martedì 1 maggio 2012

Nazionalismo, mito importato

 
Napoleone Bonaparte, l'"esportatore" del cancro Nazionalista.

di Angela Pellicciari

Furono gli anglo-francesi a far rinnegare all’Italia la sua tradizione cattolica.

[Da "La Padania", 25 luglio 2001]

Il mito del nazionalismo in Italia non è frutto della farina del nostro sacco. Abituati ad essere il centro del mondo civile e religioso, gli italiani fino a quando Napoleone non ha esportato sulle baionette la parola d’ordine dell’unità nazionale non si erano accorti di aver bisogno, per essere grandi, di inventare un risorgimento nazionale.

Nazionalismo in Italia? Fino al secolo scorso, difficile che attecchisse. Abituati ad avere pochi rivali grazie all’Impero prima e all’universalità del potere spirituale poi, per quasi due millenni al centro dello sviluppo culturale, economico e religioso, terra di santi che hanno cambiato la storia, gli italiani hanno sempre pensato alla grande, in visione mondiale. La stessa consapevolezza di una forte identità nazionale è stata da noi sempre radicatissima e, anche in questo caso, sviluppata molto prima che prendesse radici altrove: Dante e la grande letteratura italiana del Trecento insegnano. La mancanza dell’unità politica non ha mai inficiato la profonda identità collettiva fatta di lingua, di cultura, di storia, e, soprattutto, di religione.

Tutto cambia all’improvviso. Nel secolo scorso passiamo dall’impianto universalistico a quello nazionale, che, nel nostro caso, è sinonimo di provinciale. L’Italia precipita quando la Francia, con Napoleone, riconquista l’impero. Papa Leone III inaugura il Sacro Romano Impero la notte di Natale dell’800 incoronando imperatore romano il re dei franchi Carlo, detto Magno. Nel 962 il primo imperatore della dinastia sassone, Ottone, stabilisce che solo principi tedeschi possano ambire alla carica di imperatore e fino al 1800 l’impero resta saldamente in mano tedesca. Nel 1804 Napoleone mette fine al Sacro Impero Romano Germanico ed inaugura un impero di tipo nuovo, ugualmente universale (perlomeno nelle pretese), ma non più cristiano.

I francesi che invadono l’Italia, la spogliano e la rapinano, pretendono di esserne i liberatori. Da cosa? Dalla tradizione cattolica che, in netta continuità con quella romana, è, al contrario, la principale artefice della gloria italiana. Un fatto per tutti: nonostante le scientifiche spoliazioni, l’Italia romano-cattolica possiede, da sola, più della metà del patrimonio artistico mondiale.

Propaganda: Francia ed Inghilterra, le due potenze che nell’Ottocento si contendono il predominio mondiale, invitano gli italiani a risorgere dalla schiavitù in cui sarebbero precipitati da tanti secoli (quelli della tradizione cattolica) per attuare anche in Italia quel processo di omologazione culturale ed economica che loro conviene e che la cultura cattolica tenacemente contrasta da quando il protestantesimo ha diviso in due l’Europa.

Propaganda. Al di qua e al di là della Manica i potenti di turno parlano lo stesso linguaggio, addirittura utilizzando le medesime parole. Tanto per farsi un’idea di quanto simili siano gli intenti dei grandi di allora, basti confrontare il proclama di Napoleone al momento del suo ingresso a Milano col necrologio di Cavour pronunciato da Palmerston al parlamento inglese.

Nel 1796 Napoleone fa scrivere: "Noi siamo amici di tutti i popoli, ed in particolare dei discendenti dei Bruti e degli Scipioni. Ristabilire il Campidoglio, collocandovi onorevolmente le statue degli eroi che lo resero celebre e risvegliare il Popolo Romano assopito da molti secoli di schiavitù: tale sarà il frutto delle nostre vittorie, che formeranno epoca nella posterità. Vostra sarà la gloria immortale di aver cangiato l’aspetto della più bella parte d’Europa". Nel 1861 Palmerston afferma: "Abbiamo visto sotto la sua [di Cavour] guida e la sua autorità un popolo che sonnecchiava risvegliarsi all’improvviso vigoroso e forte. Questo popolo era in realtà addormentato, inerte, snervato dalla lussuria e dalla ricerca dei piaceri. Ora questo popolo, alla voce di un solo uomo, si risveglia da un sonno secolare, sente in se stesso la potenza e la forza del gigante, e in poco tempo ottiene quella libertà che per tanti secoli gli era stata rifiutata".

In questa propaganda ciascuno si inserisce come può, sempre però battendo sul tasto delle glorie nazionali che devono risorgere. Basti citare il caso di Gioacchino Murat, divenuto Re di Napoli in qualità di cognato di Napoleone. Quando le sorti dell’illustre parente sono irrimediabilmente compromesse, Murat, con poco senso della misura e nessuno del ridicolo, aspirando alla corona di re d’Italia, il 30 marzo 1815 bandisce da Rimini questo proclama: "Italiani! L’ora è venuta in cui debbono compirsi gli alti destini dell’Italia; la Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Sicilia odasi un grido solo: L’indipendenza d’Italia. A qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questo primo diritto? Sgombri dal suolo italiano ogni dominazione straniera. Padroni una volta del mondo espiaste questa gloria con venti secoli d’oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria il non aver più padroni". Propaganda. Come reagiscono gli italiani all’invasione francese fatta nel nome della gloria romana da riconquistare? Facendosi ammazzare a decine di migliaia nelle insorgenze che capillarmente e spontaneamente si diffondono su tutto il territorio nazionale. Alla propaganda napoleonica aderisce un’esigua minoranza della popolazione: i liberali che, col tempo, riprenderanno la bandiera rivoluzionaria del risorgimento nazionale.