venerdì 1 febbraio 2013

La politica siciliana nel Regno d’Italia: gli anni 1861-69










 
 
risorgimentodi Massimo Costa - Gli anni immediatamente successivi all’annessione sono per la Sicilia quelli di un Paese non completamente pacificato. Continue sommosse, insurrezioni, ma anche fatti di cronaca nera, e conseguenti stati d’assedio: se ne contano ben tre nella stessa decade.
Il nuovo regime era in una contraddizione latente: da un lato aveva portato, per ragione sociale, un ordinamento che si voleva liberale, dall’altro, nei fatti, governava con un regime di polizia ben piú duro di quello precedente. Una modesta libertà di associazione e di stampa, la rimozione dei vincoli alla libertà di culto, ma soprattutto un moderato diritto di voto furono in pratica gli unici benefici che la Sicilia vide dal processo di unificazione. Per il resto fu letteralmente spogliata di ogni bene e, quel che forse è peggio, militarmente occupata e disprezzata da una casta aliena di funzionari e militari venuti dal lontano Nord Italia, quasi tutti piemontesi nei primi anni.
Se un effetto ebbe la “dominazione” italiana fu quello di rinfocolare, non fosse altro che per reazione, il partito legittimista borbonico, ma – per quanto possa sembrare paradossale – anche quello di far saldare fra di loro tutte le opposizioni: democratica moderata ed estrema, cioè in pratica repubblicana, clericale, borbonica, autonomista e separatista. Chi aveva fatto la “rivoluzione” (se così può dirsi) del 1860, non pochi dei quali avevano fatto anche quella più remota del 1848, si ritrovò di colpo perseguitato dal regime e deluso dal nuovo corso ed ora si rivoltava contro il Governo. Come è stato detto da alcuni storici, però, se la Sicilia (e il Sud) rimase italiano nonostante tutti i clamorosi errori del Governo piemontese (che definiremmo tale anche quando la capitale fu trasferita a Firenze) bisogna ammettere che la vera base di questo dominio era la più forte legittimazione di cui era stato capace di dotarsi. In altri termini, sebbene sembra non ci fosse quasi nessun siciliano contento delle nuove cose, tranne qualche “ascaro” collaborazionista, l’idea di Italia era in qualche modo entrata nel sentire comune (tranne sparuti gruppi indipendentisti e l’opposizione borbonica, sulla quale torneremo). Questa legittimazione “nazionale”, che era mancata al governo duosiciliano, non sta a noi dire se fosse corretta o degna di miglior causa; sta di fatto che c’era e, sulla lunga distanza, costituí il migliore cemento che potesse tenere legata (o forse “incatenata”, visti i rapporti di fatto) la Sicilia alla Penisola, pur non essendolo mai stata sino ad allora nel corso della sua lunga storia.
Ad ogni modo noi non faremo qui la “storia” completa di quegli anni, ma solo quella strettamente politica. La storia completa sarebbe troppo complessa, anche perché è in quegli anni che la “proto-mafia” che già in Sicilia si era formata nel corso del secolo, diventerà una vera e propria istituzione semi-permanente e infangherà con la sua l’immagine stessa della Sicilia. E poi troppo complessi sarebbero i risvolti economici e sociali delle trasformazioni di quel periodo.
Partiamo dunque dalle consultazioni politiche del 1861 per l’elezione della Camera dei Deputati. I Siciliani potevano votare per la prima volta dalle elezioni del 1848. Quelle si erano tenute secondo le regole, assai piú democratiche, della Costituzione del 1812 ed avevano espresso una Costituzione ancor piú democratica in cui praticamente mancava poco al suffragio universale maschile (che poi fosse solo maschile, invero, era solo sottinteso nella Costituzione del 1848, che parlava solo di “cittadini” e non di “cittadini di sesso maschile”). Questa volta, invece, si votava con un suffragio molto, molto ristretto. Potevano votare solo i cittadini non analfabeti (ma era consentito il diritto di voto agli analfabeti del Regno di Sardegna che avevano già votato nelle precedenti elezioni) che pagassero almeno 40 lire di imposta oppure che appartenessero ad alcune categorie privilegiate, a prescindere dal reddito: membri delle accademie, camere di agricoltura e commercio, professori e insegnanti delle Regie Accademie e Regie Università, professori degli istituti di istruzione pubblica secondaria, funzionari e impiegati delle amministrazioni statali civili e militari, membri degli ordini equestri, avvocati, ragionieri, geometri, notai, farmacisti, etc, e in più tutti i laureati.
