giovedì 5 febbraio 2015

R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.: La moneta.

La Civiltà Cattolica anno XXXVIII, serie XIII, vol. VII (fasc. 893, 25 agosto  1887) Firenze 1887 pag. 514-529.

R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

Della economia politica

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LA MONETA

Dopo la divisione del lavoro, di cui ragionammo nell'articolo precedente, è naturalissimo che si parli della moneta. Imperocchè, come quivi fu notato, la divisione del lavoro è fondata sulla certezza del cambio. Se non si desse tra gli uomini la permutazione de' prodotti, ciascuno sarebbe costretto ad esercitare molti mestieri. Egli dovrebbe coltivare la terra, per cavarne il proprio nutrimento; dovrebbe cucirsi le vesti, fabbricarsi la casa e così del resto. In tanto può applicarsi a un'arte sola, in quanto può barattarne i prodotti con altri oggetti, che gli siano egualmente necessarii od utili. Ora cotesto baratto ordinariamente non si fa, se non per mezzo della moneta. Uopo è dunque che di essa ben si conosca l'ufficio; perchè dal difetto di tal cognizione possono incorrersi nella scienza economica errori gravissimi.

I.

Natura della moneta.

Il denaro fu introdotto nel mondo sociale per la commutazione delle cose: Primo denarii inventi sunt pro commutatione rerum [1]. Così S. Tommaso ci dà il concetto della moneta, rappresentandocela come un trovato dell'uomo per agevolare gli scambii. Tale appunto è l'ufficio di lei, e tale la sua natura, definita dal fine. Chiariamo alquanto cotesto concetto.
L'uomo, come più volte si è detto, provvede ai suoi bisogni in virtù dello scambio. Ma questo gli riuscirebbe assai gravoso, e talvolta quasi impossibile, se sempre dovesse farsi di cosa con cosa. Prendi, per esempio, un agricoltore, il quale non abbia che grano, e intanto debba pagare il sarto che gli ha fatto un vestito, o il fabbro che gli ha fornita una vanga. Se costoro ricusano d'essere compensati con grano, per non averne bisogno, come farà egli a cavarsi d'impaccio? Dovrà girare pel villaggio, finchè trovi qualcuno che per una data misura di grano gli dia un'altra merce equivalente, di cui que' due suoi creditori si appaghino. E se l'oggetto posseduto dall'agricoltore non fosse grano ma altra cosa, incapace di divisione (verbigrazia un bue), le brighe crescerebbero senza fine. Dovrebbe Dio sa quanto arrabattarsi, per trovare chi gli desse in cambio altrettante merci spicciolate, con una delle quali potesse equiparare il valore dell'uno arnese e dell'altro. Che diremo poi del commercio, massime in lontano paese? Fingete un mercadante; il quale voglia andara in Cina a provvedersi di , da smaltire poscia in altre contrade. Dovrà egli con molto suo incomodo caricare la nave di mercanzie, probabilmente ma non certamente, accettabili da' Cinesi, e quindi recarsi in luogo dove cerchisi il , e speri averne in cambio altre derrate, a sè convenevoli. Vedete quanti calcoli e quante noie!
Era dunque conformissimo all'ingegno dell'uomo rinvenire una merce, la quale potesse sostituirsi ne' cambii, in vece di tutte le altre, come intermedio comune. Ecco la moneta; a costituire la quale, per le ragioni, che diremo più sotto, fu scelto il metallo e segnatamente l'oro e l'argento. «Cominciossi, scrive il Senatore Lampertico, dalla permutazione di cosa con cosa, ossia dal baratto; non v'era danaro nè quindi distinguevasi merce e prezzo, e ciascuno, come portava necessità, per fornirsi di quelle cose che gli mancavano, dava di quelle che gli avanzavano. Ma poichè non sempre combinavasi che avendo tu quello che io desiderava, io alla mia volta avessi quello che a te occorreva, venne scelta una materia, il cui pregio pubblico e durevole alle difficoltà della permutazione riparasse coll'uguaglianza di quantità. Convennero eleggere alcuna cosa che fosse comune misura del valore di tutte, e il misurato col misurato si permutasse, cioè che ciascuna cosa valesse un tanto di quella, e un tanto di quella si desse e ricevesse in pagamento e per equivalente di ciascheduna. Fu trovato il danaro [2]
Lo stesso discorso fa S. Tommaso commentando Aristotile: Si semper homines in praesenti indigerent rebus, quas invicem habent, non oporteret fieri commutationem nisi rei ad rem, puta frumenti ad vinum. Sed quandoque contingit quod ille, cui superabundat vinum, non indiget frumento quod habet ille qui indiget vino, sed forte postea indigebit, vel aliqua alia re. Sic ergo, pro necessitate futurae commutationis, numisma, idest denarius, est nobis quasi fideiussor quod, si in praesenti homo nullo indiget sed indigeat in futuro, aderit sibi, offerenti denarium, illud quo indigebit [3]. Questo nome di garante, fideiussor, dato al danaro in ordine al sovvenimento de' nostri futuri bisogni, è graziosissimo; perchè realmente il danaro ci assicura che noi, sempre che vogliamo, possiamo a quelli sopperire, offerendolo in cambio di qualunque altra merce, da noi bramata.
