venerdì 16 marzo 2012

STATO TOSCANO ANNESSO: IL PLEBISCITO FARSA


Il 21 luglio 1858, si svolse a Plombières un convegno segreto nel corso del quale Napoleone III si impegnò ad un’alleanza militare in caso di aggressione austriaca allo Stato sabaudo. Si stabilì, in quella riunione, di aggregare i numerosi Stati italiani in tre regni soltanto: il regno dell’Alta Italia (la Padania) da assegnare al nuovo re sabaudo Vittorio Emanuele II; il regno dell’Italia centrale da conferire a Gerolamo Bonaparte detto Pon-Pon oppure ai Lorena; il regno dell’Italia meridionale, da lasciare ai Borbone, oppure da assegnare a Luciano Murat. In cambio, Vittorio Emanuele II avrebbe ceduto a Napoleone III la Savoia e, se del caso, la contea di Nizza. L’idea di una Grande Italia non fu nemmeno proposta a riprova del fatto che si trattava ancora di una illazione. I Savoia si accontentarono di buon grado di allungare le zampe su di una Piccola Italia (cioè di un più grande Piemonte). Ne scaturì una proposta ragionevole che, se realizzata, avrebbe salvato il futuro Stato italiano dalla sua contraddizione di fondo: essere uno senza riconoscersi trino.
L’anno successivo la guerra con l’Austria scoppiò davvero (i Savoia riuscirono a farsi “aggredire” mettendocela tutta). Nonostante le cocenti sconfitte di Vittorio Emanuele II la guerra fu presto vinta dal suo potente alleato francese.
Più o meno in contemporanea con la “seconda guerra d’indipendenza”, una serie fortunata di piccoli colpi di Stato, congiure di palazzo e manifestazioni di piazza, pilotata con sagacia dal governo di Torino ed eseguita da una élite di golpisti e, nel caso dei sudditi pontifici, di “secessionisti” in piena regola (secondo la terminologia attuale), cacciò i governi legittimi, anche se sicuramente reazionari, insediati nella Toscana e in quella che oggi è l’Emilia-Romagna (i “ducati” e le “legazioni”). L’élite nazionalista, salita al potere, reclamò l’annessione immediata nell’intento di avviare concretamente il processo d’unificazione nazional-naturale.
Per legittimarla, e per dotarsi di un alibi indispensabile (in assenza di precedenti, sia pure labili e ormai improponibili in quanto “scaduti”, come quello milanese), Torino decise di indire in questi territori un plebiscito aperto a tutti i cittadini maschi di età superiore ai ventuno anni. Il plebiscito si tenne nel marzo del 1860 con una strepitosa quanto farsesca vittoria degli annessionisti.
Nonostante avesse ceduto, proprio nel marzo, col Trattato di Torino, il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza alla Francia, il re di Sardegna indisse nell’aprile (sempre del 1860), un analogo plebiscito rivolto a quelle popolazioni: una farsa ancora più indecorosa in quanto non c’era ormai più nulla da decidere. Ad ogni modo, per la fortuna del re, savoiardi e nizzardi decisero (fu fatto in modo che decidessero) per la Francia.
L’annessione dello Stato toscano al regno sabaudo fu ottenuta con risultati stupefacenti: 366.471voti per l’annessione contro appena 19.869 per il mantenimento dell’indipendenza. Ma furono anche risultati “drogati”. Soltanto la comunità di Castiglion Fibocchi votò, sintomaticamente, a maggioranza per l’indipendenza della Toscana: e questa fu una imperdonabile trascuratezza dell’apparato che pilotava il plebiscito. Un libro di “rivelazioni” dovuto a un agente segreto del regno di Sardegna, tale J. A. (in realtà Filippo Curletti), stampato a Bruxelles (senza data) e poi ristampato, ancora senza data né indicazione del luogo di edizione, in Italia, intitolato La verità intorno agli uomini e alle cose del regno d’Italia, ci ragguaglia con dovizia di particolari su questo plebiscito.
In prossimità del referendum, il Curletti fu inviato, in Emilia e a Firenze, da Torino “con ottanta carabinieri travestiti” per prepararlo. “Noi ci eravamo fatti consegnare i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori, indi preparammo tutti i polizzini [cioè le schede per la votazione]”. Constatato come soltanto “un piccolo numero di elettori si presentò” ai seggi, Curletti racconta che “noi, nel momento della chiusura delle urne, vi gettammo i polizzini (naturalmente nel senso piemontese) di quelli che s’erano astenuti”. Va detto che le schede venivano consegnate aperte e infilate nell’urna dei SÍ e in quella dei NO dagli elettori, sotto gli occhi di tutti: racconta il Curletti che “avanti l’apertura del suffragio, carabinieri e agenti di polizia travestiti riempivano le sale dello scrutinio”. Il travestimento derivava dal fatto che si trattava di “piemontesi”. Parma, Modena e Toscana disponevano infatti, ancora, di propri gendarmi, i quali non furono impiegati nell’occasione. “In alcuni collegi, l’immissione nelle urne dei polizzini degli astenutisi (chiamiamo ciò completare il voto), si fece con tanta trascuratezza e sì poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede un maggior numero dei votanti, di quello che lo fossero gli elettori iscritti. In siffatti casi si rimediò al mal fatto con una rettificazione al processo verbale”.
Così stava nascendo l’Italia.

di SERGIO SALVI