lunedì 13 aprile 2015

DEMOCRATICI E DEMOCRATICI (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)




Un dogma falso ed empio fu stabilito al principio di questo secolo: La sovranità del popolo.

Una istituzione formidabile accompagnò ben presto questo dogma: Il suffragio universale.

Che ne derivò da questo dogma e dall'esercizio dell'istituzione?

Uno spettacolo senza precedente nella storia degli errori del genere umano; grandi masse di popolo
che vengono officialmente a schierarsi in battaglia contro Dio.

Questo stato di cose appellasi la democrazia.(1)

Gli è, come abbiamo detto, che la democrazia è figlia dell'orgoglio, d'un orgoglio che da prima si
rifiuta di riconoscere lo stato di decadenza in cui ci troviamo per effetto della colpa originale; poi
d'un orgoglio più grande il quale, non potendo disconoscere l'esistenza del male di cui nega il
principio, ha l'audacia di affermare che la sorgente si trova in Dio. e che, da Lui e dalle sue leggi, i
flutti del male e della sventura si sono propagati nelle istituzioni umane. Per questo, l'orgoglio
democratico si sforza di ribellare l'uomo contro il Sovrano Signore e di sostituire alle istituzioni che
ressero le società dal principio del mondo, un regime di libertà, di eguaglianza, di divisione di beni
e di sovranità del popolo, la cui malvagità si fa già tanto sentire oggi che si è ancora alle prime
prove.
È questo regime che vorrebbe attuare ai nostri giorni, che istituisce, sotto i nostri occhi, la
democrazia dei Gambetta, dei Ferry, dei Combes e dei Jaurès; è là che vanno a parare tutti i
democratici conseguenti, fossero pur partiti dalle soglie del santuario, come i Lamennais ed i
Charbonnel; slanciatisi alla ricerca di questa libertà, di questa eguaglianza e di questa sovranità, che
reclama l'orgoglio democratico, essi s'incontrano nell'autorità di Dio, ed irritati di trovarlo sul loro
cammino, si sollevano contro di Lui.
Ad alcuni questo termine mette orrore, e s'arrestano lungo la via. I punti di sosta segnano le
differenti classi di democratici.
Esse sono numerose. È precisamente qui che si deve dire: Tot capita, tot sensus. Sicuramente, la
distanza è grande fra Combes e Jaurès, da una parte, ed Harmel e Marco Sangnier, dall'altra.
Tuttavia questi come quelli non si lasciano sfuggire occasione alcuna per dirsi democratici, apostoli
e servitori della democrazia.
Il grande inconveniente, abbiamo detto, ed anche il grande pericolo di queste parole sta in ciò che
sono mal definite o molto lontane dal loro primitivo significato, per poter convenire a persone le più
estranee le une alle altre, e per poter significare cose le più differenti, per non dire le più opposte.
Tuttavia bisogna credere che in tutti i democratici, dai più radicali ai più moderati, vi è un punto di
contatto; poiché, per quanto sieno differenti, quando si esaminano e vogliono definire se stessi,
cadono sulla stessa parola, né punto loro ripugna di far pompa dello stesso titolo, di schierarsi sotto
la medesima denominazione, se pur non è in un medesimo partito.
Dov'è questo punto? Dov'è il contatto fra i democratici socialisti ed i democratici cristiani per non
prendere che gli estremi?
È ciò che dobbiamo cercare.
Ma, innanzi tutto, è giusto riconoscere che vi sono democratici cristiani e democratici cristiani, e
dobbiamo dire che noi intendiamo occuparci qui degli uni e per nulla degli altri. I primi non
guardano che al nome, i secondi badano alla cosa.
Vi ha dei cattolici, uomini d'azione, ai quali piace far pompa del nome di democratico perché
credono che un tal nome darà loro più facile accesso al popolo, al cui vantaggio vogliono
consacrarsi. E Leone XIII, che li ha sì potentemente esortati a consacrarsi a pro delle classi
popolari, non volle scoraggiarli, proibendo loro di usare questo vocabolo da essi prediletto.
Tuttavia, pur lasciando loro questa facoltà, ha fatto capire che gli sarebbe stato più gradito che non
lo usassero. "Da principio - egli disse - questa specie di beneficenza popolare non distinguevasi
ordinariamente con alcun nome speciale. Il nome di socialismo cristiano da taluni introdotto, e di
altre espressioni derivate da quella, sono cadute in disuso. In appresso piacque a molti, ed a buon
diritto, di chiamarla azione cristiana popolare. In certi luoghi quelli che si occupano di queste
questioni si son chiamati cristiani sociali. Altrove, la cosa medesima è chiamata democrazia
cristiana, e quelli che vi si dedicano, democratici cristiani, mentre il sistema difeso dai socialisti è
designato sotto il nome di democrazia sociale.
"Ora delle due ultime espressioni qui sopra enunciate, se la prima: "cristiani sociali" non solleva
alcun reclamo, la seconda, "democrazia cristiana" ferisce molte persone ben pensanti che vi trovano
un senso equivoco e pericoloso. Essi diffidano di questa denominazione per molti motivi. Temono
che questa parola male dissimuli il governo popolare, o segni in suo favore una preferenza indicata
da altre forme di governo. Temono che la virtù della religione cristiana sembri come ristretta agli
interessi del popolo, mentre le altre classi della società sono in certo modo lasciate da un canto.
Temono che, sotto questo nome ingannatore, non si nasconda qualche disegno di screditare
qualsiasi potere legittimo, civile o sacro".

