giovedì 23 aprile 2015

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA E LA SOVRANITÀ DEL POPOLO. (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)



Papa Leone XIII
La sovranità del popolo è il gran dogma della democrazia. La parola democrazia non significa altra
cosa. Il pericolo per la democrazia cristiana sta nell'essere trascinata ad adottare questo dogma. Più
volte Leone XIII si è sforzato di preservarnela.
"Fin dal primordii del nostro Pontificato - egli disse nella Enciclica Graves de Communi, chiamata
comunemente l'Enciclica della democrazia cristiana - Noi abbiamo creduto nostro dovere di
avvertire pubblicamente i cattolici degli errori profondi nascosti nelle dottrine del socialismo. Tale è
lo scopo cui mirava la Nostra Lettera Enciclica: Quod apostolici Muneris che abbiamo pubblicato il
28 dicembre 1878. I pericoli facendosi di giorno in giorno più gravi, a danno crescente degli
interessi pubblici e privati, Ci siamo studiati, una seconda volta, di provvedervi con maggior zelo
nella nostra Enciclica Rerum Novarum in data del 15 maggio 1891".
Dieci anni più tardi il 18 gennaio 1901 Leone XIII si vedeva nella necessità di premunire, ancor una
volta, contro lo stesso pericolo, e pubblicava questa Enciclica Graves de Communi, in cui stabiliva
nettamente i punti di separazione fra la democrazia socialista, l'azione popolare cristiana, e quella
democrazia che dicesi cristiana, ma che certe tendenze espongono troppo a ravvicinarsi alla
democrazia socialista.
"La democrazia sociale - dice egli - è spinta da un gran numero de' suoi adepti ad un tal punto di
perversità, che non vede nulla di superiore agli interessi della terra, che, ricerca i beni corporali ed
esteriori, e pone la felicità dell'uomo nella ricerca e nel godimento di questi beni. E per questo essi
vorrebbero che, nello Stato, il potere appartenesse al popolo".
"Coloro che si consacrano all'azione popolare cristiana - dice ancora Leone XIII - devono
conservare la distinzione delle classi, che è il carattere proprio d'uno Stato ben costituito. Non
devono permettersi di volgere ad un senso politico la parola della democrazia cristiana, aderire ad
un regime civile piuttosto che ad un altro, e pretendere di monopolizzarlo per se stessi e per la loro
azione. Non devono escludere il concorso delle classi superiori, né nascondere, sotto il vocabolo di
democrazia cristiana, l'intenzione di rigettare ogni obbedienza e di sprezzare i legittimi superiori.
Essi non devono condannare l'elemosina, come quella che fomenta l'orgoglio di quelli che danno e
fa arrossire quelli che ricevono".
Tutte queste proibizioni e tutte queste raccomandazioni sono espressamente fatte nella Enciclica
Graves de Communi. Se dunque Leone XIII ha dovuto formularle dieci anni, ed anche ventitré anni
dopo aver esposto la dottrina e tracciate le regole di condotta che ne derivano; e se infine Pio X si è
trovato nella necessità di condensare in un Motu Proprio tutto l'insegnamento del suo predecessore
su questo punto, egli è perché in questi trent'anni, le aberrazioni segnalate non aveano cessato di
essere professate dalla nuova scuola che si copre del nome di democrazia cristiana. E difatti, si trova
nei libri, nelle riviste, nei giornali pubblicati dal partito, nelle conferenze tenute dai suoi oratori, che
molti hanno biasimato l'elemosina, predicato l'insubordinazione, fatto rigettare ogni concorso
venuto dalle classi superiori, affermato l'eccellenza della Repubblica, ed il dovere per tutti gli
uomini consacrati agl'interessi del popolo, di lavorare al mantenimento od all'avvento di questo
regime, infine declamato contro la gerarchia sociale.
Coloro che non leggono gli scritti del partito, sanno però, che la prima missione che esso si è tolta, è
stata quella di levarsi, d'accordo coi democratici di ogni specie, contro le ingiustizie dell'ordine
sociale. Se non ne dimanda la distruzione radicale, come fanno i democratici socialisti, non suscita
meno, contro di esso, le passioni popolari, sempre pronte ad impadronirsi del potere.
