giovedì 17 dicembre 2015

LA BUGIA DEI MILLE...


Ma erano mille i garibaldini? Certamente. Ma ogni giorno sbarcavano sulla costa siciliana migliaia di soldati piemontesi congedati dall'esercito sabaudo. Una spedizione ben congegnata, raffinata, scientifica, appoggiata dalla flotta inglese ed assistita da valenti esperti internazionali.
I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi, erano in realtà solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in “congedo” o “disertori” riarruolati come “volontari” nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn.
Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy



Fonte: Briganti

martedì 15 dicembre 2015

Avvenire “canonizza” Lutero: cristiano appassionato della parola di Dio, vita profondamente evangelica

Avvenire “canonizza” Lutero: cristiano appassionato della parola di Dio, vita profondamente evangelica

di CdP Ricciotti. (Fonte: http://www.radiospada.org/ )

Il giorno 11 Dicembre 2015, Chiara Bertoglio – già il cognome è “cacofonico” – pubblica su Avvenire un elogio sperticato dell’eresiarca per eccellenza, Martin Lutero.
E pensare che c’è ancora qualcuno che crede che Avvenire scriva di Cattolicesimo, nel mentre, con i soldi dei Cattolici, “canonizza” finanche Lutero. Nonostante ciò, e questo è certo, con l’aiuto di Dio e della Chiesa, noi non moriremo Luterani.
A tal proposito è bene ricordare che la “Chiesa”, occupata dai modernisti del Vaticano II, aveva già prodotto, dopo ben sette documenti ridondanti di sofismi e due studi teologici altrettanto ampollosi, la terrificante Dichiarazione congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla Dottrina della Giustificazione.
Presentata alla Sala Stampa Vaticana il 25 Giugno 1998, dal suo firmatario card. Cassidy (Presidente del sedicente Consiglio Pontificio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani), la Dichiarazione, che vanta ben 44 “affermazioni comuni”, già si distingueva per essere particolarmente eretica.
Documento talmente “strambo”, che nella Risposta della Chiesa alla Dichiarazione, elaborata dallo stesso Cassidy, questi afferma: «La dottrina del n. 29 della Dichiarazione non è accettabile. In effetti, questa affermazione [dove si dice: l’uomo giustificato è simultaneamente giusto e peccatore] non è compatibile con il rinnovamento e la santificazione dell’uomo interiore di cui parla il Concilio di Trento (D. S. 1528, 1561) […] è equivoca ai numeri 28-30 […] ambigua quella del n. 22 […] Per tutte queste ragioni, è pertanto difficile vedere come si possa affermare che questa dottrina sul ‘simul iustus et peccator’, nello stato attuale della presentazione che se ne fa nella Dichiarazione comune, non cada sotto gli anatemi dei decreti di Trento sul peccato originale e la giustificazione».
Basti pensare che il commentatore di Sodalitium così descrisse la questione: «[…] la Risposta alla Dichiarazione Comune, elaborata in collaborazione da Cassidy e Ratzinger, è una bocciatura solenne. Cassidy (nella Risposta) condanna per eresia Cassidy (nella Dichiarazione Comune). La “Chiesa” (nella Risposta) condanna la “Chiesa” (nella Dichiarazione Comune). E l’unione resta così “virtuale”, ma per niente “reale”» (Cf. Sodalitium, n° 48, Dicembre 1998).
Quello che scrive Chiara Bertoglio nel suo articolo di Avvenire non è, quindi, nulla di suo, ma rientra nel famigerato “cammino ecumenico” voluto dal “concilio”. Leggiamone uno stralcio:
«Lutero […] un teologo di grande importanza […] Un pastore che ha promosso la musica come strumento di istruzione religiosa e catechetica […] come mezzo per creare identità ed appartenenza confessionale, e come dimostrazione ed applicazione del principio del sacerdozio universale dei fedeli. […] Un cristiano appassionato della parola di Dio, che ha visto la musica come sua ancella preziosa ed efficace, per imprimere il testo sacro nel cuore dei credenti, per fungere da vera esegesi e interpretazione teologica e spirituale, per promuovere una vita profondamente evangelica. Un leader religioso […] Il terreno propizio per la creazione della sua teologia della musica era stato preparato da due fattori concomitanti, ossia l’indubbio talento musicale e la formazione agostiniana: Agostino e Lutero stesso sono stati probabilmente i più grandi teologi della musica nella storia della Chiesa. […] Lutero […] nutriva inoltre profondo rispetto e sincero affetto per il patrimonio musicale della tradizione cattolica. […]Nella teologia luterana del sacerdozio universale dei fedeli, i padri e le madri cristiane erano considerati a pieno titolo i pastori della Chiesa domestica, e la prassi dell’Hausandacht, la preghiera familiare con ampio uso di canti corali, era diffusissima. Il colto dottore in teologia scelse consapevolmente termini molto semplici, comprensibili a tutti, e privilegiò parole brevissime […] E questo è forse il messaggio più attuale di Lutero e della sua musica, in un momento storico in cui, fortunatamente, si cerca di ricomporre l’unità della Chiesa e si considera la sua pluralità in termini di fraternità e non di opposizione: ripartire dalla bellezza e dalla preghiera, di cui la musica è una splendida incarnazione, può servire a creare una comunità di fede a dispetto delle divisioni storiche».
La Bertoglio incarna esattamente lo “spirito del ‘concilio’”; dalle sue parole erutta, sebbene con eleganza di stile, la “nuova pentecoste conciliare” con tutta la sua violenza anticattolica. Scrivo questo, perché si fa presto a puntare il dito populisticamente contro la Bertoglio, tuttavia non è la Bertoglio che afferma questo, ma è il “concilio” stesso che lo fa in forma embrionale, successivamente sono i modernisti, che occupano la Chiesa (“nelle viscere”, cf. San Pio X Pascendi), che completano il “quadro”. Quale vaticanosecondista non resterebbe, difatti, estasiato dalla sperticata lode della Bertoglio all’eresiarca Lutero?