Quanto alla materia trascelta a costituir la moneta, vario fu l'uso de' popoli, finchè presso le nazioni civili prevalse l'oro e l'argento. «La storia della moneta dei differenti popoli, scrive il Say, ce la mostra fatta di molte materie diverse. Gli Spartani hanno avuto monete di ferro; i primi Romani ne avevano di rame. Parecchi popoli hanno impiegato come moneta semi di cacao, o piccole conchiglie. Vi sono state in Russia, insino a Pietro il Grande, alcune moneto di cuoio. Molte nazioni moderne ne fanno di carta. Ma le materie, che incontrastabilmente riuniscono più vantaggi, sono l'oro e l'argento, i quali vengono sovente indicati colla denominazione di metalli preziosi [4].» Questi vantaggi sono molti; ma a noi basterà accennare i seguenti: I. L'avere un valore proprio; giacchè l'oro e l'argento, servendo a molti altri usi per l'uomo, valgono per sè stessi e come tali sono stimati e ricercati generalmente. II. L'essere divisibili, senza scapitare nel proprio valore; sicchè le loro frazioni corrispondono a una parte di quello, e riunite equivalgono all'intero. III. La facilità ad essere trasportati senza grave imbarazzo del portatore, perchè concentrano molto valore in poco volume. Qual differenza dal recar seco un sacchetto di marenghi, piuttosto che un enorme carico di tale o tal altra mercatanzia! IV. L'attitudine ad essere conservati, senz'alterazione almeno sensibile. Basti guardar le monete di tempo eziandio antichissimo. V. La durezza, per la quale sono capaci di ricevere un conio che ne autentichi la bontà ed il peso. Così spiegata la moneta può definirsi: Merce metallica, equivalente al valore di tutte le altre merci, ed assicurata con pubblica impronta. L'uso di essa, presso i popoli alquanto inciviliti, fu antichissimo; giacchè noi leggiamo nelle divine Scritture che Abramo volendo acquistare un campo con duplice spelonca, per formarne sepolcro all'estinta consorte, lo comperò da Efrem per quattrocento sicli d'argento di saggiata moneta pubblica. Appendit pecuniam, quam Efrem postulaverat, audientibus filiis Heth; quadringentos siclos argenti probatae monetae publicae [5].
Suol dirsi assai comunemente che la moneta è segno rappresentativo dei valori delle merci. Lo stesso Minghetti non sembra ripudiare del tutto un tale linguaggio. Egli dice della moneta di essere stata «eletta a rappresentare i valori di tutte le altre merci [6].» E più sotto: «Sono i metalli preziosi, come ogni altra merce, soggetti a variazione di valore; ma perchè questa variazione di valore è piccola e lenta, perciò furono eletti a rappresentare quello delle altre merci, dove l'oscillazione è più rapida e più grande [7].» Il Say mostra a ragione la falsità e il pericolo della detta frase. La rappresentazione d'una cosa non è la cosa stessa, nè il loro equivalente. Ora la moneta non solo è essa medesima un valore, ma è un valore, che equivale a tutti gli altri valori. Il segno, in quanto tale, è puramente relativo alla cosa che rappresenta. Or la moneta, in virtù della materia, onde consta, ha eziandio carattere assoluto, in quanto ha valore intrinseco, di per sè commutabile con altre merci. Lo scudo, indipendentemente dall'ufficio di moneta, vale come argento ciò che vale come moneta, salvo una piccola particella di valore corrispondente alla spesa di fabbricazione. La moneta dunque non rappresenta gli altri valori, ma è in equivalenza gli altri valori. Chi ha in tasca la moneta, può dirsi d'aver seco, equipollentemente, ogni altra cosa, perchè con ogni altra cosa può permutarla. Il Say dimostra come la falsa idea che la moneta sia segno, ha indotto talvolta i Governi ad adulterarla, credendo di poterlo fare innocuamente, ma in realtà con gravissimo danno dei cittadini, a cui si dava come valore integro un valor mutilato. In sostanza era un vero furto da parte dello Stato.