Senza dubbio, vi sono delle imperfezioni e degli abusi, nella società, in tutti i suoi gradi ed in tutte
le sue istituzioni. Né il diritto paterno, né il diritto civile o politico, né il diritto economico, né il
diritto internazionale, né anche il diritto ecclesiastico potrebbero andarne dei tutto esenti. Tutti
questi diritti sono nelle mani degli uomini, e gli uomini sono uomini dappertutto; in tutte le cose,
essi portano le incertezze della loro ragione e le corruzioni del cuore. Neppure i migliori possono
giungere alla perfezione. I difetti si manifestano, l'intelligenza, meno colpita che il cuore dalla colpa
originale, li intuisce e l'uomo se ne lamenta. Questi lamenti sono troppo spesso irragionevoli.
Esigere nelle cose la realizzazione dell'ideale che lo spirito può ancora intravedere, è un dimenticare
l'uomo e ciò ch'egli è divenuto per causa del peccato. D'altronde, quali che sieno e il numero e la
gravità degli abusi onde si rendono colpevoli i depositarii dell'autorità legittima, essa ne impedisce
presso tutti i popoli un numero senza confronto maggiore. Bisogna saper sopportare la società quale
può esistere sulla terra e fra gli uomini. La demenza delle rivoluzioni sta nell'insorgere contro ciò
che è, perché non attua una tesi ideale, che spesso si trarrebbe dietro disordini assai maggiori di
quelli che esistono. Ma le declamazioni contro la società sono sempre bene accolte perché noi
amiamo meglio vedere il male in essa che in noi stessi; ciò ferisce meno il nostro orgoglio, e, di più,
noi veniamo con ciò a sottrarci dall'obbligo doloroso di dover lavorare pel nostro proprio
emendamento.
I lamenti contro le ingiustizie dello stato sociale finiscono col reclamare il regime della sovranità
del popolo.
Innanzi tutto, prima di adoperarsi a conferirgli la sovranità, sarebbe mestieri di vedere ciò che è e
qual conto si può fare sopra di lui per rigenerare la società.
Che cosa è il popolo?
È una classe? classe distinta dalle altre due per la costituzione sociale, eternamente composta delle
stesse famiglie, chiuse da secoli entro dei confini che non possono oltrepassare, condannate a
rimanervi eternamente, e che sarebbe d'uopo alfine far uscire da questo ilotismo, affine di
permettergli di governare la nazione meglio che non fecero le altre classi?
Questo dicono al popolo i suoi adulatori e i suoi seduttori. Essi gli parlano come se i poveri d'oggi
fossero sempre stati poveri di padre in figlio, e i ricchi d'oggi sempre in possesso dei beni che
possedono attualmente. Essi non gli parlano della società, se non come d'una sovrapposizione delle
due caste, l'una in cui ha la sventura di trovarsi in una maniera immeritata, e l'altra in cui altri
uomini, né più né meno uomini che i plebei, godono di tutti i beni, senza alcun merito maggiore da
parte loro. Partono di là per dire al popolo di reclamare la sua emancipazione, e, a sua volta,
l'esercizio della sovranità.
Nulla è più contrario alla realtà delle cose.
No. Il popolo non forma nelle nostre società cristiane una classe, una casta inferiore come quella dei
parias nell'impero delle Indie, o quella degli schiavi nell'antichità.
Si chiama popolo, presso di noi, il complesso di famiglie le quali vivono giorno per giorno del
lavoro delle loro mani. Non è una classe, ma un agglomeramento, un agglomeramento di persone
che non hanno di comune che l'eguale indigenza.
Se si considerano queste famiglie ad una ad una, si vedrà che non sono per nulla chiuse nello stato
d'inferiorità in cui si trovano rispettivamente alle altre. Le une sono oggi del popolo, le quali, ieri,
appartenevano alla borghesia ed anche alla nobiltà. Altre già emergono, e ben presto si vedranno
salire ai posti superiori.
E non è così solamente dopo la Rivoluzione, ciò è stato sempre nella nostra Francia. Io dirò di più:
se, dopo "le conquiste dell'89", gl'individui ascendono più facilmente e più presto, si veggono altresì
discendere più rapidamente; mentre che una volta eravi un'ascensione continua di famiglie che si
traevano dietro i loro membri e li fissavano nelle regioni superiori.