Come legge elettorale c’era un sistema maggioritario a doppio turno. Non c’erano partiti; si votava il candidato persona fisica del Collegio. La Sicilia aveva diritto a 48 deputati, divisi fra altrettanti collegi. Poteva essere eletto a primo turno solo chi aveva ottenuto il 50 % dei voti piú uno e, contemporaneamente, avesse avuto il voto valido di almeno un terzo degli iscritti alle liste elettorali del Collegio. Al ballottaggio andavano non piú di due candidati (quelli che avevano preso i voti maggiori) e veniva eletto semplicemente chi prendeva piú voti tra loro due. Il sistema era curioso, perché il requisito del terzo dei voti tra gli aventi diritto, spesso costringeva al ballottaggio in alcuni collegi in cui già c’erano solo due candidati alla partenza. E i ballottaggi nel tempo andarono aumentando man mano che aumentava l’astensionismo.
Se andiamo a guardare i risultati ufficiali, troviamo che con il 79,6 % di affluenza e il 96,3 % di voti validi la Sicilia si affermò come la prima in Italia per partecipazione alle elezioni. Questo entusiasmo iniziale nel tempo sarebbe andato lentamente scemando, ma segna comunque un punto a favore per l’unica Regione che poteva vantare secoli di storia parlamentare propria. I 48 deputati furono così distribuiti:
Destra storica 27, con il 38,9 % dei voti;
Sinistra storica 16, con il 23,8 % dei voti;
Sinistra estrema 2 con il 2,4 % dei voti;
Eletti “non definibili” 3 con il 4 % dei voti;
altri candidati non eletti 30,9 % dei voti.
Fra gli sconfitti “eccellenti” ricordiamo il Calvi, sconfitto a Calatafimi da Simone Corleo, pure lui moderato, ma meno legato a Torino, il Carnazza, regionista e indipendentista del 1848, sconfitto a Catania dal rappresentante della Destra storica, e ancora il Marchese di Roccaforte, di destra ma regionista, sconfitto in più circoscrizioni, Francesco Ferrara, liberale della Sinistra, sconfitto da Giacinto Carini della Destra nella Palermo II.
Insomma, vinse la Destra dei moderati. Fu, come si vede una vittoria tutto sommato sofferta, se si considera che votavano solo i benestanti e che le pressioni del Governo su queste elezioni, in cui si veniva eletti con qualche centinaio di voti per ogni collegio, dovettero essere enormi, ma – almeno nel 1861 – la Destra, ancora rappresentata dal Cavour, poteva dire di avere il pieno controllo dell’Isola.
Non inganni il 30,9 % dei voti ad “altri”. Il sistema elettorale portava infatti i cartelli politici a schierare piú di un candidato nei collegi in cui si sentivano particolarmente forti, o in quelli in cui le “correnti” interne ai due principali partiti erano in contenzioso tra di loro.
Quello che però è interessante è  scorgere i nomi all’interno di queste due grandi formazioni. L’inesperto potrebbe infatti pensare che quei 16 oppositori fossero tutti “azionisti”  garibaldini alla Crispi, da un lato oppositori degli eccessi della Destra storica, ma dall’altro ferventi nazionalisti che chiamavano al voto al grido di “O Roma o morte!”. E qui invece spunta una sorpresa. La maggior parte degli eletti di sinistra non sono garibaldini “puri”, ma esponenti di un partito che man mano che gli anni passano diventerà sempre piú forte: i “regionisti”, cioè gli autonomisti siciliani, almeno quelli di sinistra, quasi tutti reduci del 1848!
La Destra ottiene sí la maggioranza, ma di “salti della quaglia” ne ha proprio pochi. Gli unici “eroi” del 1848 che passano armi e bagagli, per opportunismo o per convinzione politica, all’unionismo puro e semplice si contano sulle dita di una mano. Abbiamo ovviamente il La Farina, eletto a Messina II, abbiamo il Calvi, che aveva solennemente proclamato i risultati del plebiscito e abbiamo Michele Amari, il grande storico del Vespro, peraltro sconfitto simultaneamente in tre collegi, ma fatto senatore (e quindi parlamentare a vita) poco dopo, e pochissimi altri. La maggior parte del personale politico della Destra era composto o da blasoni opportunisti che dopo aver ritrattato la deposizione del re Borbone ora erano fedeli sudditi di Vittorio Emanuele, oppure di borghesi di provincia tutto sommato oscuri.