Il 1 Agosto Lutero pubblicava il suo Manifesto: «Alla Nobiltà cristiana di Germania per la Riforma dello Stato cristiano». Affermava che «tutti i cristiani sono uguali (sacerdozio universale, ndR); che tutti hanno ugualmente il diritto di ricorrere alla Bibbia, la quale non è affatto riservata all’interpretazione della Chiesa (biblicismo integrale,  ndR); che l’imperatore e i principi hanno più diritto del papa a convocare il Concilio generale (cesaropapismo, ndR)». In poche parole, Lutero era “prossimo” al vaticanosecondismo. Nell’Ottobre pubblicava: Il Preludio sulla Cattività babilonese della difesa, dove condannava «la dottrina dei sacramenti». Per concludere, nel Novembre successivo, pubblicava il suo opuscolo sulla Libertà del cristiano, che è una delle migliori esposizioni della sua dottrina, così riassunta: «1. Per il peccato originale, l’uomo è completamente decaduto, e tutto ciò che fa è peccato mortale. La salvezza mediante le opere è impossibile. 2. Dio senza dubbio ci impone la sua Legge nell’Antico Testamento, ma essa è impraticabile. Non ha altro scopo che quello di scoraggiarci, farci disperare, spingerci nelle braccia della misericordia. 3. Quando la legge ci ha portati alla disperazione, la fede fa d’improvviso risplendere ai nostri occhi la certezza della salvezza per i meriti di Gesù Cristo morto per noi sulla croce. 4. Da tutta l’eternità Dio ha predestinalo gli uni all’inferno (quelli ai quali nega la fede), e gli altri al paradiso (quelli ai quali la concede). 5. Il sacramento del Battesimo e quello dell’Eucarestia non hanno altra efficacia se non quella della fede che essi eccitano nei nostri cuori» (clicca qui e qui).
La Bolla Exurge Domine di Papa Leone X, del 15 Giugno 1520, condannava 41 proposizioni tratte dalle opere di Lutero. Lutero, impenitente, bruciava pubblicamente la Bolla a Wittemberg, il 10 Dicembre, alla presenza degli studenti dell’Università. Il 3 gennaio 1521 veniva scomunicato.
Il 10 Luglio 1520 Lutero aveva già scritto: «Il dado è gettato? Disprezzo il furore e il favore di Roma: non voglio più riconciliazione né comunione con essa per l’eternità!».
Le scomuniche per eresia ed apostasia (uso delle Chiavi per legare), utili a salvaguardare il bene maggiore (pascere il gregge), non si possono ritirare se prima il reo non fa un pubblico atto di abiura dei propri errori, ovvero il pubblico rigetto di una precedente pubblica appartenenza ad una ideologia o, più frequentemente, ad una religione. Perché? Perché la Chiesa, che ha dottrina immacolata, che vigila sulla salvezza delle anime, non sbaglia la ragione quando scomunica qualcuno per questioni di eresia ed apostasia (pubbliche / scandalose); la Chiesa non cambia la Sua dottrina per il sol fine di poter, poi, ritirare la scomunica all’eretico impenitente.
LA CHIESA NON CONFERMA L’ERRORE. Anche questo ci dimostra che i recenti “papi”, che hanno ritirato scriteriatamente scomuniche e “canonizzato/scomunicato” arditamente altri, non posseggono alcuna “potestà di giurisdizione”, dunque i loro atti sono semplicemente nulli. Se fossero autorevoli, ma se i loro atti non avessero valore per la gente, il fedele a chi dovrebbe rivolgersi per sapere se un soggetto è veramente scomunicato o veramente santo? Verrebbe meno l’autorità della Chiesa, l’autorevolezza del vero Pontefice. Si spingerebbe il fedele, così, a dubitare della Chiesa e del Papa ed a confidare solo in se stesso nel “romantico” proposito di seguire la Tradizione, ma secondo il proprio punto di vista o per sentito dire dal prete che, casomai, sembra “bello” e “bravo”.
Un Pontefice “in atto”, nelle circostanze in cui si esprime come previsto dalle Costituzioni divine, NON può scegliere se usare le chiavi o meno, ma può solo dimostrare se è Papa, autenticando le promesse di Cristo, o se Papa non è, disattendendole o piuttosto trascurandole. Se Dio dà il più, dà il meno, come insegna la Chiesa. Dio: se dà l’assistenza POSITIVA per il BUON USO delle chiavi, a fortiori dà l’assistenza NEGATIVA per l’impedimento del CATTIVO USO delle stesse, e ciò assolutamente non inficia l’uso del libero arbitrio umano.
Il 13 giugno 1525 Lutero, rompendo i voti monastici, sposava una ex religiosa, Caterina de Bora, dalla quale avrà in seguito cinque figli. Lutero moriva probabilmente suicida nel 1546 nella natia Eisleben (si legga a tal proposito lo scritto del Sac. Dott. Villa – Martin Lutero omicida e suicida).
Martin Lutero (clicca qui):
«Il motivo per cui bevo tanto più forte, parlo tanto licenziosamente, gozzoviglio tanto più frequentemente, è quello di pigliare in giro il diavolo che voleva canzonarmi».
«Chi non si oppone con tutto il suo cuore al papato non può raggiungere l’eterna felicità».
«Questi idioti di asini (cattolici) non conoscono che la tentazione della carne. (…) In realtà, a queste tentazioni il rimedio è facile: vi sono ancora donne e giovinette (…)»
«Se la moglie trascura il suo dovere (sessualmente), l’autorità temporale ve la deve costringere, oppure metterla a morte».
«Io non ammetto che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno, neanche dagli Angeli. Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza».
San Pio X, Catechismo Maggiore: «[…] la grande eresia del Protestantesimo (sec. XVI), prodotta e divulgata principalmente da Lutero e da Calvino. Questi novatori, col respingere la Tradizione divina riducendo tutta la rivelazione alla S. Scrittura, e col sottrarre la S. Scrittura medesima al legittimo magistero della Chiesa, per darla insensatamente alla libera interpretazione dello spirito privato di ciascheduno, demolirono tutti i fondamenti della fede, esposero i Libri Santi alla profanazione della presunzione e dell’ignoranza, ed aprirono l’adito a tutti gli errori. […] Il protestantesimo o religione riformata, come orgogliosamente la chiamarono i suoi fondatori, è la somma di tutte le eresie, che furono prima di esso, che sono state dopo, e che potranno nascere ancora a fare strage delle anime».
Bergoglio: «Lei [una luterana] va davanti al Signore e chiede perdono; Suo marito fa lo stesso e va dal sacerdote e chiede l’assoluzione. Sono rimedi per mantenere vivo il Battesimo […] quando voi insegnate ai vostri figli chi è Gesù, perché è venuto Gesù, cosa ci ha fatto Gesù, fate lo stesso, sia in lingua luterana che in lingua cattolica, ma è lo stesso. […] mi diceva un pastore amico: “Noi crediamo che il Signore è presente lì. E’ presente. Voi credete che il Signore è presente. E qual è la differenza?” – “Eh, sono le spiegazioni, le interpretazioni…”. La vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni […] Oggi abbiamo pregato insieme. Pregare insieme, lavorare insieme per i poveri, per i bisognosi; amarci insieme, con vero amore di fratelli. “Ma, padre, siamo diversi, perché i nostri libri dogmatici dicono una cosa e i vostri dicono l’altra”. Ma un grande vostro [esponente] ha detto una volta che c’è l’ora della diversità riconciliata» (Vatican.va – 15 Novembre 2015).
di CdP Ricciotti