Vero è che si trovano nel popolo delle famiglie che vegetano da secoli. Ma se esse rimangono
nell'infimo grado, non è che una legge, una costituzione qualunque le impediscano di salire: esse
godono la stessa libertà delle altre, e se non ne fanno uso, esse medesime ne sono la causa.
Essendo il popolo quello che abbiam detto, come deve intendersi il motto della democrazia cristiana
o non cristiana.,
Tutto per il popolo, tutto per mezzo del popolo!(1)
Tutto per il popolo! Si potrebbe dire: è la parola d'ordine data da Nostro Signore Gesù Cristo a' suoi
discepoli. Dopo aver lavato i piedi a' suoi apostoli, disse loro: "Avete compreso ciò che io ho fatto?
Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, poiché lo sono veramente; se dunque vi ho lavato i
piedi, io Signore e Maestro, voi pure dovete lavare i piedi gli uni agli altri, poiché io vi diedi
l'esempio, affinché, come ho fatto io per voi, lo facciate voi medesimi".
Ecco la gran legge sociale del cristianesimo, sì ben commentata da Bossuet: "Nessuno è signore, è
ricco, è potente se non per mettere la sua autorità, la sua ricchezza, il suo potere al servizio dei
piccoli", da prima per lavarli, cioè per purificarli dalla loro ignoranza e depravazione, poi per
elevarli fino a sé, fino a Dio. Per questa prima parte della sua divisa: "Tutto pel popolo" la
democrazia è nel bene, nel vero, giusta il senso cristiano, giusta la tradizione. Tutt'al più si potrebbe
osservare che nel rigore della sua espressione è troppo assoluta. Non havvi soltanto il popolo nella
società, vi sono, e necessariamente, altre classi, altri membri, e, come dice San Paolo, tutti i membri
del corpo sociale, come tutti i membri del corpo naturale "devono egualmente aver cura gli uni degli
altri".(2) Leone XIII si servì d'una espressione più giusta, quando per testimonianza di L. Teste,(3)
egli disse: "molto pel popolo e poco per mezzo del popolo". Molto, ma non tutto.
Il Toniolo è stato ancora più misurato, e si è meglio contenuto nei limiti del vero e del giusto
quando augurava "una società in cui tutte le forme sociali, politiche, giuridiche ed economiche
cooperino proporzionatamente al BENE COMUNE per riuscire, come ultimo risultato, al
VANTAGGIO predominante delle classi inferiori "al vantaggio di coloro che la società deve
costantemente educare fisicamente, intellettualmente e moralmente, ma nel bene comune di tutto il
corpo sociale.
Tutto per mezzo del popolo! Questa è la seconda parte della divisa democratica, quella che la
democrazia vuol anzitutto realizzare, perché vi scorge il mezzo per giungere all'altra, che è il fine.
"Noi abbiamo definito la democrazia il governo del popolo", dice la Démocratie chrétienne.(4)
"È necessario (così sottolineato) che il popolo si organizzi e divenga una forza per reagire contro le
Ingiustizie dell'ordine sociale".(5)
"La democrazia - governo per mezzo del popolo e per il popolo, - aprendo tutti gli aditi al potere,
non fa che mettere in pratica il principio sociale dell'eguaglianza cristiana".(6)
Si tratta, lo si vede, d'istituire una democrazia nel senso vero della parola: "il governo della nazione
per mezzo del popolo".
Ora, non è superfluo ricordare ciò che i Sommi Pontefici dissero e dichiararono parlando della
sovranità del popolo.
Pio IX riassumendo nel Sillabo le condanne pronunciate da quei suoi predecessori che aveano visto
nascere la Rivoluzione e propagarsi le sue dottrine, anatemizzò questa proposizione: "L'autorità non
è altro che la somma del numero e delle forze materiali" (Sill., IX).
Alle parole già citate di Leone XIII si possono aggiungere anche queste. Nell'Enciclica Diuturnum
illud, egli disse: "Camminano sulle orme degli empi, che nel secolo passato si dettero il nome di
filosofi, tutti coloro i quali oggi dicono che ogni potere viene dal popolo, e che per conseguenza,
coloro che esercitano questo potere nello Stato, non l'esercitano come proprio, ma come dato a loro
dal popolo, ed altresì colla condizione che dalla volontà dello stesso popolo, da cui il potere fu lor
conferito, possa essere revocato".