La moneta suol dirsi altresì misura degli altri valori. Questa frase vuolsi intendere in senso non assoluto, ma relativo. Non può intendersi in senso assoluto, perchè la misura, in senso assoluto, debb'essere invariabile. Il metro si dice giustamente misura della superficie de' corpi; perchè la sua lunghezza è sempre la stessa, cioè la diecimillionesima parte d'un quarto del meridiano terrestre. Ma il valore della moneta è soggetto a mutazioni, benchè meno delle altre merci e più lentamente. Il valore della moneta vien determinato, come ogni altro valore, dalla quantità delle cose, che voi potete ottenere in suo contraccambio. Ora voi con uno scudo non potete, esempligrazia, ottenere la stessa quantità di viveri in tempo di carestia, che in tempo di abbondanza, o in una città assediata che in una città libera. Nè varrebbe il dire che ciò avviene non perchè la moneta cala, ma perchè sale il prezzo di quelle derrate. Con ciò non direste nulla; la frase sarebbe diversa, ma la cosa rimarrebbe la stessa. Il valore è un rapporto; e il rapporto cangia, qual dei due termini, tra cui passa, incorra mutazione. Del resto volete un esempio di cambiamento per parte della stessa moneta? La scoperta delle miniere argentifere di America, e aurifere della Siberia e dell'Australia fece ribassare incontanente il valore della moneta. E perchè? Perchè gittando sul mercato gran copia d'oro e di argento, ne fece rinvilire il valore. Il valore d'ogni merce si abbassa, per l'abbondanza della medesima; la sua rarità lo rialza. Rinvilito il valore dell'oro e dell'argento, doveva di necessità rinvilire il valore della moneta, che di essi è composta [8].
Tuttavolta in senso non assoluto ma relativo, la moneta ben può chiamarsi misura degli altri valori, in quanto a rispetto di un dato luogo e di un dato tempo, sogliamo ad essa ragguagliare tutti gli altri valori, per calcolarli e conoscere la proporzione in che essi stanno tra loro. E così considerando che un sacco verbigrazia di zucchero costa quattro scudi, ed uno di caffè otto, diciamo che il valore del caffè è doppio di quello dello zucchero. «Quando i cambii non si fanno più (osserva Adamo Smith), e la moneta diviene il comun mezzo del commercio, ogni mercanzia è più frequentemente cambiata per moneta, che per altra mercanzia. Il macellaio non porta già il suo bue od il suo castrato al fornaio o al birraio per cambiarli con pane o con birra; ma li porta al mercato, dove li cambia per moneta, e quindi cambia questa moneta per pane e per birra. La quantità della moneta che egli ne ha ricevuta, regola ancora la quantità del pane e della birra che egli in seguito potrà comprare con essa. Però a lui riesce più facile e più semplice stimare il valore del bue e del castrato per la quantità di moneta, mercanzia colla quale egli immediatamente li cambia, che per la quantità del pane e della birra, mercanzie colle quali egli non può cambiarli se non per mezzo di quella. Laonde a lui riesce più naturale il dire che la sua carne vale tre o quattro danari la libbra, che dire che vale tre o quattro libbre di pane e tre o quattro quarte di piccola birra. Quinci l'uso di valutare ogni mercanzia colla moneta, piuttosto che con altra merce, la quale si possa avere per cambio [9].» Ma, chi ben considera, la moneta alla sua volta può venir misurata dalle merci con cui si permuta; perocchè, come ben nota il Say, se per un'oncia di moneta d'oro io posso ottenere sul mercato quindici volte più grano, o qualsivoglia altra mercanzia, di quello che ne ottenga con un oncia di moneta d'argento; io ottimamente posso inferirne che la moneta d'oro, a peso uguale, ha valore quindici volte più grande della moneta d'argento. Ecco il valore della moneta misurato ancor esso dalle cose stesse, di cui è misura.
Chiuderemo questo paragrafo con una osservazione del Droz. Egli scrive: «Per quanto sia grande l'importanza della moneta, si è sovente esagerato, o, a meglio dire, si è per lungo tempo caduto in errore intorno alla natura del servigio che essa rende alla società. Essa venne riguardata come la sola ricchezza; l'economia politica ebbe per iscopo di rattenere la moneta nello Stato, e di attirarvi quella degli stranieri, Giudiziose analisi hanno dissipati o almeno indeboliti siffatti pregiudizii. I metalli preziosi altro non sono che prodotti; e questi prodotti non si ottengono se non col lavoro, come tutti gli altri. Ciò apparisce evidente, qualora si rivolga lo sguardo ai popoli, il cui suolo racchiude cotesto metallo. Lo scavamento delle miniere è un genere d'industria; ed esso non è neppure così lucrativo, come altri suppone. Sovente dà false speranze, ed è fecondo di rovinosi risultati. Se i beneficii sembrano enormi in una miniera abbondante, si veggono poi ricadere alla misura naturale, allorchè si mettono in bilancia i profitti e le perdite di tutti gl'imprenditori che specolano in questo genere d'intraprese. In quanto ai popoli, i quali non posseggono miniere, essi col lavoro arrivano sempre a procurarsi i metalli necessarii per la loro moneta, per la loro orificeria, eccetera [10]

