martedì 4 marzo 2014

Quando Milano tentò la prima secessione d’Italia.

di ROMANO BRACALINI

I motivi di incompatibilità li aveva intravisti lucidamente Filippo Turati, capo dei socialisti lombardi, pochi decenni dopo l’unità. La crisi di fine secolo, le sconfitte militari in Africa, il discredito dello Stato italiano favorivano le tentazioni separatiste sia al Nord che al Sud.
La “questione morale” scuoteva il Paese. Si conveniva che non potesse durare una nazione divisa in due: una agiata e colta, con minima criminalità, con industrie fiorenti; l’altra povera, con alte proporzioni di analfabeti, con forte delinquenza, con una agricoltura feudale e  sofferente. Con la consueta franchezza, ai limiti della brutalità, Turati scriveva che se non si correva ai ripari il corpo malato del Sud avrebbe contagiato anche la parte sana. Si pensava, contrariamente a ciò che credevano certi paladini del Sud, che il Mezzogiorno pagasse meno imposte di quel che doveva e che vivesse quasi da pigro e misero accattone, abituato alle elemosine dello Stato, parassitariamente, alle spalle delle regioni settentrionali.
Al Nord c’era una coscienza civica che premeva e sollecitava il governo a fare le riforme, le ferrovie, le strade, le scuole, i canali. Il Sud invece aspettava che tutto piovesse dal cielo. Il progresso veniva reclamato da tutte le classi del Nord. Ai latifondisti del Sud, che tenevano i terreni in abbandono, conveniva invece l’immobilismo e l’apatia. C’era una diversa concezione dello Stato. Per i meridionali, che lo stavano occupando in ogni organismo pubblico, lo Stato doveva pensare a tutto: Stato padrone e datore di lavoro. Per i settentrionali lo Stato doveva intervenire il meno possibile, come in Svizzera, dove il cittadino era rispettato e libero, non oppresso dallo Stato come in Italia. Prevaleva al Nord una concezione liberale che si scontrava con l’assistenzialismo e il paternalismo statale.
Di conseguenza il Sud produceva di meno e consumava di più. Un solo esempio fra tutti. Mentre nel 1886 Milano pagava 25 milioni e mezzo di imposte dirette, Napoli, allora più popolosa di Milano, ne pagava 18. Viceversa nelle tasse di consumo Milano dava 37 milioni e Napoli 58. Secondo uno studio di Giustino Fortunato, meridionalista liberale, da cui queste cifre sono tratte, risultava che il Mezzogiorno continentale e la Sicilia pagavano 414 milioni di imposte erariali e 220 milioni di imposte comunali: ossia le imposte comunali di consumo erano più della metà di quelle erariali. Inoltre, c’era una sperequazione tariffaria fra Nord e Sud.
Le ferrovie dello Stato avevano anche la quarta classe, per dare modo a quelle più povere, gli operai e i contadini, di viaggiare in treno. Ma al contadino meridionale si concedeva di fare 94 chilometri con sole 3,20 lire, mentre il lavoratore del Nord, non più ricco, era costretto a pagare 5,30 lire per la stessa distanza. Criteri validi ancora oggi, con le autostrade del Sud pressoché gratuite e quelle del Nord a pagamento. Fu in questo clima di scontro e di rivalità tra i due capi della penisola, che Turati concepì lo “Stato di Milano” che voleva dire Lombardia governata dai lombardi.
“Stato di Milano” voleva dire amministrazione e finanza di casa, fatta da gente che conosceva il paese. Voleva dire giustizia amministrata dai lombardi e magistrati reclutati sul territorio, come in Svizzera, voleva dire leggi e regolamenti vicini alla sensibilità degli abitanti e al carattere del territorio. Si sperava di giungere così a una graduale autonomia nella forma vagheggiata da Carlo Cattaneo, il quale immaginava una federazione dell’Alta Italia che aveva il suo perno vitale nella Lombardia. Nella crisi dello Stato sabaudo, in cui avevano prevalso tutti i caratteri della corruzione e del malgoverno, si riscopriva il ruolo di Milano, capitale morale, in contrapposizione con l’immoralità e l’inadeguatezza di Roma.
Milano era l’avvenire, prefigurato dallo “Stato di Milano”. Roma era il passato remoto, un deposito di detriti e di stanchezza. Le due città esprimevano due stili antitetici e nello scontro dei caratteri c’erano le premesse del fallimento unitario. L’aveva capito il napoletano Eugenio Torelli Viollier che, il 5 marzo 1876, aveva fondato a Milano il Corriere della Sera per essere il più lontano possibile dai miasmi e dagli intrighi della politica romana. Non uno dei motivi della contesa è venuto meno in un secolo e mezzo. Anzi i contrasti economici ed etici sono aumentati. Sia il lettore a trarne la conclusione logica.