Ritornando su questa questione nell'Enciclica Humanum genus, Leone XIII riprova l'errore dei
framassoni, i quali dicono che: "Ogni potere risiede nel popolo libero, e quelli che esercitano il
comando, non lo posseggono se non per mandato o per la concessione del popolo, di guisa che, se
cambia la volontà popolare, i capi dello Stato possono essere spogliati, anche loro malgrado,
dell'autorità sovrana".
Uno dei grandi pontefici della democrazia cristiana, in un discorso sull'avvenire del cattolicismo
negli Stati Uniti, pronunciato a Baltimora in una circostanza assai solenne, ha parlato molto
differentemente:
Noi siamo attualmente nell'epoca della democrazia. I monarchi non occupano più il trono se non
per compiere la volontà del popolo. Guai alla religione se questo fatto non è compreso.(7) Basta
confrontare queste parole con quelle delle Encicliche che abbiamo riportato per iscorgere
chiaramente la loro discordanza per non dire la loro opposizione. Leone XIII attribuisce ai
framassoni e riprova questa opinione, che cioè "coloro che esercitano il potere non lo posseggono se
non per mandato e per concessione del popolo"; "che essi esercitano il potere nello Stato non come
loro proprio, ma come a lor dato dal popolo". E l'oratore che abbiamo citato dice: "Guai alla
religione che non comprende che i monarchi non occupano più il loro trono se non per compiere i
voleri del popolo".
Questo stesso linguaggio era stato già tenuto in questo secolo; questa stessa minaccia, con una
cert'aria di profezia, era già stata fatta.
Lamennais pure voleva che la Chiesa si facesse democratica. Il libro ch'egli pubblicò al suo ritorno
da Roma è assai bene compendiato in queste linee del R. P. Longhaye: "Io ho mostrato alla Chiesa
la sua nuova missione, che è di seguire, pur avendo l'aria di condurlo, il movimento irresistibile
della democrazia. Essa vi si è rifiutata: essa è perduta, ed io le manifesto la sua caduta da parte del
genere umano di cui sono l'organo infallibile".(8)
Non è punto la Chiesa che correva alla sua rovina; e questa parola Guai! non è a suo riguardo che
dovesse essere pronunciata.
Emilio Ollivier, che avea incominciata la sua carriera politica proclamandosi democratico, vide
assai bene più tardi quello che si può aspettare da un governo del popolo.
"La democrazia pura, sopprimendo a suo profitto gli altri elementi sociali, facendo derivare tutte le
forze e tutti i poteri da una elezione fautrice dell'eguaglianza sociale, costituisce, per confessione
dei teologi, dei filosofi, dei pubblicisti antichi o moderni, il peggiore dei governi, omnium
deterrimum, secondo la energica espressione del Bellarmino, che riassume l'opinione unanime
dell'umanità pensante. Ne' suoi eletti, nei suoi capi, ne' suoi favoriti, essa si appaga della mediocrità,
garanzia della sommissione; nutre contro gli uomini di vaglia l'avversione di Luigi XIV per i grandi
signori; se ne lascia passar uno per inavvertenza, l'obbliga ad avvilirsi o lo rigetta. Essa non
rappresenta l'apogeo della civiltà, ma ne segna la decadenza; non reca vantaggio nemmeno alla
plebe che l'edifica, poiché senza sopprimere né lenire le sue miserie, le aumenta coi tormenti
dell'invidia, dell'odio, della vanità, dell'impotenza. Il meglio che possa arrivare ad una democrazia
pura, a meno che non sia stabilita in un paese di albergatori senza missione storica, si è d'essere
domata da un Augusto, da un Medici, da un Napoleone, senza che soccomba tosto o tardi sotto un
Filippo di Macedonia.
