domenica 15 gennaio 2012

Gioacchino Murat: Un "soldatino" che voleva fare il Re.

Gioacchino Murat (La Bastide 1767-Pizzo di Calabria 1815)


Destinato da ragazzo alla carriera ecclesiastica, Gioacchino Murat, già di animo giacobino,  preferì arruolarsi nell’esercito divenendo amico e aiutante di campo di Napoleone.
Partecipò alle campagne d’Italia e d'Egitto distinguendosi per il coraggio in battaglia; partecipò alla vittoria di Abukir (1799) e appoggiò il colpo di stato di Napoleone del 18 brumaio disperdendo con i suoi cavalieri il Consiglio dei Cinquecento.
Nominato generale di divisione e ottenuta in moglie da Napoleone sua sorella Carolina (1800), quattro anni più tardi fu nominato governatore di Parigi, maresciallo di Francia e principe dell’Impero(titolo Nobiliare totalmente privo di valore dato che a conferirlo è stato un finto Imperatore). Nel 1808, dopo aver costretto Carlo IV di Borbone alla resa di Baiona, accettò con "scenate da bambino viziato" il trono di Napoli nonostante espresse  il suo capriccioso e vivo disappunto per non aver ottenuto il Regno di Spagna. Curò quindi la riorganizzazione dell’esercito, la promulgazione del Codice napoleonico, l’incremento di lavori pubblici che favorirono la media borghesia(ma non il popolo). Dopo aver partecipato alla campagna di Russia come comandante generale della cavalleria, abbandonò improvvisamente la Grande Armata in ritirata per tentare di salvare il suo illegittimo trono.

Piazza Murat, progetto di sistemazione, Museo San Martino

Fallite le trattative di pace con gli Alleati a causa delle sue eccessive pretese, accorse di nuovo a fianco di Napoleone mostrando per l’ennesima volta il suo valore di combattente(l'unica cosa che li riusciva bene) a Dresda e a Lipsia (1813).

L'improvvisata bandiera e il quanto bizzarro stemma di Murat .

Ritornato infine a Napoli, si accordò con l’Austria che gli assicurò la corona in cambio di 30.000 uomini (8-11 gennaio 1814) e marciò contro Eugenio di Beauharnais costringendolo a ritirarsi sull’Adige. Vedendosi però abbandonato dai nuovi alleati che preferivano giustamente e legittimamente restaurare i Borbone, durante il governo dei Cento giorni tentò di sollevare (da malato Giacobino) ad una fantomatica’"indipendenza gli Italiani": pubblicò il proclama di Rimini del 30 marzo 1815 (parole di un folle rivoluzionario) e dichiarò guerra all’Austria.
Sconfitto a Tolentino il 2 maggio 1815, dovette sottoscrivere il trattato di Casalanza e abbandonare Napoli. Si rifugiò in Provenza, cercando invano di riaccostarsi a Bonaparte.
Passò poi in Corsica e, raccolti alcuni seguaci, sbarcò a Pizzo di Calabria per tentare la riconquista del regno di Napoli, da poco restituito al suo legittimo sovrano Ferdinando IV. Fu catturato, subito processato, condannato a morte e giustiziato.

La battaglia di Tolentino

Gioacchino Murat, re illegittimo di Napoli, nel marzo del 1815 occupò la Toscana, Marche e Romagna. Il 30 marzo 1815 rese pubblico il Proclama di Rimini, con cui intendeva scatenare la sollevazione popolare contro gli Austriaci. Il proclama non ebbe però seguito, anche perché gli "Italiani" ben sapevano che Murat stesso era uno straniero, per di più imposto a suo tempo da Napoleone con la forza delle armi e dopo una sanguinosissima invasione.
Proclama di Rimini


