lunedì 12 marzo 2012

La "seconda Roma" schiantata dai turchi. Costantinopoli 1453

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Jean Chartier, L'assedio di Costantinopoli, 1470 circa.

tratto da: Il Domenicale, 30.8.2003 (anno II), n. 35, p. 3.

Ma il male della discordia già allignava da tempo: Oriente e Occidente non si capivano più. E questo portò alla rovina. Resta, oggi come allora, la questione centrale dell'unità della Chiesa



È il 29 maggio 1453. Il giovane sultano ottomano Maometto II lancia le truppe scelte dei giannizzeri all'attacco finale di Bisanzio, sotto assedio da quasi due mesi. La resistenza è tenace, ma alla fine le possenti mura vengono scalate e le brecce aperte. Nella stremata città si riversa l'intero esercito turco (50mila uomini), cui il sultano concede tre interi giorni per il saccheggio. Finisce così, dopo oltre mille anni di storia gloriosa, l'Impero Romano d'Oriente. Un impero che, in realtà, era da secoli solo l'ombra di se stesso: casse dello Stato vuote, capacità militare quasi nulla, territorio ridotto alla sola città di Bisanzio: fastidiosa anomalia "romana" in mezzo a un territorio completamente sotto dominio turco-musulmano. Un'anomalia che non poteva durare e che, infatti, in quel giorno di maggio di cinquecento cinquanta anni fa fu spazzata via.

L'anniversario ha dato luogo a riflessioni sull'avanzata dell'islam, sul ruolo delle popolazioni turche rispetto alla cultura del continente europeo, sul rapporto/scontro tra le civiltà.

Certamente è questo l'elemento più microscopicamente evidente. Ma c'è un'altra riflessione da fare, più interna alla cultura occidentale e cristiana in particolare. Una riflessione che riguarda l'unità della Chiesa, la cui assenza fu non ultima causa del disastro del 1453.

Facciamo un passo indietro. Lo shock della quarta crociata: invece di dirigersi verso i luoghi santi per riscattarli dal dominio islamico, le truppe "cattoliche" conquistano Costantinopoli e v'insediano per sessant'anni un impero latino. Nessun segno poteva essere così emblematico della frattura della Cristianità. Una frattura che, se aveva trovato sanzione formale nello scisma del 1054, in realtà era iniziata proprio con la nascita di Costantinopoli. Per secoli la crepa che divideva i latini dai greci si era andata approfondendo, fino a giungere a una quasi totale incapacità di capirsi, di comunicare, di sostenersi.

Nel 1261, Michele Paleologo ricostruisce l'impero romano orientale e riconquista Bisanzio. Prendono dunque vigore correnti di pensiero favorevoli all'unificazione della Chiesa greca con quella latina. Alcuni fautori di questa opzione sono motivati da serie considerazioni di carattere religioso e in primo luogo dalla constatazione che la Chiesa latina aveva sviluppato l'antidoto alla nefasta ingerenza statale negli affari ecclesiastici, caratteristica invece del cesaropapismo bizantino: il primato del vescovo di Roma. Altri si mostrano invece più sensibili a motivazioni politiche: senza l'aiuto dell'Occidente, che solo il pontefice romano può catalizzare, sarà impossibile per Bisanzio frenare la marea ottomana. Proprio per questo, a distanza di pochi decenni l'uno dall'altro, gli ultimi tre imperatori bizantini intraprendono lunghi viaggi presso le corti europee allo scopo - sempre fallito - di raccogliere denari e sostegno nella guerra contro i turchi, offrendo immancabilmente in cambio la riunificazione della Chiesa greca con quella latina.