"Io non ignorava che la democrazia non ama che la libertà del disordine, e che dappertutto essa
negò, perseguitò, soppresse la libertà reale, quella che non si gode se non a prezzo d'una seria
responsabilità; ch'essa ha soffocato i diritti inviolabili dell'individuo sotto l'oppressione della
maggioranza, col pretesto che, se una protezione è necessaria contro dei re, è inutile contro gli eletti
del popolo. Ma io mi cullava nella illusione che non fosse impossibile di guarire una democrazia di
questa malattia, e di farla vivere in buona intelligenza con la libertà. Democrazia e libertà, diceva io
ingenuamente; io, non aveva ancora imparato che la forma inevitabile della democrazia è il
collettivismo, da prima moderato e contenuto, poi sfrenato ed assoluto".(9)
Che tutti gl'interessi sociali sieno rappresentati in tutti i consigli della nazione, per difendersi ed
equilibrarsi a vicenda, niente di meglio. Ciò è esistito, almeno in modo equivalente, nella nostra
Francia, e la Rivoluzione lo ha distrutto. Il costume, sanzionato dalle costituzioni cinque o sei volte
secolari, voleva che in questo regno i piccoli come i grandi avessero i loro diritti garantiti, i diritti
delle loro corporazioni e, nelle corporazioni, i diritti dei compagni come quelli dei padroni, e quelli
dei padroni come quelli degli operai.
Non si è contenti di voler il ristabilimento di questa giustizia; si vuole il governo del popolo.(10)
Già nel suffragio universale, egli ha l'accesso a tutte le cariche, anche le più alte. Che si vuole di
più?
Ch'egli le occupi effettivamente. Qual bene può aspettarsene?
L'aristocrazia ha governato per lunghi secoli la società francese, non senza gloria e non senza
procurare il progresso materiale come il progresso intellettuale e morale.
La borghesia, invece di continuare a far salire, una ad una, mediante il merito, le sue famiglie nelle
classi superiori, ha fatto una rivoluzione per allontanare d'un colpo, od anche distruggere
l'aristocrazia e mettersi al suo posto. Essa governa da un secolo e sotto il suo regime la Francia è
decaduta. La regina dell'Europa e del mondo è piombata nel posto di potenza di second'ordine; ed il
suo stato è sì precario ch'essa può chiedersi ogni mattina se i barbari non siano già pronti a dare
l'assalto agli avanzi della sua civiltà.
Ed è dopo questa esperienza che si eccita il popolo ad impadronirsi a sua volta del potere; e si
vorrebbe persuadere il clero ad organizzarlo a questo fine, a mettersi alla testa per aiutarlo!!!
"Ormai è tempo, dice la Démocratie chrétienne, di formare l'armata democratica cristiana". Anche
nelle città le più avvelenate dal virus collettivista si troverà un numero considerevole di operai
pronti a marciare col prete, se il prete va al popolo e lo aiuta risolutamente a far trionfare i suoi
diritti" (N. I, pagg. 17, 19).
Si vuole dunque una nuova rivoluzione, ed una rivoluzione organizzata e condotta dal clero. Non si
tratta già di lavorare per rendere i figli del popolo più degni che sia possibile, di coprire le cariche
sociali alle quali il suffragio universale li può innalzare, ma si tratta di far acquistare alla classe
popolare, come classe, il godimento dei cosidetti suoi "DIRITTI" al governo, affinché possa
lavorare da se stessa, e meglio che altri non l'abbia fatto, al miglioramento della sua sorte.

Così legittimata, questa rivoluzione è dichiarata desiderabile, e, per convincerci, non si rifinisce di
parlare delle qualità native del popolo e dei vizi dei grandi; essa è giudicata così conforme al
Vangelo e così santa, che si fa al clero un dovere di prenderne l'iniziativa!(11)
Ah! senza dubbio, non si vuole questa rivoluzione così radicale, e perciò così distruggitrice come la
vogliono i democratici che non sono cristiani.(12)
Si assicura che la libertà, l'eguaglianza, la sovranità del popolo che si rivendicano, non producono
gli eccessi accettati e voluti dai democratici socialisti. È possibile, ma i democratici cristiani non
hanno mai potuto accordarsi per segnare i confini dove vorrebbero arrestarsi, e sopratutto,
appoggiarsi sopra un principio qualunque per determinare questi confini. Perciò si sono visti in
Francia, come in Germania, in Italia come nel Belgio, democratici cristiani precipitare di caduta in
caduta nella democrazia pura, e sentendo che le loro teorie cozzavano colle dottrine della Chiesa,
uscire dalla Chiesa. Quelli che si arrestano nel cammino non si mantengono nel limite da loro scelto
che a forza d'inconseguenze. Cristiani, non vogliono abbandonare verità che sanno essere
fondamentali; democratici, non possono non essere affascinati dalle seduzioni democratiche. Essi
conservarono le une e le altre, ed è ciò che li rende più pericolosi dei democratici socialisti.