La Sinistra invece aveva, tra i suoi eletti, il fior fiore del Sicilianismo, oltre ai democratici propriamente detti: Lucio Tasca D’Almerita, antenato dell’omonimo conte separatista del II Dopoguerra, per qualche tempo Filippo Cordova, che poi passò alla Destra, Vincenzo Di Marco, Gregorio Ugdulena, Emerico Amari, ma anche Francesco Crispi, Giuseppe La Masa e il repubblicano Saverio Friscia. Un fronte composito, quindi, in cui il Regionismo cattolico, autonomista e liberale era in assoluta prevalenza.
Fra i due eletti della sinistra estrema ritroviamo quell’Antonio Mordini che aveva tentato di convocare l’assemblea parlamentare l’anno prima ed al quale si doveva la Relazione del Consiglio Straordinario di Stato in cui si prospettava in sostanza una Sicilia federata all’Italia.
La “destra regionista” di impronta clericale invece non si era arrivata ad organizzare e avrebbe iniziato a giocare un proprio ruolo piú tardi. A meno di non voler attribuirle, ma è assai dubbio, almeno alcuni dei pochi deputati non allineati che emersero da quelle elezioni.
Il nuovo ordine è però segnato da disordini crescenti che alienano presto quel po’ di favore di cui ancora il Governo poteva godere ai primi dell’anno. Dai fatti di Santa Margherita Belice del marzo in poi è un susseguirsi di insofferenze continue. Non può dirsi, ad ogni modo, che in Sicilia si sia combattuta una vera e propria “Guerra del Brigantaggio” paragonabile a quella che infiammò il Sud Italia. Lí si trattò in modo inequivocabile di una guerra civile di impronta legittimista con un evidente sostegno e regìa da parte del Governo borbonico in esilio a Roma; qui si trattò di una rivolta indomabile, acefala, endemica, in cui confluivano molte formazioni politiche di opposizione, ma, senza soluzione di continuità, anche di comuni problemi di ordine pubblico e criminalità. Da Marsiglia l’ex-capo della Polizia siciliana borbonica, il Maniscalco, ovviamente organizzò o tentò di riorganizzare il partito borbonico attraverso i “comitati”. Ma è difficile stabilire esattamente quale sia stato il loro ruolo, anche perché la “propaganda ufficiale” attribuiva genericamente ogni insorgenza o a indistinti “clerico-borbonici”, o ad altrettanto indistinti “repubblicani”, con evidente confusione. È ben vero che la confusione c’era realmente, al punto che in circoli repubblicani finivano persino per militare borbonici, più o meno camuffati, ma è anche vero che tutti, persino i clericali, smentivano contatti con i borbonici, comunemente definiti “sorci”, e praticamente ghettizzati nella politica siciliana di quegli anni, più o meno come sarebbe stato l’MSI negli anni della I Italia repubblicana. Nei fatti però la repressione – come si è detto sopra – aveva conciliato l’inconciliabile e ormai regionisti, appena tollerati dal Governo, ma talvolta anche incarcerati, e legittimisti di fatto andavano a braccetto dopo che si erano “sparati” gli uni gli altri per generazioni. Col tempo i legittimisti sarebbero riusciti ad esprimere un leader di tutto rispetto: il Mortillaro, già reduce dal 1848, ed esponente di un moderato sicilianismo sin sotto i Borbone (come nella polemica contro la politica doganale interna o “del cabotaggio”, ma che aveva rifiutato di votare la decadenza del re) ed ora a capo del partito. Ma, come vedremo, questo resterà sempre ai margini della scena politica siciliana e finirà per confluire di nuovo nell’autonomismo siciliano.
Il 14 aprile il Governo della Luogotenenza passa al Generale Della Rovere: di fatto la Sicilia è sotto amministrazione militare. A settembre c’è un cambio della guardia con il Generale Pettinengo. Nel mezzo (a giugno) muore Cavour, che non aveva mai escluso del tutto una soluzione regionalista per il Paese da poco a stento unito. Il clima mutava di male in peggio.