Tradizione cattolica e Stato moderno

di Christopher Dawson (Fonte: http://www.radiospada.org/ )

[N.d.T. Si tratta del primo scritto pubblicato da un giovane Dawson su The Catholic review del gennaio-marzo 1915, qui tradotto in esclusiva per RS. Christopher Dawson (1889-1970) è stato uno dei maggiori storici inglesi cattolici del XX secolo, i cui volumi, che abbracciano un quarantennio di ricerche sulla storia della cristianità, dei costumi e della società, sono stati più volte ristampati e tradotti, anche in italiano.]

traduzione a cura di Matteo Luini

I cambiamenti che sono intervenuti in Europa nell’ultimo secolo sono troppo importanti per essere ignorati, ma la loro stessa grandezza e vicinanza ci impediscono di capirli davvero. Sono stati ammirati ciecamente ed entusiasticamente come l’alba di un millennio umanitario o al contrario sono stati condannati dai conservatori per aver scosso autorità ed ordine. Ma entrambi i partiti, comunque, hanno mal interpretato le caratteristiche della nuova era. Non è la libertà ma il potere che è la vera nota della nostra civiltà moderna. L’uomo è avanzato infinitamente nel suo controllo sulla natura, ma ha perso il controllo sulla sua vita individuale. Questo può sembrare un paradosso a fronte di un’età che si pregia di essere democratica e liberale, ma ciò significa in verità la sostituzione di un nuovo ideale di obbligazione sociale  rispetto ai vecchi principi di autorità e diritto divino. L’esecutivo ha forse perso molto del potere arbitrario che deteneva sotto l’antico regime, ma non c’è nemmeno un alleggerimento della pressione esercitata dalla società sull’individuo.
La guerra attuale [la prima Guerra Mondiale, ndR] deve  rendere chiaro a tutti l’enorme aumento di potere nello stato moderno, potere non solo nell’ambito delle risorse materiali, ma anche nella completa subordinazione dell’individuo alla società.
Nel “vecchio regime”, sebbene le persone soffrissero  sotto i loro governanti, avevano un potere sulle loro vite sconosciuto al giorno d’oggi. Il contadino stanco di essere derubato poteva diventare un soldato di ventura, il soldato insoddisfatto della sua vita in una nazione poteva andare a servire un altro principe; perché le nazioni d’Europa erano allora solo province di una grande patria, la Cristianità. Al contrario, nello stato moderno ognuno ha il suo posto stabilito, e quando la società ne ha bisogno deve dare la sua vita al servizio di essa. Un dirigente statale tocca i comandi di una grande macchina, ed ecco che da tutti gli angoli di un grande impero milioni di uomini si muovono automaticamente, con una totale soppressione delle loro individualità, verso il compimento di un gigantesco obiettivo, un obiettivo che porterà morte e ferite a milioni, sofferenze e privazioni a tutti. Questo è lo spettacolo che vediamo oggi in Germania principalmente, e più imperfettamente in altre nazioni d’ Europa, e ci mostra, come nient’altro potrebbe, il reale significato dei cambiamenti in Europa; dato che ciò è il risultato sia morale che materiale degli ultimi 100 anni dell’organizzazione nazionale e del progresso europeo. Mentre le persone parlavano di progresso e democrazia, è andato aumentando un vasto potere laico mai visto dai tempi dell’Impero romano. Questo potere è lo Stato moderno. Ha un’influenza sulle anime umane che precedentemente solo la religione aveva, e le sue pretese sono infinite. E’ possibile pensare che questo potere sia un legittimo sviluppo della antica politia cristiana, oppure è, come alcuni sostengono, non cristiano e una conseguenza dell’apostasia del mondo moderno? I cattolici devono vederlo come un possibile amico ed alleato, oppure un persecutore ed un nemico?