L'aspetto della verità che essi conservano attrae e rapisce quelli che se ne sarebbero allontanati se
l'errore ch'essa ricopre loro fosse svelato. Ciò faceva dire a Le Play: "L'errore delle persone dabbene
è più pericoloso di quello dei malvagi; è desso che perde la Francia da sessant'anni; bisogna
guardarsi dal non incoraggiarlo, per quanto sia grande la stima che si ha delle persone.(13)
D'altra parte non si deve credere che le mezze libertà, una mezza eguaglianza, una mezza sovranità,
soddisfino più il popolo a cui la democrazia cristiana avrà fatto le sue più fallaci promesse.
Che possono rispondere i democratici incoerenti quando i veri democratici così li apostrofano?
"Chi siete voi dunque da rivolgermi la parola che il Creatore imponeva ai flutti del mare: Tu non
andrai più lungi? Voi avete chiamato il genere umano alla partecipazione di certi diritti politici, e
poi pomposamente avete detto: Contentati di questo, e credi sull'autorità della nostra parola, che tu
eserciti una vera sovranità. Quanto a me, io chiamo l'umanità intera alla comunanza dei beni, ai
piaceri reali ed alla soddisfazione piena ed intera di tutte le sue necessità, di tutti i suoi desiderii, di
tutti i suoi capricci.
"La libertà che voi avete proclamata non impedisce al povero di essere sotto la dipendenza del
ricco, al servo di subire la legge del suo padrone. Quanto a me io proclamo una libertà che non
lascierà più esistere fra gli uomini veruna sorta di schiavitù.
"Tenetevi la vostra eguaglianza: è la menzogna che s'aggiunge all'ineguaglianza la più ributtante,
perché lascia sussistere la convivenza del potente accanto all'infelice ridotto all'indigenza, i più
splendidi abbigliamenti accanto ai cenci i più meschini. Quanto a me, io non riconosco questa
ineguaglianza mostruosa, voglio che tutti sieno vestiti, nutriti alla stessa foggia, che vi sia una parte
eguale per tutti.
"Ecco come io intendo l'eguaglianza, la libertà, la giusta ripartizione dei diritti fra tutti; ecco quello
che esigono i veri interessi del genere umano, tutto il resto non è che illusione e menzogna".(14)
Illusione e menzogna! ripetono le persone del popolo quando odono i democratici cristiani che loro
promettono, come i democratici socialisti, la libertà e l'eguaglianza; poiché, sentono che vi è una
libertà ed una eguaglianza che i cristiani non possono promettere; e sono precisamente quelle che
più allettano, alla conquista delle quali sono più adatti i veri democratici.

Note:

(1) Vedi fra le altre, La Démocratie chrétienne, 1° anno, pp. 17, 19, 71, 188, 399, 400; 2° anno, p.
346; 4° anno, p. 459; 5° anno p. 2 e seg.
(2) Cor. XII, 25.
(3) Lèon XIII et le Vatican.
(4) Settembre 1895, p. 346.
(5) Primo anno, num. 1, p. 17.
(6) Num. II, p. 71 e num. VI, p. 399. - L'eguaglianza non è né può essere un principio sociale,
perché non vi è né vi può essere società senza il contrario dell'eguaglianza, cioè la gerarchia. Vi è
un principio cristiano che fa la società, che la organizza; questo non è l'uguaglianza, è il merito. I
meriti non solamente degli individui, ma ancora e sopratutto delle famiglie distribuiscono i gradi e
creano la gerarchia, cioè l'organismo del corpo sociale, normalmente costituito.
(7) L'Eglise et le siècle, p. 100.
(8) In una lettera al duca di Laval Montmorency del 30 agosto 1824 il cardinale Bernetti avea già
scritto questa sentenza che si verificava nel 1831 più che nel 1824, e di cui anche oggi si può
constatare la triste verità: "L'autore dell'Essai sur l'Indifférence non sarà né il primo né l'ultimo a
voler dominarci dall'alto della sua obbedienza".