II.

Il prezzo.

Introdotta la moneta, le permutazioni ne' mercati non si fanno più quasi mai tra le singole merci indistintamente, ma tra esse e il denaro, divenuto merce mediana di cambio. Non si disse più: Io vi darò due vacche e voi mi darete trenta pecore; ma: Voi mi darete trenta pecore, ed io, per esempio, vi darò cento scudi. Or quel denaro, che si dà per avere in contraccambio un altro oggetto, si denomina prezzo; il quale per conseguenza non è altro, che il valore d'una cosa calcolato in moneta. Il contratto, con cui fassi cotesta permutazione, da parte di chi dà il denaro, si dice compera; da parte di chi dà l'oggetto, si dice vendita. Un solo è il contratto; e sol differisce per rispetto ai due contraenti. La compera può definirsi: L'atto con cui si dà denaro per averne l'equivalente in altre merci; e la vendita: L'atto cui si dà una merce, per averne l'equivalente in denaro.
Qui suol chiedersi: Qual è la causa determinatrice di tale equivalenza? Ossia: Onde procede che il prezzo d'una derrata sia tale piuttosto che tal altro? Sopra questo punto gli Economisti discordano. Una gran parte di essi dice che la determinazione de' prezzi è effetto della proporzione che passa tra l'offerta e la dimanda; le quali oscillano quinci e quindi, finchè non giungano all'eguaglianza. Onde stabiliscono questa legge: L'altezza de' prezzi è in ragione diretta della dimanda e inversa dell'offerta; cioè il prezzo d'una derrata cresce col crescere il numero de' compratori e decrescere quello de' venditori. Per contrario, quel prezzo decresce col crescere il numero de' venditori e decrescere quello de' compratori. Il numero poi de' venditori suol crescere per l'abbondanza della merce e la brama di spacciarla; e il numero de' compratori suol crescere, per crescere la necessità che si ha di quella o il desiderio di farne acquisto.
Se non che il Ricardo, seguíto in ciò da molti altri Economisti, segnatamente della scuola inglese, ammettendo pure la verità del fatto, testè descritto, ne cercò un'ulteriore ragione nel costo di produzione; sicchè la regola determinatrice del prezzo d'una merce sia la spesa, che si ebbe a sostenere per produrla. Ecco in che modo il Minghetti epiloga la teorica del celebre Economista: «È d'uopo rifarci alquanto indietro ed esaminare la formola che l'illustre David Ricardo poneva in luogo di quella dell'offerta e della dimanda, volendo surrogare ad espressioni generiche ed ideali alcun che di materiale e agevolmente valutabile; e però disse: — Il valore di un prodotto è uguale al suo costo di produzione; e il costo di produzione si compone delle seguenti parti: Reintegro di ciò che ha servito all'uopo, mercede del lavoro occorso, interesse del capitale impiegato, rimunerazione dell'intraprenditore. Per lo che Ricardo argomentava in questa forma: Niuno dà opera alla produzione, se non ha per obbietto o di consumare il prodotto o di scambiarlo; l'interesse è sua guida: e dove trova interesse maggiore, ivi si volge; e però i capitalisti, gl'intrapranditori e i fabbricanti trascelgono sempre quelle industrie, nelle quali sembra loro di trovare maggior guadagno. D'altra banda i consumatori acquistano prodotti in ragione dei mezzi che posseggono e non oltre; e là più desiderosi accorrono, dove sperano trovare miglior mercato. Dalle quali premesse naturalmente discende che scemando il prezzo di un prodotto, se ne accresce il consumo; il quale per contrario si restringe se quello rincarisce. Pertanto se vi fossero industrie, la quali non coprissero le spese di produzione, elleno in breve cesserebbero; ma se altre fruttano larghi guadagni, i produttori vi si affolleranno e a breve andare, per la concorrenza, dovranno contentarsi di un più ragionevole compenso, cioè di quello che si ritrae dal lavoro e dal capitale generalmente [11]