Sembra che dopo tali parole, sarebbe stato prudente e saggio abbandonare questo titolo "equivoco e
pericoloso" di democratico cristiano. E difatti, i veri uomini d'azione più non lo usano.
Non è punto lo stesso di coloro che vogliono formare nella Chiesa una scuola od un partito, e che
costituiscono la seconda classe dei democratici cristiani, quella cioè di coloro dei quali dobbiamo
occuparci.
Essa esiste: "Noi siamo una Nuova scuola sociale, diceva la Démocratie chrétienne nel suo numero
di marzo 1897, ed un partito sociale Nuovo. Fin d'allora ci era necessario un nome, un vessillo, e
noi abbiamo preso quello di democratici ... Ma noi non siamo democratici semplicemente, abbiamo
voluto e vogliamo chiamarci "democratici cristiani".
Un partito sociale che si distingue col nome di "democratico"; una scuola che si toglie per bandiera:
"la democrazia" non sono e non possono essere che una scuola la quale insegna che la sovranità
appartiene al popolo; che un partito il quale vuole adoperarsi per conferirgli effettivamente questa
sovranità. Si dimanda come la qualificazione "cristiano" possa attribuirsi a questa scuola e a questo
partito.
È la questione che Mons. Manacorda, vescovo di Fossano e decano dell'episcopato piemontese,
pose in una lettera pastorale pubblicata nel 1897: "Vi è una cosa che amerei sapere, ed è se,
pigliando il titolo di cristiani, questi democratici intendono portare la loro democrazia nella Chiesa
cattolica o nello Stato. Voler la democrazia nella Chiesa, la costituzione della quale è divina e la
forma gerarchica immutabile, sarebbe un tentativo sacrilego. Volerla nello Stato, ciò non può essere
un movimento cattolico sommesso all'autorità ecclesiastica ispirata dal Vangelo e dalla Chiesa, ma
una insurrezione della plebe, a cui un cittadino onesto non può prender parte. Secondo Aristotele, la
definizione del governo democratico è: Democratia est principatus populi - vel popularis status - et
est cum ad commodum egenorum respublica a pauperibus gubernatur. È egli possibile che sia la
classe infima della società umana, la plebe, come si esprime il nostro filosofo, che debba esser
chiamata a governar l'altra?" Il Prelato confuta questa utopia col buon senso e colla storia. Egli
dimostra che dappertutto e sempre, tutte le volte che la plebe ha trionfato menò seco la desolazione
e la miseria.
La lettera termina con questa dichiarazione: "Noi siamo cattolici. Non ci occorre niente di più. La
fede cattolica ci basta, noi non vogliamo saperne di fede democratica".(2)
Il partito e la scuola della democrazia cristiana, sebbene si dicano "nuovi" non sono da oggi: essi
vengono da Lamennais, non dal Lamennais dell'Essai sur l'Indifférence, ma da quello dell'orgoglio
ferito.
In una lettera indirizzata nell'ottobre 1848 all'Ami de la Religion, Montalembert, parlando dei
discepoli di questa scuola e degli aderenti a questo partito, esprimeva in questi termini la pena che
sentiva per la necessità di doverli avvertire e denunciare:
"Arrivo ora al punto più delicato, più difficile del soggetto che ho voluto con voi esaminare. Non lo
affronto che con esitazione e con dolore. Con dolore, perché non si tratta più di combattere degli
avversari, ma di criticare degli amici, dei fratelli. Ma dopo aver lungamente riflettuto, lungamente
esaminato la nostra situazione, sento che obbedisco alla voce d'un dovere, e questo dovere lo
compio non certamente collo spirito di lotta e di animosità, ma sibbene colla ferma risoluzione di
non oltrepassare i limiti di un avvertimento fraterno".

Queste parole esprimono a meraviglia il nostro sentimento e la nostra volontà, ma indicano nello
stesso tempo il nostro dovere.

Note:

(1) L'ab. Giuseppe Lémann, La Religion du Combat, p. 262.
(2) L'Italia Reale ha pubblicato per intiero questo documento episcopale commentandolo in una
serie di articoli.