(9) L'Empire libéral, p. 30.
(10) Il signor Fustel di Coulanges, il ristauratore dello spirito nazionale, descrisse ancor meglio del
signor Ollivier, le conseguenze del governo popolare.
"Se si rappresenta tutto un popolo che si occupa di politica, e dal primo all'ultimo, dal più istruito al
più ignorante, dal più interessato a mantenere lo stato attuale di cose al più interessato al suo
rovesciamento, posseduto dalla mania di discutere gli affari pubblici e di metter la mano nel
governo; se si osservano gli effetti che questa malattia produce nell'esistenza di migliaia di esseri
umani; se si calcola il turbamento ch'essa apporta in ciascuna vita, le idee false che mette in una
moltitudine di spiriti, i sentimenti perversi e le passioni che fonde in una moltitudine di anime; se si
tien conto del tempo tolto al lavoro, delle discussioni, delle perdite d'energia, delle rovine di
amicizie o della creazione di amicizie fittizie e di odiose affezioni, delle delazioni, della distruzione
della lealtà, della sicurezza, della polizia medesima, dell'introduzione del cattivo gusto nel
linguaggio, nello stile, nell'arte, della divisione irrimediabile della società, della diffidenza,
dell'indisciplina, dello snervamento e della debolezza di un popolo, delle sconfitte che ne sono
l'inevitabile conseguenza, della sparizione del vero patriottismo e anche del vero coraggio, dei falli
che è necessario commetta ogni partito mano mano che arriva al potere sempre nelle stesse
condizioni, dei disastri onde conviene pagarne il fio: se si tien conto di tutto ciò, non si può far a
meno di dire che questa malattia è la più funesta e la più pericolosa epidemia che possa cogliere un
popolo, che non ve n'è altra che dia colpi più crudeli alla vita privata e alla vita pubblica, alla
esistenza materiale e morale, alla coscienza e alla intelligenza, e che in una parola, non vi fu mai
dispotismo al mondo che abbia potuto fare altrettanto male".

(11) Le idee o le illusioni della giovine e cristiana democrazia sono dovute in gran parte a quello
che io chiamerei l'americomania, che è succeduta all'anglomania. Si cerca un modello nella grande
repubblica e la si riguarda come il tipo della società dell'avvenire, senza pur pensare ai pericoli che
corre questa nascente e potente democrazia e alle differenze radicali che la distinguono dai nostri
saggi democratici europei.
Si affrettano un po' troppo coloro che tengono come definitiva l'organizzazione democratica degli
Stati Uniti. Quei medesimi che l'hanno studiata più dappresso e che sono i suoi più caldi partigiani,
Tocqueville, Summer-Maine, James Brice, Claudio Jannet, Laveleye, Bourget, non sono senza
inquietudine a questo proposito. La civiltà americana non ha ancor detto la sua ultima parola. Essa
ha voluto che corresse del tempo; non si potrà giudicarla definitivamente che dall'uso che ne farà, e
convien aspettare che il tempo abbia pronunciato su di essa il suo inesorabile verdetto.
In secondo luogo, esistono tra l'America e il nostro continente delle differenze profonde. Pretendere
d'importare in mezzo a noi le istituzioni americane sembra presso a poco cosa così savia come se si
volesse trasportare sul nostro suolo e sotto il nostro cielo le coltivazioni che dimandano un altro
clima. Dimenticando le condizioni di razza e di ambiente, ci si prepara a crudeli sbagli di calcolo.
(12) Il signor Guesde diceva al Congresso internazionale del socialismo ch'ebbe luogo nel settembre
1900: "Ci abbisogna per realizzare il nostro programma la totalità del potere centrale. Invero, fuori
di ciò non si avrebbero che riforme impotenti, e non la sostituzione del regime collettivista al
regime capitalista. Niente indica che per raggiungere questo scopo finale non fosse necessario
arrivare fino alla dittatura delle classi dinanzi alla quale i borghesi del 1793 non hanno
indietreggiato.
(13) Le Play, dalla sua Corrispondenza, p. 356.
(14) Balmes, Mélanges, t. III, pp. 92-94.