilì la sua corte a Napoli ma garantì la sua funzione in Sicilia tramite un vicerè che, da notare, poteva essere un italiano ma non un suddito partenopeo ed il governo della Sicilia, tranne il vicerè ed il suo segretario particolare, doveva essere costituito interamente da siciliani, mentre il governo centrale di Napoli doveva essere composto da napoletani e siciliani insieme, anche se scelti dal re.
Furono queste le condizioni che assicurarono per i primi 50 anni allo Stato borbonico meridionale prosperità, sviluppo e pace. Convivevano abbastanza pacificamente un regime assolutistico a Napoli ed un regime parlamentale (anche se feudale) a Palermo e ciò consentì sviluppo economico e civile. Si può dire che la monarchia borbonica fosse, in quel periodo, una delle più illuminate d’Europa e si sviluppò una “intellighentia” meridionale di alto livello internazionale.
Perché allora ad un certo punto iniziarono quelle lacerazioni che portarono alla catastrofe? Per meglio comprendere torniamo in Europa. E già! non possiamo prescindere dall’essere in Europa.
In quel periodo in Europa c’era una spinta a conseguire la centralizzazione dei poteri e ciò contrastava e non poco con le istituzioni siciliane e contrastava con il consolidato potere del baronaggio. In Sicilia, ma anche nel resto del meridione, non esisteva una forte borghesia commerciale, era tutto in mano alla nobiltà e questa guidava il processo di trasformazione della società in modo tale che, come ben descrive Vincenzo Cuoco, si avesse una trasformazione “passiva” in grado di mantenere quanto più possibile del vecchio nel nuovo, filtrandolo sempre attraverso il parlamento che, ricordo, era costituito da nobili, clero e rappresentanti delle municipalità demaniali.
In una situazione così complicata, di equilibri bizantini come poteva essere accettata la decisione calata dall’alto dell’allontanamento del marchese di Sambuca, siciliano e primo ministro a Napoli, e della nomina di un vicerè napoletano, il Caracciolo?
Due cose pesarono:
  1. L’ingresso della regina Maria Carolina nel 1775 nel Consiglio di Stato, dopo la nascita del principe ereditario, che significava sottoporsi all’influenza austriaca
  2. L’allontanamento di Tanucci, nel 1777, e la sua sostituzione con il principe di Sambuca che significava, in parole povere, liberarsi dall’influenza spagnola.
Sciolto l’asse Napoli-Madrid, si costituì l’asse Napoli-Vienna e con esso una collaborazione stretta con la Gran Bretagna, tant’è che si costrinse alle dimissioni il Sambuca e lo si sostituì con John Acton. Il Caracciolo, in qualità di viceré si scontrò subito con la realtà isolana. Né lui accettava i siciliani né i siciliani accettavano lui. E lui non era una cattiva persona….ma erano stati violati e per sempre i diritti dell’isola. Non voglio parteggiare per l’isola, né dire che era dalla parte della ragione. Ma è stato un errore diplomatico, un’ imposizione dall’alto! Era successo una sola volta, in precedenza, con gli Angjou e ci furono i Vespri ( non rivolta di popolo come si crede, ma frutto di un decennio di preparazione).
Persone come De Cosmi, Giuseppe Balsamo, Tommaso Natale, parliamo di giuristi e pedagoghi, non di gente qualunque, furono emarginati e sostituiti da napoletani. Nessun siciliano fu più chiamato!
La nobiltà siciliana si chiuse in se stessa e cominciò a preparare la propria difesa, ispirandosi al modello inglese, i “baroni” cercarono di trasformare il parlamento feudale in uno costituzionale; dichiararono di avversare il governo nell’interesse della nazione rappresentata da loro e non dai ministri partenopei. Certo giuridicamente non era accettabile ma era un tentativo per rinnovare la politica. I nobili siciliani, “i baroni”, si dichiaravano sudditi fedeli e leali a sua Maestà MA sua Maestà non poteva non rispettare i “baroni” e se questi non avessero avuto rispetto non avrebbero rispettato il Re.
Durante i viceregni di Caracciolo e Caramanico*[1] in Sicilia furono varati due provvedimenti di riforma: la liquidazione del demanio fondiario dei comuni e la concessione in enfiteusi dei fondi ecclesiastici di regio patronato. Quando i sovrani napoletani scapparono e si rifugiarono a Palermo, nel 1798-99 , la direzione ministeriale rimase nelle mani degli inglesi, nella persona di Acton. Ferdinando fece credere ad un trasferimento definitivo della Casa reale; furono costruite ville, acquisiti parchi per la caccia, fu realizzata la palazzina cinese e la reggia di Ficuzza. Ma una volta rientrati a Napoli, i Borbone non rispettarono i patti.