Impossibile citare tutti i disordini. Si ricordi almeno la Rivolta dei Cutrara di Castellammare agli inizi dell’anno successivo (il 1862) e la susseguente spietata repressione. Il Governo autonomo della Luogotenenza, ombra dell’Autonomia richiesta, è revocato.
In questo clima rovente Garibaldi, a giugno, ritorna a Palermo, dove godeva ancora di una certa popolarità e recluta volontari per la spedizione su Roma. Prosegue sino a Catania dove si imbarca per la Calabria e per la sfortunata spedizione dell’Aspromonte. La Sicilia è ora considerata una Regione ribelle e posta sotto stato d’assedio, affidata alle “cure” del Generale Cugia, sostituito ai primi del 1863, dal piú feroce ancora Cialdini. I “garibaldini” sono braccati come bestie, i diritti civili restano un fatto teorico. Il Governo italiano scopre la “strategia della tensione”: il terrorismo a fini politici. Una oscura “congiura dei pugnalatori”, prontamente attribuita ai “clerico-borbonici”, scuote Palermo, e giustifica provvedimenti eccezionali. Intanto però, ad agosto del 1863, a lasciarci la pelle non è un questore o un rappresentante dell’ordine costituito ma il garibaldino radicale Giovanni Corrao, che, insieme a non pochi repubblicani dell’Isola, non aveva esitato ad allearsi con le opposizioni di Destra. La “strana alleanza” di rossi e bianchi o biancogigliati contro l’oppressore non viene però ad interrompersi, anzi i disordini aumentano. Questa alleanza, per inciso, è sconfessata dallo stesso Mazzini come dagli azionisti “continentali”, timorosi della piega separatista che stanno prendendo le cose in Sicilia. Il Governo reagisce estendendo alla Sicilia la Legge Pica, già sperimentata nelle Province Napoletane per la lotta al “brigantaggio”: chiunque fosse stato sommariamente identificato come “brigante” sarebbe stato giudicato dai tribunali militari e giustiziato. In pratica era la licenza di uccidere impunemente meridionali e siciliani in quanto tali. Eroica ma inutile fu l’opposizione parlamentare del Siciliano autonomista D’Ondes Reggio: la sua era solo una voce che veniva da una colonia appena conquistata e che si rifiutava di arrendersi.
Il Generale Govone tenne in stato d’assedio la Sicilia fino alla fine del 1865. Questo non valse però a normalizzare la Sicilia.
Anzi, le elezioni politiche del 1865, segnarono la sconfitta nell’Isola della Destra storica, nonostante il controllo militare di cui poteva disporre il Governo sulle elezioni.
Questi i risultati:
Affluenza: 70,7 % ( – 8,9); Voti validi 96,6 % ( + 0,3);
Destra Storica 20 deputati ( – 7), 27,2 % ( – 11,7 %)
Sinistra Storica 23 deputati ( + 7), 29,8 % ( + 6,0)
Sinistra Estrema 4 deputati ( + 2),  5,8 % ( + 3,4)
Eletti “non definibili” 1 deputato ( – 3), 1,7 % ( – 2,3)
Altri candidati non eletti 35,5 %, ( + 4,6).
È il sorpasso della Sinistra sulla Destra. Sono elezioni molto piú combattute e sofferte: i ballottaggi passano da 7 a 16 e non mancano sorprese. Questa volta il partito regionista di destra, piú o meno neoborbonico, è organizzato e si presenta alle elezioni. Ma non c’è molto spazio per le candidature indipendenti. A parte tale Di Figlia, che la spunta a Caltanissetta, il Mortillaro è sconfitto in tre collegi. Ma tra questi, a Calatafimi, è sconfitto insieme al candidato della Destra Simone Corleo mentre vince quello della sinistra estrema Luigi Miceli; simile il risultato a Palermo II, dove il democratico Friscia non batte solo il Mortillaro ma anche il candidato della Destra, Paternostro. I democratici guadagnano qualche posizione sulla stessa corrente regionista della Sinistra che qua e là vacilla: il D’Ondes Reggio è sconfitto da Cognata ad Aragona e da Tamajo a Messina II, entrambi della Sinistra, ma la spunta a Palermo IV; il Carnazza è sconfitto di nuovo a Catania I e a Regalbuto, ma a favore di altri candidati di Sinistra; il La Masa, azionista di sinistra, sconfigge il regionista di sinistra Ugdulena a Termini Imerese. Il moderato Marchese di Roccaforte fa vincere la Destra a Palermo I, ma lui, conservatore, manda a casa il liberale Vincenzo Errante, pure di destra e sconfigge persino Francesco Crispi. Nel complesso i regionisti tengono ma la scena politica si radicalizza. Gli “estremisti” a Messina I addirittura eleggono deputato Giuseppe Mazzini. Nel complesso però il risultato era che il Governo di Torino (e pochi mesi dopo, di Firenze) era stato messo in minoranza in Sicilia.