Tre elementi concorrono alla produzione d'un oggetto: Le forze della natura (designate dagli Economisti ordinariamente col nome di terra), il capitale, il lavoro. Alle forze naturali, se già sono in proprietà di qualcuno, corrisponde, come compenso, la rendita [12], al capitale il profitto, al lavoro il salario. La somma di questi tre compensi costituisce il costo del prodotto. «Secondo il linguaggio ordinario degli Economisti, dice il Senior, il Lavoro, il Capitale e la Terra sono i tre strumenti della produzione; i Lavoranti i Capitalisti e i Proprietarii sono le tre classi dei produttori; e tutto il prodotto vien diviso in mercede, profitto e rendita.» Egli però vorrebbe che si ripartisse meglio, e soggiunge: «A noi sembra che per avere una nomenclatura la quale potesse abbracciare pienamente e precisamente ogni cosa, non basterebbero meno che dodici distinti vocaboli [13].» Per amor del cielo, contentiamoci di quei tre; non accresciamo confusione colla moltitudine delle voci e delle partizioni!
Tornando ora al nostro proposito, potrà dimandarsi quale delle due sentenze, superiormente esposte debba aversi per vera? Rispondiamo sembrarci che l'una e l'altra, ponendo mente alla distinzione del prezzo naturale dal prezzo effettivo, ossia del mercato, detto altresì prezzo corrente. Per fermo, se stiamo a ciò che la natura suggerisce, il prezzo delle derrate dovrebbe pareggiare le spese di produzione, inchiudendo tra le spese di produzione il giusto guadagno del venditore; il quale coll'accostare la merce al compratore reca un servizio ed esercita una industria, relativa al commercio. Il costo di produzione è il termine razionale, in materia di compra e di vendita. Ma se si riguarda non il prezzo dettato dalla ragione, ma quello che di fatto ha luogo, esso senz'alcun dubbio non è che il risultato della dimanda paragonata all'offerta, e cresce o decresce in proporzione diretta dell'una e inversa dell'altra. Se crescono i compratori, pel bisogno o desiderio che abbiano della derrata, rimanendo essa nella medesima quantità, è indubitato che il prezzo si alza; e per converso se crescono i venditori per la soprabbondanza della derrata, restando lo stesso il numero de' compratori, il prezzo di quella si abbassa. Allora soltanto i prezzi resterebbero invariati, se venditori e compratori crescessero o scemassero nella medesima proporzione.
Nondimeno confessiamo che stando anche al semplice fatto, e tenuto conto delle inclinazioni native dell'uomo, i prezzi comuni nel crescere o decrescere tendono sempre ad avvicinarsi al prezzo naturale, fin quasi a pareggiarlo. Di legge ordinaria, il prezzo delle derrate non può scendere più giù, nè salire stabilmente più su delle spese di produzione. Nessuno vende per vendere, nè produce per produrre. Se esercita un'industria, ciò fa per conseguire almeno un onesto guadagno. Potrà talvolta sobbarcarsi a perdita, per disfarsi d'una merce, che altrimenti non trova esito; ma se prevede che tal giuoco sia per durare, abbandona la male augurata industria per applicarsi a qualche altra. Che se per contrario gli avviene di vendere ad alto prezzo, senza che manchino i compratori; allora molti si addiranno alla medesima industria, e quindi la concorrenza farà sì che il prezzo cali, non però mai di sotto al costo di produzione, per la ragione dianzi recata. Il pareggiamento per altro del prezzo effettivo col prezzo naturale, attesa l'indole mobilissima di siffatta materia, non sarà mai perfetto; e però la legge di proporzionalità tra la dimanda e l'offerta è quella che regolerà sempre i contratti praticamente. «Qualunque sieno i motivi, osserva qui benissimo il Minghetti, che inducono gli uomini ad operare, l'antica formola che dice: Il valore sta in ragione dell'offerta e della dimanda, è la sola formola legittima nella sua indeterminazione, siccome quella che niente altro esprime, fuorchè lo stato dell'animo dei due contraenti [14]