Proviamo a rispondere a queste domande ripercorrendo l’origine del nuovo ordine delle cose, e cerchiamo di scoprire che cosa era la società cristiana del passato.
Quando la Chiesa Cattolica entrò in contatto con la società del mondo antico, si generò una grande lotta fra la religione e la società, che durò fra i 300 e i 400 anni. All’inizio la Chiesa dovette vivere una  vita chiusa e “raccolta”. La persecuzione non era forte abbastanza da schiacciarla, ma isolandola la salvò dal pericolo di vedersi assorbita dall’apparentemente onnipotente organismo dell’Impero romano. Alla fine la Chiesa fu vittoriosa  ed il Cristianesimo diventò la religione di stato. Seguì un periodo nel quale tutte le istituzioni sociali vennero ricreate secondo la nuova fede, e sulle rovine del vecchio mondo venne costruita una nuova civiltà cristiana. Questa era la civiltà del Medio Evo, che è stata valutata in modo molto vario. I suoi ammiratori hanno capito così bene che essa incarnava gli ideali cristiani da ritenerla la civiltà cristiana per definizione, alla quale tutte le altre devono approssimarsi. I suoi critici hanno attaccato indiscriminatamente i suoi ideali e i suoi fallimenti nel realizzarli. Alcuni cattolici come Newman l’attaccheranno in base a quest’ultima ragione, ma più spesso è stata criticata perché il critico aveva una concezione della cristianità diversa dalla concezione cattolica della vita che il medio evo cercava di incarnare, anche se in modo imperfetto e temporaneo. Per valutare il Medio evo correttamente occorre capire che la loro civiltà era immatura e gioiosa e che non raggiunse mai un completo sviluppo, in quanto il mondo moderno appartiene ad una diversa tradizione ed è andato avanti grazie ad una serie di rivolte contro la tradizione medievale. Il medio evo ci dà, pertanto, una vaga idea di come la società cristana avrebbe potuto essere, ma non visse abbastanza a lungo per realizzarla.
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IL NUOVO ORDINE
Il cambiamento sociale può nascere da due cause: 1) Religioso: da un cambiamento nell’ideale sociale e dalla concezione della vita.  2) Economico: da un cambiamento nelle condizioni di vita.  Un popolo primitivo potrebbe cambiare radicalmente diventando cristiano; potrebbe anche cambiare diventando una comunità agricola anziché di una tribù di cacciatori. Ora, le modificazioni su cui la società moderna si fonda sono di due tipi. Innanzitutto, ci furono i cambiamenti economici e politici del 15esimo e 16esimo secolo che andavano preparandosi da centinaia di anni. La nascita di forti monarchie nazionali fu il centro e il cuore di tutto. In secondo luogo, ci fu la scoperta del nuovo mondo. In terzo luogo, il recupero della cultura del mondo antico ed i progressi nelle scienze naturali.
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Il risultato è stato un’età di espansione e coscienza di sé. L’uomo si sentiva adulto, e si gloriava delle possibilità finora sconosciute dei suoi poteri e della sua conoscenza. Diventò impaziente, irriverente verso l’autorità, desiderando provare e vedere ogni cosa. Da qui la natura dell’ Umanesimo: l’uomo che entra nel suo regno e distoglie gli occhi dalla fede e dal soprannaturale. Da qui la distinzione dalla tradizione secolare medievale, ogni nazione non cedeva terreno ed affermava la sua indipendenza contro il resto della Cristianità.  Se la Chiesa fosse stata dedita alla conquista, come lo era mille anni prima, questa nuova espansione di conoscenza e potere avrebbe potuto essere portata al servizio dello spirito cristiano, ed al posto di una rottura con la tradizione medievale ci sarebbe stato uno sviluppo armonioso, anche se rapido, e la civiltà cristiana sarebbe diventata adulta. Ma, al contrario, era allora in una condizione indebolita dopo un’epoca di scismi ed invasa dallo spirito secolare. Era la vecchia storia: troppa pasta e troppo poco lievito. E allora la rivolta contro la vecchia tradizione diventò una rivolta contro la Chiesa. La civiltà medievale era il risultato dello sposalizio fra le culture dell’Impero del sud e dei barbari del nord; quando l’Europa occidentale nella sua espansione superò tale cultura, le nazioni del Nord non solo si liberarono della tradizione medievale ma anche del cristianesimo che era venuto con questa, e dato che non potevano reagire tornando al paganesimo si crearono una nuova cristianità, una religione di transizione, fondata sul giudizio privato ed un nuovo legalismo. La Chiesa non era più un organismo indipendente, ma divenne una sfaccettatura dello Stato, e la cristianità venne totalmente socializzata e moralizzata.
Nell’Europa latina, naturalmente, non era possibile avere una nuova edizione del Cristianesimo, e qui la reazione andò nella direzione del semplice Paganesimo e del Naturalismo. Nel XVI secolo i cristiani fecero uno sforzo sostenuto per riconquistare il terreno perduto e far continuare la società cristiana nell’Europa ormai alterata. In effetti la Chiesa venne riformata e la società fu ribattezzata considerevolmente. In due dei grandi stati nazionali, almeno, il nuovo ordine venne infuso di spirito cristiano, e forse il Medio evo stesso non può mostrare esempi maggiori di società cristiane come il Quebec ed il Paraguay del XVII secolo; ma il lavoro non si sviluppò mai oltre la vita sociale, la Controriforma non riuscì a conquistare il pensiero o l’arte. E’ vero, poté usare l’arte e la letteratura del tempo al servizio del Cattolicesimo come nella Roma del XVII secolo, ma non poté ispirarli con la sua essenza come aveva fatto in passato. Nel pensiero e nella scienza l’umanesimo progrediva, anche se la società era ancora cattolica, da qui l’aspetto cupo e repressivo del cattolicesimo di quell’epoca, così in contrasto con la natura della Chiesa medievale.  Il tremendo sforzo di dominare la società spiritualmente senza aiuto estetico o intellettuale non poteva che sfinire, e non è del tutto astratto far risalire il declino di Francia e Spagna almeno in parte a questo sforzo sovrumano.
Dopo la morte di Luigi XIV, la Controriforma alla fine collassò. La distruzione della Società di Gesù lo manifestò a tutti. E’ nel XVIII secolo che inizia il mondo moderno. Innanzitutto è l’età di Federico il Grande e di Giuseppe II. Il grande Stato diventa onnipotente. Non si porrà limiti alla sua autorità in materia di religione o in ogni altro campo. Non riconoscerà altro fine se non il suo stesso vantaggio. Di conseguenza spariscono le ultime vestigia del commonwealth cristiano dell’ Europa medievale. La suprema violazione della giustizia naturale e del diritto fra le nazioni si ha con la spartizione della Polonia. Inoltre, in tutte le nazioni cattoliche i diritti della Chiesa sono schiacciati. Come età di confische rivaleggia col XIX secolo o lo supera. Dovunque c’è una subordinazione della Chiesa allo Stato, una negazione dei diritti della Santa Sede. Gallicanesimo e febronianismo trionfano dovunque.
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Il XVIII secolo vede un nuovo scoppio di umanesimo di un tipo decisamente anti-cristiano. Il libero pensiero degli enciclopedisti diventa la forza intellettuale dominante in Europa. L’ideale prevalente è quello di far crollare tutto e ricostruire una nuova società basata sul principio della utilità ovvia. L’arma del ridicolo è usata contro la Fede con grande successo. Inoltre c’è un movimento di naturalismo sentimentale, il cui profeta è Rousseau, che dà al Naturalismo una presa sugli affetti, e fa crescere l’entusiasmo. Alla fine viene la Rivoluzione che è ispirata da tali idee. Spazza via tutte le briciole del vecchio ordine, le sue tradizioni buone e cattive, e costruisce una nuova società basata sulla democrazia e sulla libertà di pensiero. Nelle guerre della Rivoluzione la Francia diventò il crociato di questo nuovo ordine, e nel corso del XIX secolo lo stesso movimento, assieme allo spirito nazionale, ricompare trionfalmente paese dopo paese sul continente. Questo movimento sopravvive tuttora come Liberalismo continentale. Naturalmente è un errore pensare che questo movimento fosse principalmente popolare: la sua forza fondante derivava sempre dalla borghesia. La straordinaria resistenza che i “lazzaroni” di Napoli fecero contro l’esercito francese nel 1799 mostra quanta tenuta avesse ancora il vecchio ordine sulla popolazione. Anche nella Bretagna francese, la Vandea, ed altri grandi distretti del centro  ci fu resistenza alla rivoluzione, e dovunque ci fossero degli abitanti cattolici forti ed indipendenti la Rivoluzione si vide affrontata con le armi.
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Quando i governanti dell’antico regime capirono la pericolosità delle nuove idee, corsero alla difesa, interessata, della tradizione che essi si erano sforzati di distruggere al meglio nel diciottesimo secolo. Non furono Talleyrand e Metternich, ma i baschi ed i Tirolesi che diventarono i veri nemici dello spirito di novità. A causa del modo in cui la storia moderna viene scritta, pochi conoscono l’ostinata resistenza della tradizione medievale in varie parti di Europa e d’America, che ha avuto i suoi eroi (ad es. Garcìa Moreno, La Rochejacquelin, Andreas Hofer) non meno del movimento rivoluzionario. Persino alla soglia del XX secolo il testamento politico di don Carlos includeva la tradizione medievale senza compromessi, e questo ancora unisce molti spagnoli. E’ possibile che la lotta fra la Rivoluzione e la tradizione medievale parzialmente resuscitata non sarebbe stata del tutto impari se i contendenti fossero stati lasciati da soli. Ma la Rivoluzione aveva un alleato più potente, che andava crescendo nell’Europa protestante.
