lunedì 29 agosto 2011

La Controrivoluzione che avanza.

Udite, udite, il Re è tornato. Non siamo a Napoli ma a Podgorica (già Titograd nei bui anni della guerra fredda), una città con poco meno di 170.000 abitanti al centro di una rete di comunicazioni che collega l’Adriatico, l’Albania, la Croazia e la Serbia tra loro. Dal sito del giornalista Fausto Biloslavo (www.faustobiloslavo.eu) apprendiamo la notizia che il Pincipe Nikola Petrovic, ultimo erede della dinastia che regnò sul piccolo paese balcanico fino al 1918, quando perse l’indipendenza e fu costretto a lasciare il trono. Strana storia quella dei Petrovic e del Montenegro. All’inizio del ‘700 l’Impero Ottomano concesse larga autonomia al piccolo paese tanto che questo venne retto al suo interno dall’operato dei Principi – Vescovi (siamo in territorio Ortodosso, naturalmente) che divennero ereditari con la dinastia dei Petrovic Niegos. La svolta si ebbe nel 1852 quando il Principe rinunciò alla carica ecclesiastica mantenendo solo la carica civile che gli fu riconosciuta come guida dello stato indipendente col Congresso di Berlino del 1878. Nicola Petrovic Niegos avviò tra otto e novecento un processo di profonda innovazione diventando “Il suocero d’Europa” per via della politica matrimoniale attuata per legarsi alle altre monarchie europee (tra cui quella dei Savoia con Elena, regina d’Italia fino al 1946). Nicola si proclamò Re il 28 agosto 1910 fondando il Regno del Montenegro. A nulla servì visto che la rivoluzione permanente, dopo aver tagliato la testa a Maria Stuarda e Luigi XVI, dopo aver distrutto il Regno di Scozia, quello di Francia e le monarchie italiane, dopo aver attaccato la Chiesa Cattolica in ogni parte d’Europa con la prima guerra mondiale pose fine alle ultime monarchie conservatrici europee. In Russia, Austria, Germania, Serbia, Croazia, Grecia, Impero Ottomano e Montenegro caddero le corone (a volte anche la testa del Re) e a nulla servì la volontà popolare visto che i fedeli montenegrini combatterono fino al 1924 per restaurare la propria monarchia. Oggi l’erede di Nicola I, Nicola anch’esso ritornerà nel suo paese dove ancora forte è l’attaccamento alla monarchia. Se pure non saranno a lui restituiti il titolo e il trono, la lunga trattativa tra la Repubblica e i Petrovic hanno portato ad un compromesso. Gli eredi dei sovrani montenegrini incasseranno 4,3 milioni di euro a titolo di risarcimento (diluiti in sette anni) per la corona e i beni perduti nel 1918 senza considerare che il Principe Nicola (aspirante Nicola II) partirà da Parigi, sua residenza attuale, con la consapevolezza di diventare uno stipendiato dello stato Montenegrino. Il suo stipendio? Tremila euro al mese, lo stesso budget (manco a dirlo in Italia) destinato al Presidente della Repubblica del Montenegro. Inoltre alla famiglia verranno restituite alcune terre confiscate e nella vecchia capitale, Cetinje, sarà costruita una nuova Casa Reale che ospiterà per l’appunto, la famiglia del Principe assieme alla residenza loro destinata a Podgorica. Insomma per farla breve, il Re che non regna tornerà in Montenegro. Ma tutti pensano che si tratti di un momento temporaneo in vista di una vera e propria restaurazione politica, culturale, civile e anche religiosa dopo l’ateismo di stato imposto in Jugoslavia dal regime comunista impostosi nel 1948. A questo punto sarebbe inutile fare un paragone con le monarchie spodestate dalla rivoluzione cavalcata dai Savoia nel 1859-1861. I Borbone - Parma, i Borbone Due Sicilie, i Lorena e gli Estensi non si sognino di essere stipendiati come il presidente della Repubblica Giorgio Savoia, pardon, Napolitano (e ci mancherebbe! Visto quanto ci costa il deficit si aggraverebbe ulteriormente!). Né tantomeno sperino i signori Savoia di ottenere qualcosa. L’esperimento montenegrino è invece interessante perché, al di là della questione dei risarcimenti, si inserisce in tutta una serie di casi in controtendenza con la marcia rivoluzionaria europea e mondiale. Mentre l’Europa smentisce se stessa, cestinando con una votazione degli eurotecnoburocrati di Bruxelles tutta la sua storia e le sue radici cristiane, diversi paesi guardano indietro e ragionano sui modelli di potere tradizionali presenti nella loro storia passata. 
Nella vicina repubblica Serba, Alessandro Karadjeordjevic, erede al trono della famiglia reale serba, nonché cugino di Nicola Petrovic (erede quindi dei Karadjeordjevic che usurparono i Petrovic nel 1918, una sorta di Savoia slavi!), da tempo predica e auspica il ritorno della corona. Nel 2001 all’erede servo fu assegnata dal governo l’ex Villa Reale di Beli Dvor a Dedinje, collina delle elités di Belgrado, dalla quale muove le fila dei monarchici nel paese. Ogni anno tiene un pubblico messaggio rivolto al suo popolo e da 10 anni si spende per convincere i serbi della bellezza della monarchia. Durante l’ultimo appello ha paragonato una serie di dinastie ai tiranni che le hanno seguite invocando la restaurazione di una monarchia costituzionale a Belgrado. Cosa non del tutto campata in aria visto che il vento monarchico soffia forte da est. In Ungheria, una riforma della costituzione voluta dalla coalizione di centro – destra al Governo del paese ha addirittura “cancellato” la Repubblica, almeno nel nome del Paese. L’Ungheria è tornata ad essere una entità etnica, discorso che riaccende vecchi fuochi nazionalistici nei paesi vicini dove nelle zone di confine in Romania, Slovacchia, Ucraina e Serbia sono abitate da vecchi discendenti dei Magiari dell’epoca Asburgica. La marcia della controrivoluzione non è soltanto politica. 