III.

Il credito.

Credito, checchè sia de' suoi diversi significati, in Economia politica importa fiducia che si ha in altrui, sicchè volentieri gli si affidi il proprio denaro colla sicurezza di riaverlo. Il denaro stesso affidato riceve altresì tal denominazione; onde suol dirsi: Un credito di cento scudi, di mille scudi, eccetera; a cui, in chi deve restituirlo, corrisponda l'idea di debito. I segni convenzionali che nel commercio esprimono la restituzione o il pagamento da farsi di cotesto denaro sono di molte specie; come cambialibiglietti all'ordinepagheròcredenzialivaglia e va dicendo. Noi li esprimeremo cotesti titoli fiduciarii colla frase generica di Carta di credito. Essi valgono una promessa di futuro pagamento; e vengono accettati invece della moneta, come suoi rappresentanti, sulla sicurezza che possano sempre che vogliasi (se sono all'ordine) o alla loro scadenza (se inchiudono dilazione) cambiarsi con oro e con argento [15]. Come la moneta trasporta in certa guisa le merci, così la carta di credito trasporta la moneta da un luogo all'altro, da un tempo all'altro.
Ogni privato può, invece di denaro, sottoscrivere per pagamento nelle compere una carta che lo prometta, purchè il venditore consenta a riceverla; e questi può farne il medesimo uso ne' suoi contratti, posto il medesimo consenso da parte dell'altro contraente. Ma d'ordinario ne' traffichi, segnatamente in grande e tra persone scambievolmente ignote, si adoprano i biglietti delle così detteBanche [16]; istituzioni, vuoi private vuoi pubbliche, intese ad agevolare le operazioni di commercio, mediante segni convenzionali, rappresentativi della moneta sonante. Queste Banche, anche quando non hanno la guarentigia del Governo, se formansi per associazione di molti e grandi capitalisti ispirano bastevole fiducia, più assai che non quelle le quali son tenute da persone particolari; ed, oltre alla maggior guarentigia di onestà e di solvibilità, possono più facilmente disporre di grosse somme a cassa aperta. Esse hanno varie denominazioni, secondo il loro diverso scopo determinato. Ma le più note sono quelle, che diconsi di Circolazione, pe' biglietti che emettono, ovvero di Sconto per le anticipazioni, che fanno con modesta e proporzionale ritenuta.
I vantaggi, che recano alla produzione della ricchezza coteste Banche, sono grandissimi. Basta guardare lo slancio che per virtù loro ha preso il commercio. I loro biglietti facilitano ed assicurano e rendono rapida la circolazione del denaro. La moneta, come vedemmo, agevola grandemente i traffichi, sostituendosi alle altre merci, assai più voluminose e pesanti e non sempre volute in cambio. Ma nondimeno ritiene anch'essa del volume e del peso, e va non poco soggetta a dispersione e rubamento, nè sempre si trova pronta. Quanto imbarazzo e quanto pericolo e ancor quanta spesa, se voi doveste farvi venir dall'America o dalla Cina, per esempio, centomila scudi in oro o in argento! Al contrario, una cambiale o un biglietto di Banca, con poco dispendio, e talvolta ancor con nessuno, vi libera da ogni molestia. Nelle contrattazioni poi quanti incagli, quanta perdita di tempo, quante noie, se i pagamenti si dovessero far sempre in moneta effettiva! Nulla di tutto questo, facendoli con cambiale o girata di polizza. Si osserva che il cotone, venuto greggio dall'India, vi ritorna tessuto in drappi, e con valore immensamente cresciuto. Ma in tutto il lavorìo intermezzo, esso ha dovuto passare per infinite mani, e andar soggetto non sapremmo dire a quante compere e vendite. Che sarebbe, se tutti questi mercati si fossero dovuti fare in moneta metallica?
Il Minghetti dopo aver dimostrato come il credito accelera la circolazione e come l'acceleramento della circolazione aumenta la ricchezza, dice: «Una riprova che la rapida circolazione è di grandissimo momento alla produzione della ricchezza, si ha nei tempi di pubbliche agitazioni e di poca sicurezza; quando la circolazione non dirò cessa, ma si rallenta nel suo corso; e il produttore diffidando più non iscambia le proprie merci che contro moneta o contro prodotti di cui al presente abbisogni: di che segue che languono tutte le classi della società, a quella guisa che le parti del nostro corpo avvizziscono e infermano, se il sangue discorre men rapido nelle vene. Così la produzione della ricchezza ristagna; l'intraprendente ruina, il capitalista non riscuote più interessi; l'operaio offre indarno le sue braccia. A questo triste partito conduce il difetto di circolazione, massime nelle nazioni avvezze all'industria. Se dunque di cotanto rilievo è la circolazione, se non può operarsi tutta colla moneta, e sarebbe anche troppo caro il supplirvi; ne viene che lo scambio si faccia eziandio tra iprodotti e con promesse di futuro pagamento; il che chiamasi operare a credito. Operazione tanto naturale e semplice, che dovette aver luogo fin dai primordii della società; ma che poscia ampliata e diffusa, toltole (dirò così) ogni limite di spazio e di tempo, accentrata negl'Istituti a tal fine creati, acquistò una potenza maravigliosa [17]
Un altro inestimabile vantaggio recano le Banche, ed è non solo quello di accumulare, mediante azionisti, somme ingenti per l'esecuzione di opere gigantesche, ma quello altresì di rendere utili innanzi tempo i capitali, colle anticipazioni che se ne ottengono, mediante sconto. Infine esse fanno fruttiferi perfino i piccoli risparmii dell'artigiano. Il lettore richiami alla mente l'ístituzione sommamente benefica delle Casse di risparmio.