Lo sviluppo del nuovo ordine in Inghilterra è stato continuo dal sedicesimo secolo, e di conseguenza le rivoluzioni che erano inevitabili per il suo progredire non furono dei cataclismi come la grande rivoluzione in Francia. La nuova classe non feudale di possidenti terrieri, che ottenne grande potere con la Riforma, durante il diciassettesimo secolo si diede l’obiettivo di conquistare il potere. Entro il 1688 riuscì finalmente a distruggere la vecchia tradizione e le pretese di autorità da diritto divino nella Chiesa e nello Stato, e creò una repubblica oligarchica sotto forma monarchica. Da allora in poi le energie della classe dominante e le nuove classi che la seguirono non furono destinate al lavoro distruttivo del contemporaneo movimento “liberale” in Francia, ma in accordo col temperamento nazionale, al lavoro concreto di sviluppare le risorse nazionali in ricchezza e prosperità materiale.  La libertà che avevano ottenuto dalla Corona non era, come si insegna comunemente, quella dell’individuo contro il potere arbitrario, perché l’uomo comune era protetto meglio sotto l’antico regime; era al contrario la sicurezza dei poteri sociali di fatto presenti nella nazione dall’interferenza da parte di un’autorità de jure. L’interesse dominante non doveva essere ristretto nella suo libero sviluppo da nulla se non un interesse più forte, cosicché le forze sociali dominanti diventano dei fini in sé stesse e la società si libera dalle limitazioni di una politica a priori.
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Questo sistema aveva i suoi ovvi svantaggi: i poveri erano alla mercé delle classi governanti, ed infatti la rivoluzione fu la campana a morto per i piccoli proprietari inglesi; ma in un tempo di grande espansione e di nuove opportunità nell’industria e nel commercio, diede un enorme vantaggio materiale all’Inghilterra.  Il commercio inglese partì a conquistare il mondo, l’agricoltura acquisì una base capitalista; soprattutto si rivoluzionò l’industria ed iniziò l’Era del Ferro. Nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo nacquero il moderno capitalismo e l’industrialismo. Naturalmente l’oligarchia Whig non era capace di mantenere il controllo attraverso tutti questi cambiamenti, perché mentre che i nuovi interessi diventavano più forti,  volevano uno sviluppo libero.  Innanzitutto, le colonie americane si rifiutarono di essere governate nell’interesse della madrepatria, e con tradizioni simili a quelle degli inglesi iniziarono il loro gigantesco sviluppo.
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Più tardi, i capitalisti ed i magnati industriali reclamarono una parte nella politica inglese, e dopo una lotta durata buona parte del XIX secolo sconfissero definitivamente gli interessi agricoli. Ma così come i contadini erano stati sacrificati ai latifondisti, così fu per gli artigiani verso gli industriali, che reclamavano il diritto di esercitare a pieno la loro forza economica. Di conseguenza lo sviluppo industriale continuò con lo stesso irresponsabile spreco di materiale umano che aveva caratterizzato il capitalismo romano nell’Età del ferro della Repubblica, e le città di mulini ed i villaggi minerari inglesi divennero sinonimo in Europa di squallore e miseria.
In mezzo a questo materialismo nella vita sociale il protestantesimo inglese aveva fatto grandi sforzi per mantenere o far rivivere qualche forma di cristianità, ma dato che non potevano convertire la società ed ispirarla con il loro spirito, tutti i loro sforzi erano destinati al fallimento. Wesley stesso più tardi confessò che non poteva difendere i suoi convertiti dallo spirito del mondo. Il metodista che egli descrive, la cui regolarità e probità di vita erano aiuto all’arricchimento, era una vista comune in Inghilterra nei secoli diciottesimo e diciassettesimo. Di conseguenza il protestantesimo tendeva a rendere gli uomini membri coscienziosi della società esistente, dei buoni cittadini, ed il carattere soprannaturale della religione sparì gradualmente.
Il liberalismo inglese, che in sé doveva molto al protestantesimo, divenne nel diciannovesimo secolo la modalità di pensiero caratteristica dell’ Inghilterra industriale. Era caratterizzato da una fede integrale nel progresso indefinito della prosperità materiale attraverso l’industria ed il commercio, e nella completa assunzione di questo progresso come obbiettivo della società umana e ultimo fine dell’uomo. 
Nel diciannovesimo secolo ed in particolare dal 1870 tutte le correnti che abbiano descritto iniziarono a fondersi l’una con l’altra, ed a formare il grande fiume della civiltà moderna. All’Impero tedesco va il credito di aver riconciliato il Grande Stato con l’Industrialismo e Capitalismo che sono stati accompagnati in Inghilterra da un individualismo quasi anarchico, ma l’Impero tedesco conserva qualcosa del vecchio regime nella sua gerarchia reale ed aristocratica. Comunque, i risultati del sistema tedesco sono stati adottati da tutti i grandi stati moderni, inclusa l’Inghilterra e gli USA, perché lo sfrenato individualismo dell’epoca avrebbe portato alla distruzione della società medesima.
Allo stesso modo, il liberalismo democratico ed intellettuale in Francia, l’erede della Rivoluzione, è stato amalgamato sia sul continente che in Inghilterra e negli USA con il capitalismo e l’idea del grande Stato; e lo spirito dell’umanesimo e la fede nelle possibilità della scienza hanno dato al tutto una cultura e quasi una religione tutta sua.
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L’amalgamazione è comunque assolutamente incompleta. Rimane un’opposizione tra la plutocrazia capitalistica e la democrazia rivoluzionaria,  ed anche l’opposizione fra Nazionalismo e “Cosmopolitismo”. Il socialismo che si è prodotto in Germania nell’ultimo secolo fece uno sforzo per superare queste contraddizioni; si basava senza compromessi sullo spirito secolare e sull’idea di un grande stato come la fine onnicomprensiva dell’uomo: una società onnipotente, che abbracciava ogni cosa. Ma il Socialismo era indebolito dal carattere utopico dei suoi obiettivi e speranze; sottostimò la presa della plutocrazia sul quel sistema di governo rappresentativo che era stata la grande creazione delle rivoluzioni del diciannovesimo secolo; e nel suo sforzo di catturare la macchina legislativa, venne lui stesso attratto fra gli ingranaggi e reso inoffensivo.  Nonostante ciò ebbe un influsso molto forte sulle menti dell’epoca,  e sebbene il partito socialista possa essere un Sansone che macina il grano dei Filistei, la marcia degli eventi può ben portare a compimento la sua idea, o tramite la distruzione della plutocrazia e la nascita di una vera democrazia che possa organizzare il capitale e l’industria da sé,  o come sembra più probabile in Inghilterra adesso, tramite la trasformazione della plutocrazia in burocrazia, facendosi quindi parte necessaria del Grande Stato.
Con riguardo all’altra opposizione fra Nazionalismo e “Cosmopolitismo”, sembra che mentre scrivo si stia assistendo alla fine dell’equilibrio delle potenze, ed è difficile non credere che prima o poi la civilizzazione mondiale della nostra epoca sviluppi un’organizzazione internazionale capace di esserne l’incarnazione politica.
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Qualsiasi sviluppo possa portare il futuro, il carattere della nostra civiltà è chiaro anche adesso. Siamo faccia a faccia con una società, sostanzialmente la stessa in ogni Stato, a confronto della quale l’Impero romano era una bagattella. La sua centralizzazione, la sua ricchezza, la tenuta sui suoi membri, la sua organizzazione economica e finanziaria è qualcosa che il mondo non aveva ancora mai visto. Nessuna sorpresa che la persona che guarda solo dall’esterno creda che la nostra sia un’età incomparabile e che la sapienza mondana sia la sola sapienza per l’uomo. Nessuna sorpresa che i desideri e lo spirito di questa società siano diventati un dio che nessuno osa contrastare. Quale società può osare sfidare questo mondo e sperare di vivere?  Tuttavia dobbiamo credere che la Chiesa  trionferà, se non possiamo credere che lo spirito di questa civiltà è quello di Cristo e della Sua Chiesa. E’ vero che questa società non ha una falsa religione o una falsa visione del soprannaturale come accadeva nel mondo antico. Ma ha un atteggiamento negativo ed addirittura ostile al soprannaturale. Accetterà ed onorerà una religione che supporta i doveri sociali dell’uomo, ma non ne vorrà sapere di una che subordina questo mondo e la sua prosperità all’Aldilà. L’ordine attuale è un fine in sé stesso, ciò che lo aiuta è bene e ciò che lo ostacola è male. questa è la sostanza del credo sociale. Di conseguenza la venerazione del successo e del denaro, che acquisisce un’importanza quasi sacrale. E questi ragionamenti non sono confinati nelle menti comuni e rozze. E’ un credo che può essere idealizzato, ed inoltre il mondo userà reali virtù e reale sacrificio di sé, finché i suoi grandi fini non vengono ostacolati.
Se siamo inclini al pessimismo lo scenario ci deve sembrare davvero oscuro, perché sembrerebbe che i cattolici se dovessero rimanere fedeli allo spirito della Chiesa, diventerebbero una minoranza sparuta e perseguitata. Se mantengono i numeri e il potere mondano, si indeboliranno e saranno sottomessi dallo spirito mondano della società. Ma sappiamo che Dio è più vicino alla sua Chiesa proprio quando essa sembra agli uomini più abbandonata, e pertanto possiamo continuare con fede a fare ciò che è umanamente possibile e lasciando il resto allo Spirito Santo. In ogni caso, a meno che abbia luogo una miracolosa conversione nello spirito del tempo, dobbiamo aspettarci che la chiesa per un certo tempo occupi la stessa posizione che aveva nell’Impero romano pagano. Dobbiamo rassegnarci alla prospettiva di un nuovo periodo nelle catacombe, un periodo di attività nascosta e forse perseguitata, nella quale la Chiesa lavorerà per convertire ancora una volta il mondo e che finirà, possiamo sperare, come nel mondo antico, con la sua vittoria e trionfo. Qualunque sia il risultato esterno, non possiamo dubitare che il lievito divino lavorerà. Anche se una società è forte, i bisogni dell’anima individuale esistono, e tutta la Natura è incapace di soddisfarli, tantomeno una grande civiltà materiale. Non possiamo sperare che coloro che hanno successo, i potenti, i “saggi” si rivolgeranno alla Chiesa, perché sono proprio coloro che trovano soddisfazione per le loro anime nelle cose di questo mondo; ma come il primo, il Regno di Dio sarà predicato ai poveri ed agli insoddisfatti, coloro ai quali il mondo non serve e che vengono usati come suoi schiavi. E più completo sarà il trionfo materiale di questa civiltà e meno speranza ci sarà, e maggiore sarà il vuoto nelle anime degli uomini.