Come mai questa maggioranza nulla o quasi poté  in Italia per sollevare la Questione Siciliana? Il punto è che la Destra Storica era saldamente al potere al Centro-Nord e poteva semplicemente ignorare e reprimere la Sicilia all’opposizione. I numeri del Nord erano piú forti di quelli del Sud e la forza prevaleva.
Gli anni tra il 1865 e il 1866 videro precipitare gli effetti della conquista piemontese: già nel 1862 era stata introdotta la leva obbligatoria, fatto alieno alla storia siciliana, i Borbone non ci erano mai riusciti e si erano accontentati di un compromesso, ora entrava di colpo la legislazione civile e penale piemontese, in molti punti piú arretrata di quella duosiciliana, entrava il corso forzoso delle monete cartacee e sparivano dalla circolazione quelle in metallo pregiato, ma soprattutto venivano sciolte tutte le corporazioni religiose e il loro patrimonio confiscato allo Stato. Lo shock fu tremendo, ma forse chi guidava il vapore sapeva di avere il coltello dalla parte del manico.
Il settembre del 1866 vide una Rivolta, quella del Sette e Mezzo, in cui tutto il malcontento e tutte le opposizioni si condensarono in una minaccia concreta per il nuovo Stato italiano. Mai, dal 1861, la Sicilia aveva rappresentato tale pericolo e, ora che il brigantaggio nel Sud era praticamente sconfitto, proprio mentre lo Stato era impegnato in una guerra impari (la III Guerra d’Indipendenza per liberare il Nord-Est del Paese dal dominio austriaco) fatta solo di sconfitte, si apriva una faglia terribile, anzi scandalosa per il patriottismo di regime, all’estremo Sud dello Stato.
Non ripercorriamo qui i fatti di quei convulsi giorni che stavano per infiammare la Sicilia intera. Non si ebbe il tempo di dare un ordine alla rivolta. Il ceto medio e superiore fu spaventato da quella che sarebbe potuta essere una delle tante, forse l’ultima, delle rivolte urbane di Antico Regime che Palermo era capace di fare, non dissimile da quella del 1647 o del 1773 o a quelle politiche del 1800. Si arrivò appena a costituire un Comitato provvisorio affidato al Principe di Linguaglossa, fra i pochissimi dell’élite palermitana che diedero credito alla sommossa. I rapporti di forza e l’isolamento internazionale dei Siciliani però non consentivano altri sbocchi se non quello della repressione e, di nuovo, dell’amministrazione militare della Sicilia con lo Stato d’assedio. Palermo fu cannoneggiata dal mare come un Paese straniero da conquistare; i rivoltosi furono fucilati ad alzo zero. La Sicilia fu piegata con lo sterminio e con la collaborazione del fedele sindaco collaborazionista Di Rudiní.
Qual era il colore della rivolta? Non lo sapremo mai con esattezza. Forse era il colore della fame piú nera, il colore incolore della disperazione. Certo era che mai come allora gli estremismi repubblicani e borbonici riuscirono ad alzare tanto il tiro e a coalizzarsi tra loro. C’era certamente il clericalismo, anzi forse era il carattere dominante, insieme al regionismo, in quella rivolta. C’erano anche punte di separatismo, ma la rivolta era separatista nei fatti piú che nelle ideologie. Dopo soli sette anni dallo sbarco di Garibaldi l’idea compiuta di una Sicilia indipendente era quasi sparita dall’orizzonte dei Siciliani. Ma… nei fatti i rivoltosi si stavano per dotare di un Governo separato da quello del Continente e forse l’unico nodo da sciogliere era se ricostituire il Regno di Sicilia e affidare la corona a Francesco II o creare la Repubblica Siciliana come qualcuno vagheggiava in quei giorni. Ma non si ebbe tempo di pensare piú di tanto. La repressione giunse implacabile e risolutiva a tranquillizzare i bempensanti.