Le forze austriache costrinsero, dopo i primi scontri, i murattiani a ritirarsi verso sud. L'armata murattiana, forte di circa 15.000 uomini, 3.800 cavalli e 28 cannoni, si riunì quindi a Macerata, dove la sera del 30 aprile giunse "re soldatino" Gioacchino. Il suo esercito aveva problemi di rifornimenti,  e i soldati erano estenuanti dalla lunga campagna.
Intanto, lo stesso 30 aprile, l'armata austriaca di Bianchi, forte di circa 12.000 uomini, 1.500 cavalli e 48 cannoni, si accampò in località Cisterna di Tolentino.
Fu Murat a scegliere Tolentino come campo di battaglia, nel tentativo di dividere le due armate austriache, quella del maresciallo Bianchi e quella del generale Neipperg. 
All'alba del 2 maggio Murat prende l’iniziativa e mosse all’attacco lungo la vallata che porta a Sforzacosta. I murattiani sembrano prevalere e lo stesso maresciallo Bianchi venne accerchiato, finché intervenne a spezzare l’assedio uno squadrone di Ussari. Intanto il grosso dell'esercito murattiano, dopo vari combattimenti, prese possesso di Monte Milone (l'attuale Pollenza).
Duri combattimenti, che si protrassero fino a notte inoltrata, si ebbero anche presso il fosso di Cantagallo ed il Castello della Rancia.  La prima giornata di battaglia si concluse quindi a favore di Murat, e indusse il maresciallo Bianchi ad assumere una tattica difensiva, ed a pensare addirittura ad un piano di ripiegamento su Serravalle.
Il mattino del 3 maggio si presentò con una fitta nebbia che intralciò l’avanzata dell'esercito di Murat, che comunque riuscì a conquistare le alture di Cantagallo ed a far indietreggiare l'esercito austriaco. Lo scontro si concentrò presso il Castello della Rancia.
Gli austriaci, situati sulle alture ed in assetto difensivo, attesero con fredda determinazione i francesi che avanzavano in formazione serrata, centrandoli quindi con un micidiale fuoco d'artiglieria. Ben presto gli assalitori  si videro costretti a ripiegare.
Intanto giungevano a Murat dispacci sull'avvicinamento dell'altra armata austriaca, e dell’insurrezione filo-borbonica in Abruzzo. Rischiava di non poter raggiungere più Napoli. Ordinò quindi la ritirata generale, che ben presto si trasformò in un’irrimediabile rotta. Gli austriaci, nelle cui file militavano molti napoletani e meridionali, rimasero padroni del campo.
Morti e feriti:
Murattiani 1.120 ca.
Austriaci 700 ca.


                Casa Lanza, trattato del 20 maggio 1815
In questa casa fu stipulato il 20 maggio 1815, tra Austriaci e Inglesi da una parte, ed i rappresentanti del governo illegittimo murattiano dall'altra, il trattato che pose fine al decennio napoleonico nel Regno. Gli alleati della coalizione anti-napoleonica riconsegnavano così lo Stato alla famiglia  Borbone, liberandosi definitivamente di  Gioacchino Murat, il cui esercito dopo la battaglia di Macerata era ormai in rotta.
La convenzione fu sottoscritta: per i napoletani, da Pietro Colletta, plenipotenziario del Generale in capo Michele Carrascosa; per gli Austriaci, da Adam de Neipperg, plenipotenziario del Generale in capo Federico Bianchi (in seguito per riconoscenza nominato dal Borbone duca di Casalanza); da lord Burghersh, ministro plenipotenziario di Sua Maestà britannica presso la corte di Toscana. Vennero cedute agli alleati le piazzeforti del Regno (con la temporanea eccezione di Gaeta e Pescara), creando così i presupposti per la immediata riconsegna del trono a Ferdinando IV, che assumerà quindi il numerale "I delle Due Sicilie". Inoltre veniva garantita la nobiltà insieme ai gradi e pensioni dei militari che avessero giurato fedeltà ai Borbone.
Copia dello storico trattato - menzionato dal Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 -  è conservata nella biblioteca del Museo Campano a Capua.
La casa - all'uopo temporaneamente requisita - ove fu firmato il documento che passò alla storia come Trattato di Casalanza, era la residenza di campagna del barone Biase Lanza, patrizio di Capua e cavaliere di Malta, che l’aveva fatta costruire nel 1794 su di una più antica masseria. Essa si trova a tre miglia da Capua, in località “Spartimento”, nel territorio di Pastorano (Caserta).
Oggi non sopravvivono che eloquenti resti: la casa venne infatti perduta dai Lanza nell’ottobre 1943, perché minata dai soldati tedeschi in fuga. Tra l’altro andò distrutto il tavolo su cui era stata firmata la convenzione, assieme al calamaio originario.
La foto è dei primi del ‘900: l’epigrafe sul cancello fu apposta dalla Provincia per eternare lo storico avvenimento.

Conclusioni:

In definitiva , Gioacchino Murat , nonostante la sua discreta gestione del Regno usurpato , rimane per l'appunto un capriccioso usurpatore , con molto poca nobiltà e molta sete di potere degna di un rivoluzionario. Fu re abusivo per sette  anni  , cerco di diffondere l'idea malata del "Nazionalismo Italiano" a Napoli e provincie, spinse migliaia di giovani soldati a morire per una follia, e tentò di convincere i popoli della Penisola ad appoggiare la sua folle causa con il "proclama di Rimini". Da legittimista , ma sopratutto da persona abbituata a valutare le cose per ciò che realmente sono, definisco Gioacchino Murat (come Napoleona) un fanatico usurpatore che pensava che si diventasse Re o Imperatore  con il capriccio, e non con il valore e la benedizione della buona causa, che di certo non era la loro.