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[originale: https://stormfields.files.wordpress.com/2014/12/cd-first-article-1915.pdf]

lunedì 14 dicembre 2015

Le principali linee di diligenza nel Regno Lombardo-Veneto

Fonte: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien

Abbiamo raccolto, incollando in un unico file, una serie di tabelle riportanti le principali linee di diligenze gestite dalla Impresa per le Diligenze e Messaggerie (società che ebbe la propria sede a Milano nella Contrada del Monte 5499, attuale via Monte Napoleone).
Nelle tabelle più piccole sono raccolte le tariffe relative alle seguenti linee:

 1)Milano-Sesto Calende (VA)
2)Milano-Como
3)Milano-Lecco
4)Milano-Vienna
5)Milano-Venezia
6)Milano-Trieste
7)Venezia-Udine-Trieste
8)Milano-Lindò (attuale Lindau, città dell'allora Regno di Baviera)
9)Venezia-Vienna
Vi sono poi proposte altre tre linee transfrontaliere e altre linee interne.
Transfrontaliere:
1)Milano-Roma (Stato Pontificio)
2)Milano-Francia (comprendente anche altre città dell'Europa centro-occidentale come Londra o Brusselles)
3)Milano-Genova (Regno di Sardegna)
Interne:
4)Milano-Mantova-Verona
5)Milano-Venezia-Udine
6)Milano-Pavia
7)Milano-Cremona
8)Milano Bergamo

Vi consigliamo, al fine di poter leggere quanto scritto nell'immagine, di scaricare sul vostro computer il file.
Vi comunichiamo, inoltre, che (per motivi esterni) la pagina diminuirà momentaneamente la propria attività.

Dati tratti da: Viaggi in Italia (Volume III-Regno Lombardo-Veneto), Francesco Gandini, 1834.

 

sabato 12 dicembre 2015

CESARE BATTISTI E LA SUA GUERRA: TRAMONTO DI UN MITO

 
 
 
cesare battisti fabio filzi prigionieri da malga zocchi 10 luglio 1916
Cesare Battisti e dietro Fabio Filzi, prigionieri, scendono scortati da Malga Zocchi; 10 Luglio 1916.


by Stefano B. Galli

Da fervente pacifista e neutralista a trascinante alfiere di un conflitto sciagurato e impopolare: la triste e tragica parabola di un uomo politico che, in contraddizione con la propria matrice ideale socialista, volle e perseguì con tutte le sue forze l’intervento in uno scontro bellico che solo ai suoi occhi poteva rappresentare la “quarta guerra d’indipendenza italiana”.
In effetti, sullo sfondo di un complesso e cinico gioco politico, di cui gli sfuggivano i veri termini, si trovò inconsapevolmente a essere prima lo strumento del militarismo espansionistico più oltranzista, poi il punto di riferimento di un nazionalismo retrivo che ancora oggi, e non solo nei ranghi della “destra”, non perde occasione per lanciare i suoi roboanti proclami. E tuttavia ogni ipotesi di confine al Brennero, successivamente ammantato di patria sacralità proprio in suo nome, lo trovò sempre ed energicamente contrario.

Quattro mesi prima della morte del vecchio Kaiser Francesco Giuseppe, si conclude drammaticamente la vicenda umana e politica di Cesare Battisti.
L’irredentista trentino, tenente della II Compagnia di marcia del V Reggimento degli alpini, deputato socialista di Trento al Parlamento di Vienna (Reichsrat) e alla Dieta provinciale del Tirolo (Landtag) a Innsbruck, sulla cui testa pende una taglia di 20.000 corone, viene catturato il 10 luglio 1916 nella zona del Monte Pasubio (a est di Rovereto), sul Monte Corno.
Narrano le cronache di parte austriaca che durante il combattimento di Monte Corno molti alpini del Battaglione Vicenza, sotto il fuoco incalzante dei Landesschützen, “si eclissarono, altri corsero con le braccia in alto nelle nostre (austriache n.d.r.) file, contraccambiando il loro Re col tradimento”.
Sono proprio i prigionieri a riferire agli Austriaci della presenza, tra le schiere italiane, di Cesare Battisti e Fabio Filzi, noti propugnatori d’italianità in terra tridentina.

Dalle linee dei Landesschützen (tiratori al bersaglio della Provincia del Tirolo, dipendenti dalla Dieta di Innsbruck) si stacca un gruppo di pochi uomini, in parte italiani per il riconoscimento, in parte austriaci per la cattura dei due irredentisti. Battisti e Filzi sono catturati e immediatamente riconosciuti come cittadini austriaci dai loro stessi compagni del Battaglione Vicenza. Il tenente austriaco che li arresta è il trentino Brunetto Franceschini, cadetto dei Kaiserjäger (cacciatori imperiali, dipendenti dal Ministero della Guerra di Vienna). Nei suoi racconti dell’azione, Franceschini parla sempre di “noi austriaci” e “loro italiani”.