La riunificazione venne peraltro sancita solennemente il 3 luglio 1439 nel Concilio di Ferrara-Firenze. Ma era troppo tardi. Il popolo non accettò, infatti, una unione che appariva come rinuncia alla propria tradizione. Lo si si vide del resto chiaramente il 12 dicembre 1452 (solo cinque mesi prima della catastrofe), allorché nella cattedrale di Santa Sofia il legato romano celebrò una liturgia latina allo scopo di proclamare ‘coram populo' l'unione tra le due Chiese; ma un alto funzionario, dando voce allo scontento popolare, ebbe a dire: «Meglio il fez turco che la tiara papale». Nessuna espressione poteva esprimere meglio il baratro che si era creato tra le due tradizioni cristiane.

La memoria della caduta di Bisanzio torna a porre la medesima questione a secoli di distanza: l'unità della Chiesa. Qualcuno dice che si tratta ormai di un obiettivo troppo ambizioso, irraggiungibile; ci si accontenti quindi del "dialogo" ecumenico e di scambi di cortesie. Eppure la storia è proprio lì a insegnare che, senza unità reale e visibile, la Chiesa è meno se stessa e più facilmente esposta al cedimento. Le vicende della Chiesa ortodossa russa, sorprendentemente collegate con la caduta di Bisanzio, lo dimostrano.

Uno dei capi della delegazione bizantina che siglò l'unione con Roma era il metropolita di Kiev, il greco Isidoro. Appena tornato in patria, il principe russo Basilio lo depose, arrestandolo: riteneva inammissibile, per la nascente potenza russa (che aveva ricevuto il cristianesimo da Bisanzio seppure, allora, non ancora separata da Roma), ogni cedimento nei confronti dei "latini". Quando poi Bisanzio cadde, il giovane Stato russo pretese di assumerne l'eredità: Mosca, quindi, come terza Roma.

Ma nel passaggio da Bisanzio a Mosca è stato trasmesso anche il virus della divisione.

Nel 1922, qualche anno dopo l'avvento del potere sovietico che da subito aveva posto mano alla distruzione della Chiesa, Sergej Bulgakov - uno dei più brillanti intellettuali dell'epoca, convertitosi all'ortodossia e divenuto sacerdote - scrisse un commovente dialogo sulle sorti del cristianesimo in Russia, intitolato "Alle mura di Chersoneso" (La casa di Matriona, Seriate [Bergamo] 1998; tel.035/294021).

Il crollo del regime zarista, che trovava nell'ortodossia il principale fondamento ideologico, viene paragonato al crollo di Bisanzio. Il "tradizionalista" ortodosso interpreta così quell'avvenimento (e, in filigrana, le vicende a lui contemporanee, cioè la vittoria dei bolscevichi): «Quando sotto l'ultimo imperatore Santa Sofia vene profanata dalle celebrazioni dell'unione e dalla solenne commemorazione del papa (12 dicembre 1452), alla presenza del famigerato "cardinale" Isidoro, ex metropolita di Kiev e di quasi trecento prelati, la risposta del cielo a questa profanazione fu la caduta di Bisanzio e la trasformazione di Santa Sofia in moschea». È una riedizione della posizione: meglio il fez della tiara. Gli controbatte il "profugo", alter ego di Bulgakov: «Imperscrutabili sono le vie del Signore, e almeno altrettanto fondato è anche il punto di vista opposto, secondo cui Bisanzio cadde proprio perché non aveva accettato l'unione, il popolo fu consegnato in balia del dominio turco che aveva apertamente preferito all'autorità spirituale di Roma. Ora, dopo la seconda caduta di Bisanzio [la distruzione della Chiesa da parte del regime comunista], ci si pone il medesimo problema: condannarsi alla morte storico-culturale, come è già avvenuto (non si può negarlo) con Bisanzio, oppure percorrere la strada dell'unione?».

Dopo la tempesta sovietica, la Chiesa russa (di gran lunga la più importante tra quelle ortodosse) è rinata. Ma la drammatica opzione posta da Bulgakov resta. Come resta vitale che la Chiesa occidentale si accosti alla tradizione dei fratelli ortodossi con l'attenzione, il rispetto e la cordialità che mancarono ai nostri predecessori del tardo Medioevo e che fu non ultima causa della tragedia del 1453.

Pigi Colognesi