Nella stessa riforma costituzionale ungherese viene sancito il riconoscimento delle radici cattoliche fissando la necessità di onorare la corona di Re Stefano posta a fondamento dell’unità della nazione ungherese. L’aborto viene messo costituzionalmente fuorilegge così come diversi sono i provvedimenti costituzionali a tutela della famiglia tradizionale basata sull’uomo e sulla donna. La nuova costituzione diventerà legge il primo gennaio del 2012 e, fino ad oggi, solo Amnesty International ha criticato il provvedimento perché sarebbe discriminatorie dei diritti civili dell’uomo! Se l’Ungheria canta tradizionale anche la Georgia non scherza. Nel piccolo paese caucasico, patria di Stalin, ritornato ad una nuova vivacità grazie alla chiesa, ai monarchici georgiani e ai provvedimenti costituzionali degli ultimi anni, è tutto un fermento “conservatore”. Nonostante la pressione dell’ingombrante vicino russo (dove non si è capito bene quando Putin si autoproclamerà Zar!) la Georgia negli ultimi anni ha sviluppato un vivace dibattito pubblico. Diverse sono le voci che auspicano un ritorno alla monarchia. I monarchici georgiani hanno rilasciato una dichiarazione ufficiale a conclusione del III congresso nazionale dell’Unione dei Nobili e Aderendi del Movimento monarchico della corona degli Zar. 
Diretto interessato è il Principe Giorgio Bagrationi – Moukharnsky, che ha rimesso la palla nelle mani del popolo auspicando un referendum. I Bagrationi godono del rispetto e del sostegno del clero ortodosso in forte ascesa di influenza sul popolo georgiano che, dopo 50 anni di laicismo e ateismo di stato, hanno virato verso un deciso ritorno alla fede.  Il Patriarca Ilia II ha invitato Giorgio Bagrationi a fare di più per stimolare la popolazione sul tema sottolineando che il motto dello stato è “Lingua, Patria, Fede e Re”. Il sostegno della chiesa potrebbe però non bastare senza un sostegno politico. Una monarchia costituzionale, seppure non alle porte, pare in vista dato che la riforma della costituzione ha ridotto i poteri del Presidente instaurando una repubblica parlamentare e non presidenziale. Un passo che, secondo molti, potrebbe essere da preludio all’ascesa al trono di Giorgio XIII. A cominciare dal The Georgian Times, uno dei giornali più letti la monarchia rappresenterebbe la forma giusta di governo per la Georgia. Il rientro alla monarchia sarà una certezza se alle prossime elezioni lo scontro politico dovesse inasprirsi. Di fronte alla crescita delle estreme e dei gruppi nazionalisti filo russi si auspica la formazione di un potere unificatore attorno al quale far convergere tutte le forze ragionevoli dello stato. Tutto, per ora, è nelle mani del presidente Saakashvili che potrebbe forzare la mano e portare alla auspicata restaurazione quale moderno Francisco Franco. Proprio in Spagna, dove Franco restaurò la monarchia mettendola nelle mani di Juan Carlos di Borbone che fu restauratore della democrazia nel Paese, oggi si vive un duro scontro tra le forze riformiste del socialista Zapatero, ormai arrivato alla conclusione della sua esperienza di governo, e la Chiesa spagnola, tra le più sensibili a certe battaglie come quella, durissima, sull’aborto. 
Addirittura la scomunica è stata annunciata per chi approverà la legge che facilita l’aborto in Spagna e il primo “colpito” è il deputato socialista José Bono, cattolico praticante cui non viene concessa la comunione. L’unico ad essere salvato dal provvedimento è proprio il Re che sarà costretto a sanzionare la legge ma che non verrà colpito dal rimprovero della Chiesa. Anzi, la conferenza episcopale spagnola ha redatto una lettera al Re e si sono raccolte in poche ore 50mila firma cui si aggiungeranno altre per chiedere proprio di non firmare. Mentre la controrivoluzione avanza anche in Italia non può dirsi che tutto taccia. Il family day fu un tentativo di difendere il concetto di famiglia tradizionale, nonostante il tentativo di politicizzare quella giornata. La chiesa italiana, inoltre, non è quella georgiana, e il troppo riformismo interno al clero rallenta tutte le proposte in contro tendenza. Dal punto di vista politico e di riesamina storica tutto è fermo ma qualche “leggina” di ispirazione controrivoluzionaria viene approvata anche se con molte difficoltà riesce a trovare consenso. Basti pensare al caso del fine vita, o al recente provvedimento della Regione Lombardia con cui il Pirellone ha dato avvio alla distribuzione del contributo economico anti aborto, un totale di 4500 alle donne che decideranno di tenere il bambino. Manco a dirlo, il provvedimento a destato clamore e aperto una discussione che ancora continua.

Roberto Della Rocca