Il “Risveglio Austriaco”, giornale della Fortezza di Trento, nell’edizione del 12 luglio 1916 scrive: “Ministri della giustizia e del diritto, i nostri Landesschützen tirolesi hanno preso i due agitatori (Battisti e Filzi) mentre, tramutatisi in ufficiali italiani, guidavano il nemico contro la loro Patria e compivano senza rimorso e senza vergogna il fratricidio”.
Lungo il percorso che da Monte Corno arriva ai Toldi, dove c’è la sede di un Comando di Divisione austriaco, da qui su di un carretto verso Aldeno, dove ha sede il Comando dell’XI Corpo d’Armata austriaco e poi finalmente a Trento, Battisti trova schierate ai margini delle strade giovani mogli e vecchie madri rimaste a casa sole, senza mariti e figli, impegnati al fronte, che lo ricoprono di insulti per aver voluto e in parte causato la guerra.
In quel viaggio, il prigioniero viene pesantemente apostrofato: “hund” (cane), “schuft” (briccone), “canaille” (canaglia), “porci, vigliacchi, traditori: avete fatto morire i nostri, ma adesso vi daremo le conferenze e le prediche per la Guerra”.
La popolazione trentina è infuriata contro Cesare Battisti. È convinta che gran parte delle restrizioni e delle sofferenze subite abbiano un solo responsabile che, con la sua fervente attività a favore della Guerra, ha fatto del Trentino un grande cimitero.
Battisti nel maggio 1915 aveva voluto che i soldati andassero “alla frontiera”. Ora le mamme e le mogli vogliono mandare lui “alla forca”.

Il 13 luglio 1916, il “Risveglio Austriaco” dedica ampi spazi all’impiccagione di Battisti e Filzi. Nello stesso numero indice una sottoscrizione che quantifica la riconoscenza dei Trentini ai soldati che hanno fatto prigionieri i due irredentisti. I promotori sono austriaci. I sottoscrittori prevalentemente di lingua italiana.
La causa del Trentino “irredento” ha trovato la sua ambientazione nei centri maggiori (Trento e Rovereto), ma è stata quasi sempre estranea al sentimento e alla coscienza dei contadini. Sono rari i casi in cui i Trentini, durante la dominazione della corona degli Asburgo, si siano ribellati.
La loro mentalità non li ha mai indotti a cercare a tutti i costi il cambiamento di una situazione politica da sempre ingiustamente e opportunisticamente definita oppressiva, che nella realtà dei fatti era tutt’altro che negativa.
Dal censimento tributario della divisione delle tasse incassate dal K.u.K. (Kaiserlich und Königlich: Imperiale e Regio) Ministero dell’Economia, gli Austriaci di lingua italiana sono annoverati al terzo posto con il 10,4% delle imposte. Il primo e il secondo posto della graduatoria sono occupati dai Tedeschi con il 63,4% e dai Cechi con il 19,2% delle imposte.
L’Impero dell’aquila a due teste, soprattutto nella persona di Francesco Giuseppe, è sempre stato ben lontano dalla demagogia che attanaglia la maggior parte degli uomini politici della storia contemporanea. Il Governo dell’impero non ha curato la popolarità delle concessioni. Ha curato la sostanza. Ha concesso più sull’economico che sul sociale, senza mai travalicare i limiti della libertà dei sudditi. Voleva però una ferrea disciplina e un comportamento serio e leale.
La dignità, il civismo dei Trentini della Corona, nel primo decennio del Novecento, assolutamente non ammettono lezioni, sul piano sociale, da parte dell’“Italietta giolittiana”.
Sullo sfondo sociale della “gestione” austriaca in Trentino, c’è da considerare anche il miglioramento del tenore di vita. In quegli anni si verifica un notevole livellamento sociale. Lo scarto tra aristocrazia e popolo, altrove ancora assai ampio, si riduce sensibilmente.
La partecipazione alla vita politica dell’impero gode di un impulso democratico. L’espressione dei diversi strati sociali è molto eterogenea con la nuova partecipazione dei socialisti alle assemblee della Dieta di Innsbruck e del Parlamento di Vienna. Il Partito Socialista di Battisti si inserisce nel rapporto ormai cristallizzato tra i cattolici popolari e i nazional-liberali.
Nel 1895 (il 15 novembre) esce “L’Avvenire”, primo giornale socialista del Trentino, che chiuderà nel giugno 1896. Dal primo ottobre 1896 rinascerà come “Avvenire del Lavoratore” e verrà stampato a Rovereto anziché a Vienna. Prima, però, c’era stato l’infelice tentativo della “Rivista Popolare Trentina”. Il primo numero di questa rivista battistiana, il giorno 2 febbraio 1895, è stato tutto sequestrato. Ma il vero quotidiano dei socialisti trentini diretto da Battisti, sarà “Il Popolo”, pubblicato dal 7 aprile 1900 al 25 agosto 1914 (giorno in cui le rotative saranno fermate per motivi bellici).
Nel 1897 si assiste in tutte le province dell’impero ad una crescita dei cattolici.
Nello stesso anno il cattolico Karl Lüger viene confermato sindaco di Vienna. Nel 1899 nasce l’Associazione Universitaria Cattolica Trentina. Tra gli iscritti c’è anche Alcide De Gasperi.
Proprio durante il decennio di fine secolo, con il nobile rispetto dovuto alla pluralità dei suoi popoli, l’Austria permette di erigere in Trento un monumento a Dante Alighieri, dedicato al Padre della lingua italiana, “affermazione e simbolo del pensiero italiano ” (come è scritto alla base della statua). L’inaugurazione, che avviene a Trento l’11 ottobre 1896, è una vera e propria festa per tutto il Trentino di lingua italiana.
Le autorità austriache non sono sorde a questi impulsi, tendenti a far uscire il Trentino da quel provincialismo che lo attanaglia nella vita quotidiana, e si apprestano a qualche concessione. Tant’è vero che i cittadini di lingua italiana,  2,7% della popolazione dell’impero, sono rappresentati nel Parlamento di Vienna dal 3% di tutti i membri.
Nel 1884 (per un motivo di politica internazionale, la Triplice Alleanza), l’Assessorato alla Cultura (Landeskulturamt) si divide in due sezioni: una trentina (con sede in Trento), l’altra austrotirolese. Cosi avviene contemporaneamente anche per il Provveditorato Provinciale agli Studi.
L’autonomia del Trentino potrebbe concretarsi nel 1902. Il neoeletto Luogotenente della Dieta, Erwin Von Schwartzenau, con uno slancio generoso e intelligente verso le istanze autonomistiche dei Trentini, insieme a un gruppo di deputati austrotirolesi elabora una nuova risoluzione del problema. La Giunta Provinciale di Trento, nata per conferire una maggior autonomia alla provincia di Trento, raggiunge il numero di quattro rappresentanti a Innsbruck, contro i sette del Tirolo austriaco (formato dalla provincia del Sudtirolo e dalla provincia del Vorarlberg).
La Dieta concede alla neonata Giunta Provinciale di Trento la gestione dei problemi delle scuole elementari, dei Comuni, della Previdenza Sociale, dell’igiene e della Sanità, nonché la possibilità di investire in opere idrauliche, nell’agricoltura e artigianato, nell’industria e commercio, gli introiti provenienti dalle imposte.
Ma i Trentini respingono questa larga ipotesi di rinnovamento in quanto i Distretti di Cortina d’Ampezzo, di Pieve di Livinallongo, della Val di Fassa, del Comune di Luserna, della Val dei Mocheni e delle due valli ladine (la Gardena e la Badia), parte integrante del Sud-tirolo, rimangono sotto la gestione dei sette rappresentanti austro tirolesi.
In campo scolastico l’amministrazione austriaco-trentina delle scuole elementari aveva già dimostrato di funzionare bene con la Riforma del 1884. Alla fine dell’Ottocento, l’analfabetismo raggiunge il quindici per cento dei Trentini sopra i sei anni d’età. In Italia, nello stesso periodo, le persone che non sanno né leggere né scrivere sono sessanta su cento. “Se le cose vanno bene non c’è motivo di cambiarle” è la logica deduzione dei contadini che abitano le pendici dei monti del Trentino, prudenti di fronte ad imprevedibili cambiamenti.