L’anno dopo arrivarono di nuovo le elezioni politiche. Questa volta il Governo raccolse, sia pure nei limiti del suffragio limitato, i frutti di tanto veleno versato. I risultati furono infatti i seguenti.
Affluenza 68,9 % ( – 1,8); Voti validi 96,3 ( – 0,3)
Destra storica 16 deputati ( – 4) e 22,5 % ( – 4,7)
Sinistra storica 28 deputati ( + 5) e 38,7 % ( + 8,9)
Sinistra estrema 3 deputati ( – 1) e 4,4 % ( – 1,4)
Eletti “non definibili” 1 deputato (=) e 1,9 % ( + 0,2)
Altri candidati non eletti 32,5 % ( – 3,0)
Ballottaggi 17 ( + 1)
Ormai la Sinistra esprimeva compatta un blocco sociale. In questo convergevano tanto istanze democratiche quanto oscure, addirittura mafiose. Era ormai “la Sicilia” tutta, nel bene e nel male, che si contrapponeva ad una politica statale completamente alienata e ottusa. La Destra, in Italia, continuava però ad avere la maggioranza. Essa ormai era espulsa dai grandi centri urbani o dai piú popolosi collegi rurali e sopravviveva nelle contrade piú desolate dell’Isola, dove il Prefetto poteva ancora controllare il voto dei pochi notabili: Castroreale, Cefalú, Corleone, Militello, Noto, Partinico, Patti, Petralia e pochi altri.
Fra i nomi e i collegi da ricordare: a Caccamo la sinistra fa eleggere l’economista Francesco Ferrara, a Calatafimi la sinistra estrema batte Simone Corleo della Destra, Saverio Friscia, definitivamente passato alla Sinistra repubblicana ed estrema, vince a Sciacca ma viene sconfitto dal candidato della Sinistra storica a Palermo II, Cordova, della Destra, la spunta a Caltagirone, i regionisti Emerico Amari e Vito D’Ondes Reggio, teoricamente contati come Sinistra storica, vincono a mani basse a Palermo III e IV, a Palermo I vince Cottú di Roccaforte, altro regionista, teoricamente contato come Destra storica. In realtà, al di là dell’apparentamento parlamentare a Roma, Palermo si rivela la roccaforte siciliana del Regionismo, che si va colorando sempre piú di conservatorismo cattolico. Si fanno avanti, ancora, tra le fila degli eletti della Sinistra molti nomi nuovi e sostanzialmente anonimi: è la marea dei “notabili”, dei politici di mestiere, che pian piano emerge nella politica del nuovo Regno d’Italia.
Sul finire degli anni ’60 pian piano il clima cambia. L’opposizione parlamentare della Sicilia e la sconfitta militare del 1866 attenuano le tensioni politico-militari dei primi anni. L’opposizione trova sfogo nel voto amministrativo, strappando ai moderati quasi tutte le amministrazioni comunali: nel 1869 è la volta di Palermo, che cade nelle mane di una coalizione di regionisti e clericali. L’Italia, bene o male, si consolida nel novero degli stati europei. Comincia persino una politica coloniale (se mai non era già coloniale la conquista del Sud): la Compagnia di navigazione genovese Rubattino acquista in Eritrea la Baia di Assab, iniziando cosí la penetrazione italiana nel Corno d’Africa. Comincia al contempo e cresce sempre piú l’emigrazione dei Siciliani, la loro diaspora nel mondo.
La presa di Roma, infine, nel 1870, annienta ogni focolaio di legittimismo borbonico (ma già da qualche anno Francesco II aveva sciolto il Governo in esilio ormai non piú riconosciuto nemmeno dalla Spagna), e decretano la scomparsa dal panorama politico siciliano di quel po’ di neoborbonismo che negli anni ’60 si era venuto a creare. Gli eredi vanno ad ingrossare le fila dell’Autonomismo siciliano che resta piú o meno larvatamente separatista.