sabato 21 gennaio 2012

ELOGIO DELLA MORALITA’ DELLA SECESSIONE

di ENZO TRENTIN
Da alcuni anni in Italia assistiamo al proliferare di partiti indipendentisti: veneti, lombardi, siciliani, friulani, piemontesi, sardi, toscani e sicuramente ne dimentichiamo altri.
Il quadro giuridico cui riferirsi è oramai ampio; va dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici siglato presso L’Onu, a New York il 16 dicembre 1966, alla Legge italiana n° 881 del 1977 che lo ha ratificato.
Asserire l’esistenza di un diritto morale a secedere significa affermare almeno due cose: 1) che per coloro che sono titolari di questo diritto secedere è moralmente legittimo, e 2) che gli altri sono moralmente obbligati a non interferire con la secessione. Si confronti Allen Buchanan: “Secessione” – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi – Arnoldo Mondadori Editore (1991).
Disporre di un diritto morale significa godere di un potere o di un’autorità particolarmente forte e, di conseguenza, l’obbligo da parte di altri di non interferire nelle attività di chi esercita un proprio diritto è un obbligo particolarmente vincolante. In particolare, non si può venir meno ad esso affermando semplicemente che si vuole massimizzare il benessere sociale. Pertanto, asserire l’esistenza di un diritto morale alla secessione significa affermare che la libertà di secedere senza interferenze è un’alta priorità morale, che questa libertà necessita di speciale protezione che non può essere compromessa in virtù di interessi concorrenti, salvo forse in casi estremi.
Indirettamente Michele Ainis professore di Diritto Costituzionale all’Università Roma 3, autore di libri ed editoriali in vari quotidiani nazionali, rafforza la tesi morale, laddove ha recentemente scritto sul “Corriere della Sera” del 2 gennaio 2012:
«Il lascito del 2011? Un serbatoio di malumori e di rancori nel rapporto fra i cittadini e la politica. Una furia iconoclastica, che ha fatto precipitare al 5% la fiducia nei partiti. [...] «È questo sentimento d’impotenza che ha separato gli italiani dallo Stato italiano. Perché lassù abita un’élite, inamovibile, insindacabile, immarcescibile. Dunque per risanare la frattura tra società politica e società civile è necessario incivilire la prima, politicizzare la seconda. In altre parole, è necessario che la politica non sia più un mestiere, e che i cittadini non ne siano meri spettatori.»
Malgrado queste incoraggianti premesse constatiamo almeno due importanti lacune.
La prima. Un diritto derivante dalla Legge non basta affinché chi di dovere lo riconosca.
La guerra di secessione americana, venne combattuta dal 12 aprile 1861 al 26 maggio 1865 fra gli Stati Uniti d’America e gli Stati Confederati d’America (CSA), entità politica sorta dalla riunione confederale di Stati secessionisti dall’Unione (USA). Per Abraham Lincoln il preservare l’Unione era l’obiettivo centrale della guerra, anche se vide sempre la schiavitù come una questione cruciale e ne fece un ulteriore obiettivo finale.
Formalmente gli ex schiavi potevano considerarsi a tutti gli effetti cittadini degli USA sin dal 1865; tuttavia molti schiavi appena liberati ritornarono dal loro antico padrone, poiché non sapevano come vivere. E, soprattutto, affinché godessero dei diritti civili ci vollero le lotte degli anni 1960. Giusto un secolo!
Rosa Parks (la donna afroamericana il cui rifiuto di sedersi in fondo all’autobus su cui viaggiava fu la scintilla del grande boicottaggio degli autobus di Montgomery messo in atto dai neri nel 1955) si siederà e darà vita a un nuovo movimento.
Tuttavia Rosa Parks, che era una donna molto coraggiosa e onorevole, non è venuta fuori dal nulla. Il suo gesto si inseriva all’interno di un vasto background culturale di cui erano parte integrante movimenti organizzati e lotte contro la segregazione razziale, quindi fu più o meno scelta per fare quel che fece.
Quello è esattamente il tipo di background che dovremmo cercare di far crescere oggi.
Si dovrebbe riflettere sull’impegno civile di Martin Luther King che è condensato nella Letter from Birmingham Jail (Lettera dalla prigione di Birmingham), scritta nel 1963, e in Strength to love (La forza di amare) che costituiscono un’appassionata enunciazione della sua indomabile crociata per la giustizia.
Unanimemente riconosciuto apostolo instancabile della resistenza non violenta, eroe e paladino dei reietti e degli emarginati, “redentore dalla faccia nera”, Martin Luther King si è sempre esposto in prima linea affinché fosse abbattuta nella realtà americana degli anni cinquanta e sessanta ogni sorta di pregiudizio etnico. Ha predicato l’ottimismo creativo dell’amore e della resistenza non violenta, come la più sicura alternativa sia alla rassegnazione passiva che alla reazione violenta preferita da altri gruppi di colore, come ad esempio, i seguaci di Malcolm X. E soprattutto, pur contando su milioni di potenziali voti non ha mai fondato un partito politico. Nel 2010 il 12,6% della popolazione, per un totale di 38.9 milioni di cittadini, si considera afroamericano. Ma a tutt’oggi non esiste un partito politico afroamericano.
La seconda lacuna che possiamo osservare nel panorama indipendentista del paese di Arlecchino e Pulcinella, è che quasi tutti sono impegnati a spiegare come attraverso il percorso legislativo si può ottenere l’indipendenza di un popolo o di una regione, ma quasi nessuno s’addentra a specificare quale sarà il tipo di istituzioni che andranno a sostituire quelle inefficienti, sprecone e corrotte dello Stato italiano.
Eppure è su questo versante che dovrebbero essere indirizzate le forze intellettuali e politiche, affinché i cittadini non cadano dalla padella alla brace.
Il motivo è perfettamente ovvio: quando elimini l’unica struttura istituzionale alla quale la gente può partecipare sia pure in scarsa misura attraverso le elezioni, e considerato che per l’esercizio della sovranità popolare (art. 1, Comma 2, della Costituzione) ci sono gli Strumenti di democrazia diretta previsti Art. 50, 56, 58, 71, 75 e 138 per GUIDARE & CORREGGERE l’operato degli Organi di democrazia rappresentativa. Ma i ‘rappresentanti’ se ne sono fatti un baffo. Non si fa altro che consegnare il potere a inaffidabili tirannie private (le multinazionali e i Tycoon all’amatriciana) che sono molto peggiori. Quindi ci si deve servire dello Stato, pur riconoscendo che fondamentalmente lo vuoi abbattere.
Alcuni lavoratori rurali del Brasile hanno inventato uno slogan interessante. Essi sostengono che il loro obiettivo immediato è di “espandere il pavimento della gabbia”. Sono consapevoli di essere intrappolati in una gabbia, ma capiscono che proteggerla, quando viene attaccata da predatori esterni anche peggiori di chi li ha imprigionati, e ampliare gradualmente le sue restrizioni, sono le due condizioni preliminari ed essenziali per distruggerla. Se attaccassero la gabbia subito, quando sono ancora molto vulnerabili, sarebbero uccisi.
Per concludere, quindi, ci sono due modi attraverso i quali avviarsi ad un’indipendenza. Il primo è “espandere il pavimento della gabbia” reclamando a gran voce i diritti che già esistono e sono ignorati. Il secondo è avviare il dibattito sul tipo di istituzioni che vorremmo quando l’indipendenza sarà ottenuta.