Ma il destino non sempre è gentile. I Borbone dovettero tornare nuovamente nell’Isola ma questa volta non furono bene accetti: non avevano mantenuto le loro promesse. I Borbone dovettero chiedere un sussidio agli inglesi (vi rendete conto voi che leggete della sudditanza del Regno delle Due Sicilie?) Ma non bastò e si dovette ricorre alle tasse. Di Chi? della Sicilia! Il ministro Medici si era reso conto della situazione e aveva consigliato di rinunciare ai tributi siciliani, ma Maria Carolina, non tanto Ferdinando, non volle sentire ragione. In Sicilia però solo il parlamento poteva autorizzare nuove tasse. Il ministro Medici era conscio del pericolo e aveva consigliato di rinunciare ai tributi siciliani, ma Maria Carolina insistette. La proposta di nuove tasse fu presentata al parlamento e , come ci si poteva attendere fu clamorosamente bocciata in virtù del lavoro di fronda guidato da Paolo Balsamo, economista, e dal principe di Belmonte. Il Medici fu costretto alle dimissioni ed i reali nominarono un nuovo governo tutto siciliano, è vero, ma di amici della corona.
Nonostante il parere contrario del Medici e senza chiedere il parere del parlamento fu imposta la tassa dell’1% sulle entrate.
Questa rappresentava una evidente violazione della costituzione siciliana ed in risposta fu presentata una petizione di protesta ma la monarchia rispose arrestando i capi dei baroni protestatari fra i quali il principe di Belmonte ed il principe di Castelnuovo. La situazione precipitò, intervenne l’Inghilterra e la situazione fu composta con l’allontanamento di Ferdinando e Carolina e la nomina di Francesco a vicario. I baroni protestatari furono liberati e fu approvata la costituzione, su modello inglese come fondamento di un Regno di Sicilia separato dal regno di Napoli. Si rende chiaro al lettore come questi avvenimenti maturati fra il 1810 ed il 1815 avranno un effetto devastante, in futuro, per il Regno meridionale. La Sicilia infatti, seguì il modello inglese, mentre Napoli seguì il modello napoleonico. Quello che doveva essere un unico stato si scisse: da un lato Napoli, con Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo, con pretese, tra l’altro, di annessione sulla Sicilia e da un lato Palermo, con Francesco di Borbone e sotto il protettorato inglese. Tutto ciò creò una separazione fra le due parti di quel regno che Carlo di Borbone era riuscito ad unificare. Nulla di tutto ciò, nel frattempo, aveva turbato i Savoia. La Sardegna, loro rifugio durante il periodo napoleonico , non era certo il regno di Sicilia!
Lo Stato siciliano, sorto nel 1812, con l’aiuto dell’Inghilterra nella persona di lord Bentinck, riconobbe da un lato i Borbone ma mantenne il suo parlamento. Fra il 1812 ed 1815 si tennero elezioni, si riorganizzarono comuni, si formarono partiti e correnti. Stava nascendo un modo nuovo di gestire la cosa pubblica anche se si notavano impreparazioni ed errori. Vi entrò anche a far parte la borghesia nascente. Ma purtroppo quell’esperienza fu irripetibile perché la vecchia nobiltà riuscì a prevalere e ad acquisire, sfruttando l’ingenuità di alcuni, un eccesso di autorità che portò l’isola fuori dai percorsi politici europei.

La strana morte del Viceré Caramanico


Francesco d’Aquino  principe di Caramanico


Quando giunse a Palermo il nuovo vicerè, Francesco d’Aquino, principe di Caramanico in qualità di figlio dei tempi, perseguì una politica di tipo illuministico. Nel 1788 abolì le “angherie”, cioè  le prestazioni obbligatorie e gratuite dovute al feudatario. Nel 1789 decretò l’abolizione della servitù della gleba nelle campagne. Deliberò anche la riduzione a quattro seggi su 12 la partecipazione dei nobili nella “Deputazione del regno”, cioè nel governo dell’isola. Come si permetteva il vicerè di ridurre così il potere dei nobili? Infatti, l’8 gennaio 1795, il principe di Caramanico mentre si trovava nella ”casina della principessa del Cassero nella contrada delle terre Rosse, fu assalito improvvisamente da violenta convulsione che sull’ore 11 del giorno nove seguente gli tolse la vita senza che avesse potuto ricevere il Santo Viatico, né munirsi dell’Estrema Unzione”. Per tutta la notte il principe non aveva avuto alcuna assistenza medica. Nel popolino circolava la voce che fosse stato ucciso su mandato del giovane ministro Acton, favorito della regina Maria Carolina.