Di fronte però a quest'innegabili beni che le Banche arrecano, quand'esse sono governate dall'onestà, dalla previdenza e dalla moderazione, stanno i pericoli e le sventure in cui travolgono, quando son prese da smodata cupidigia o sospinte da temeraria avventatezza. Li accenneremo colle parole del Minghetti. «Poniamo, egli scrive, in mezzo a vicende di simil fatta, istituzioni di credito facili a sovvenire danaro, poniamone di molte in gara fra loro, e padrone di emettere biglietti senza modo. Queste scorgendo tanto più grande l'utile proprio, quanto è più larga l'emissione de' biglietti, e più ristretta la riserva metallica, si gitteranno a golfo lanciato negli affari, ribasseranno il saggio dell'interesse, sforzandosi di attirare a sè clienti; e offerendo loro agevolezze, soverchierannosi l'una l'altra in temerità ed improntitudine: Che avviene egli allora? Avviene che i prezzi delle merci salgono artatamente; il rapporto fra loro si cangia in modo inopinato; i salarli da principio aumentano; e la specolazione agita la mente di tutti, quando a tutti è facile ricevere stimolo e mezzi ad ogni più arrischiata impresa. Ma la fugace sembianza di prosperità si dilegua; e quei mali testè accennati, che pur sarebbero gravissimi nei limiti della privata facoltà, divengono in tal guisa calamità nazionali. Così gl'Istituti di credito, dopo aver pigliato un potere, a cui il Governo stesso non può resistere, precipitano la fortuna pubblica. Nè di ciò patiscono soltanto gli agiati, ma il danno ripiomba sull'operaio, innocente vittima di un male che non poteva nè prevedere nè antivenire. E che diremo del guasto morale che ne segue, quando l'onesto lavoro e il solerte risparmio cedono all'insania del traricchire; quando l'industria piglia faccia di un giuoco angoscioso e deliro, quando il commercio è divenuto palestra di cupidità e di tracotanza? Di questo doloroso spettacolo ci ha dato esempio non una ma più volte l'America settentrionale [18]
Termineremo questo breve cenno sul credito col notare due equivoci, che conviene studiosamente fuggire, come fonti di perniciosi errori in materia di Economia politica. Il primo è la denominazione di carta moneta, papier monnaie, che alcuni dànno alla Carta di credito. Questa frase confonde in uno due concetti diversi ed opposti. La carta di credito è segno rappresentativo della moneta, non è moneta. La moneta ha valore intrinseco, la carta no. Questa di per sè non equivale ad alcun valore; ma solo è una promessa di un valore, che equivale agli altri valori. La moneta voi potete fonderla, e fusa vi dà oro ed argento, che possono servire ad altri usi e sono vendibili come ogni altra merce. Ma della carta, considerata in sè stessa, che cosa farete? Essa non può essere che bruciata; e bruciata che vi darà? Un poco di cenere. Chiamarla dunque moneta, è un abuso di parola; e nella scienza cotesti abusi sono pericolosissimi. Essi inducono a falsi concetti, e i falsi concetti menano a dannose applicazioni nella pratica.
Il secondo equivoco si è quello di confondere la carta di credito con la così detta carta monetata, che talvolta i Governi, in tempo di scompigliate finanze, emettono con corso forzoso. La differenza tra l'una e l'altra è grandissima. La prima trae origine da fiducia scambievole tra i privati, la seconda trae origine da arbitrio del potere politico, che ha bisogno di moneta effettiva. Quella si fonda in un libero contratto, questa in un costringimento governativo. La carta di credito può essere rifiutata nei pagamenti; la carta monetata per contrario deve necessariamente accettarsi. L'una può, sempre che vogliasi, convertirsi in moneta sonante; l'altra resta sempre ciò che è, vale a dire carta, finchè non venga ritirata dal Governo contro moneta, il che avviene assai di rado.
Quanto è vantaggiosa pel commercio la carta di credito; altrettanto è dannosa la carta monetata. Poichè il corso di questa è obbligatorio pei soli sudditi dello Stato; essa può venir rifiutata dagli stranieri o non accettata che a grande ribasso. Di che segue dall'una parte l'esportazione all'estero di tutta la moneta metallica; e dall'altra un discapito sempre crescente dei negozianti indigeni. Il commercio esterno viene esposto a certa rovina. Nè minore è il danno del commercio interno. Imperocchè essendo assai comodo il batter moneta con materia di pochissimo costo, qual è la carta; il Governo difficilmente resisterà alla tentazione di moltiplicarne l'emissione. Questa per la sua eccedenza rinvilirà, facendo crescere di fronte a lei il prezzo di tutte le merci.
Che diremo poi, se la diffidenza verso il Governo, vuoi per esterna guerra, vuoi per turbamenti intestini, s'impossessi degli animi? Lo svilimento della carta monetata in tali contingenze non ha più limite, con incredibile disfacimento de' suoi sventurati possessori. Si sfolgora giustamente l'atto tirannico di alcuni Governi del Medio Evo, i quali si credettero autorizzati a viziar la moneta, sminuendo ne' singoli pezzi la parte fina del metallo prezioso ed accrescendone la lega. Ma non merita meno sdegno e vitupero l'invenzione moderna della carta monetata con corso coattivo. Essa costringendo ad accettare invece del danaro effettivo un pezzo di carta, riproduce l'adulterazione della moneta sott'altra forma, ma forse più giusta e più perniciosa di quella.
E tanto basti aver accennato del credito; chi più ne desidera, legga gli autori che ne scrissero di proposito.



NOTE:

[1] In lib. 1 Politicorum, lect. VII.
[2] Fedele LamperticoEconomia dei popoli e degli Stati. Introduzione cap. XII.
[3] In librum V, Ethicorum, lect. IX.
[4] Cours Complet etc. Troisième partie, ch. VII.
[5] Genesis, XXIII, 16. [
[6] Della Economia pubblica ecc. lib. secondo, p. 113.
[7] Ivi, libro terzo, Pag. 208.
[8] Vedi il § II. dell'articolo che dettammo sulla ricchezza. Serie XIII, vol. 6, p. 149.
[9] Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, lib. I, capo V.
[10] Économie politique ecc. lib. I, chap. IX.
[11] Dell'Economia pubblica ecc. lib. II. Una terza sentenza fu specolata, la quale è così brevemente e limpidamente esposta dal Senatore Lampertico: «Si considerò la teoria del valore sotto altro aspetto. Alla teoria del costo di produzione si sostituì quella del costo di riproduzione; cioè si richiamò l'attenzione non più al costo che fu necessario a produrre quel bene, ma al costo che sarebbe necessario per riprodurlo. Il compratore, si disse, non si dà pensiero degli sforzi fatti dal venditore, ma solo di quelli che a sè risparmia mediante l'acquisto. Però anche qui si dovette osservare che la formola non è sufficiente a dare spiegazione per tutti i fatti econonici, e precisamente a spiegare il valore dei beni che riprodursi non possono. La teoria del Carey, sostituita a quella del Ricardo, propugnata dal Ferrara in Italia, ne venne modificata, distinguendo la riproduzione fisica, cioè del prodotto identico, dalla riproduzione economica, cioè di prodotti analoghi e suppletivi.» Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, cap. XII.
Di questa teorica, la quale non ci sembra essere altro che una spiritosa invenzione del Carey o, come altri vogliono, del Bastiat, ci verrà più in concio di parlare nell'articolo seguente. Qui ci basti il discorso delle due sole sentenze che hanno più stabile fondamento, e sono le esposte di sopra.
[12] Il Minghetti vorrebbe che si chiamasse terratico, ricorrendo all'autorità del Buti, riportata dal vocabolario. E veramente tal voce sarebbe ottima, se si trattasse de' soli frutti del suolo. Ma siccome non soltanto il suolo coltivabile è compreso dagli Economisti sotto il nome di terra, ma tutti gli agenti naturali appropriati; è necessario ritenere il nome più generico di rendita, per ciò stesso che è più generale.
[13] Principii d'Economia politica. Distribuzione della ricchezza.
[14]  Dell'Economia pubblica ecc. Libro secondo.
[15] L'uso di rappresentar colla carta il denaro imprestato o depositato, sulla fiducia dell'altrui onestà quanto al rimborso, è antichissimo; e noi leggiamo nei santi libri che Tobia Cum... a Rege habuisset decem talenta argenti, diede questa somma in prestito a Gabelo sotto scrittura, sub chirographo. Liber Tobiae I, 16, 17. [«Cum autem venisset in Rages civitatem Medorum, et ex his, quibus honoratus fuerat a rege, habuisset decem talenta argenti, — Et cum in multa turba generis sui Gabelum egentem videret, qui erat ex tribu ejus, sub chirographo dedit illi memoratum pondus argenti.»
«Or essendo egli arrivato a Rages città dei Medi, e avendo riscosso dieci talenti di quello, ond'era stato graziato dal re, — E in una gran frotta di gente della sua stirpe avendo veduto in miseria Gabelo, che era della sua tribù, mediante una ricevuta di pugno gli fidò la detta somma di danaro.» Mons. Martini spiega in nota: «Vers. 16 Di quello, ond'era stato graziato dal re. Di quello, che il re gli avea dato in ricompensa de' suoi servigi; perocchè secondo il Greco egli era provveditore del re.» Vecchio e Nuovo Testamento... tradotto da Mons. A. Martini, tomo VIII, Prato 1817 pag. 160. N.d.R.]
[16] Italianamente dovrebbero dirsi Banchi; ma il costume ha portato che più comunemente si dicano Banche. A questo noi qui ci conformiamo.
[17] Della economia pubblica ecc. Libro terzo.
[18] Dell'Economia pubblica ecc. Libro quarto.

Fonte: http://progettobarruel.comlu.com/novita.html