Nel 1911 Cesare Battisti viene eletto deputato del Reichsrat di Vienna nel collegio Tirolo 6 (a Trento città).
Tre anni più tardi, nella primavera del 1914, Battisti è eletto anche rappresentante del Trentino nella Dieta Tirolese di Innsbruck.
Il 12 giugno 1914, a qualche settimana dall’attentato di Sarajevo all’arciduca austriaco Francesco Ferdinando, alla Dieta Tirolese si sta dibattendo sull’aumento del contingente dei Tiroler Landesschützen (tiratori al bersaglio della Provincia del Tirolo, dipendenti dalla Dieta di Innsbruck) nella regione trentina. Battisti da socialista antimilitarista si oppone “per convinzione teorica e per ragioni di principio”. Anzi, l’irredentista tuona con fiera voce contro “le colossali (sic!) opere militari iniziate dall’Austria con carattere di offesa”. Conclude il suo discorso con queste parole: “La mia fede antimilitarista vale per ogni paese del mondo”.

Al primo rinnovo quinquennale della Triplice Alleanza (1882-1887), il Ministro degli Affari Esteri italiano, il conte di Robilant, aveva imposto quale clausola aggiuntiva del patto, che, qualora l’Austria avesse avuto dei vantaggi territoriali nella Penisola Balcanica, avrebbe concesso benefici all’Italia nelle terre di lingua italiana.

Ma Battisti definisce la Triplice “una cosa inutile” e decide di passare all’azione.
Difatti il 12 agosto 1914, due mesi dopo l’animata assemblea della Dieta di Innsbruck, ottenuto facilmente il regolare passaporto dalle autorità austriache, varca il confine e viene in Italia.
Nel Regno trova un’atmosfera di guerra fredda.
I dubbi, le tensioni e le paure che pervadono gli animi e travagliano la vita del paese reale, paralizzano anche il lavoro politico del paese legale. II Parlamento d’Italia ha cominciato da poco le trattative diplomatiche con l’Austria. Salandra, Presidente del Consiglio, ha proposto all’Austria la neutralità dell’Italia durante la Guerra appena cominciata, in cambio dell’annessione del Trentino. Per quegli Italiani che hanno sempre atteso l’annessione attraverso un complotto diplomatico, la proposta del loro Governo rappresenta una vittoria. Ma i neutralisti devono fare i conti con gli interventisti.
Grazie a una campagna politica costruita sul comportamento inerte dei neutralisti, gli interventisti si assicurano ben presto il consenso delle grandi masse. Battisti si aggrega immediatamente al gruppo interventista. Tra i capitali interventisti del Regno trova alta considerazione perché “Egli è trentino, e quale parola, quale voce può valere la Sua?”.
Da interventista protagonista molto ascoltato, riesce a coronare un preciso disegno politico che ha già applicato a Trento. Gli articoli, gli opuscoli, i comizi, gli appelli di Battisti sono rivolti al popolo e al Governo.

Il primo ottobre 1914, Battisti spedisce una lettera (firmata anche dai trentini Giovanni Pedrotti, Presidente della Società Alpinisti Tridentini, e Guido Larcher, Presidente della Lega Nazionale) a tutti i senatori e deputati del Parlamento del Regno d’Italia.
Appellandosi al cosiddetto “amor patrio” delle masse, Battisti sollecita il Governo italiano all’intervento bellico a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia per annettere finalmente il Trentino. Nel “maggio radioso” il confronto tra interventisti e neutralisti raggiunge il massimo attrito in seguito al rifiuto di Francesco Giuseppe di pagare la neutralità italiana con la cessione del Trentino. La guerra fredda è ormai cruenta guerra civile.

Il 17 maggio 1915, Battisti è con Gabriele d’Annunzio in un comizio sul Colle del Campidoglio. Finito il discorso del “Vate”, la folla riconosce al suo fianco l’irredentista e lo acclama a gran voce. Battisti risponde con chiare e concise parole. Indicando col braccio l’Oriente, esplode: “Alla frontiera, Italiani, con la spada e col cuore!”.
Battisti, che a Innsbruck era stato antimilitarista, ora paradossalmente è diventato interventista convinto.
L’azione extraparlamentare che si svolge violenta e prepotente in piazza, tra la folla piuttosto che tra i deputati, aggredisce il Governo italiano, ostinato nella sua posizione di neutralità.
Gli interventisti vincono la guerra civile.
Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’impero Austro-Ungarico. Battisti è contento:

Italia e Austria si contenderanno il Trentino con le armi.

La sentenza di Innsbruck a questo punto è completa:

“L’Avvocato Dott. Cesare Battisti, trentino, deputato a Vienna, perseguitato con mandato di cattura per i suoi proclami inconsiderati, fu uno dei più accaniti aizzatori, in Italia, contro la Monarchia Absburgica, firmando (…) un appello del Comitato dell’Emigrazione Trentina a tutti i deputati della Camera italiana” che conteneva “frasi di alto tradimento. Il Dott. Battisti (…) è da considerarsi uno dei maggiori colpevoli dello scoppio della Guerra con l’Italia” (Innsbruck, 8 febbraio 1916).
Battisti a Innsbruck e a Vienna aveva spesso provocato l’impero di Francesco Giuseppe per costringerlo a concedere il Trentino all’Italia. Ma i Trentini temevano che l’Italia, già piena di problemi, abbandonasse il Trentino ad un degrado economico, sociale, politico ed istituzionale, che l’Austria aveva sempre cercato di evitare.
L’amministrazione austriaca aveva cominciato infatti a proteggere il lavoro delle donne e dei bambini fin dal 1874 (in Italia verrà protetto col Regio Decreto numero 41, votato il 29 febbraio 1904).
In Austria, i lavoratori erano assicurati contro gli infortuni fin dal 1887 (in Italia gli infortuni verranno tutelati a partire dal 1903).
La giornata lavorativa austriaca era di 11 ore, contro le 16 italiane.
Bisogna notare poi che Trento sino al primo decennio del secolo non è austriaca solo sotto l’aspetto politico. Lo è anche e soprattutto sotto il profilo culturale.
Inoltre dal censimento del 1921 emerge che su 232.600 abitanti, in provincia di Bolzano la popolazione di lingua tedesca è di 202.400 anime, quella di lingua italiana 20.300, quella di lingua ladina 9.900.
Nella lettura dei risultati di questo censimento bisogna tenere bene in considerazione che nel 1921 l’annessione dell’“Alto Adige” al Regno d’Italia è avvenuta ormai da tre anni.
I funzionari e gli uomini della burocrazia austriaca sono già oltre il Brennero, ma la supremazia dei Tedeschi è netta. Sui Ladini poi l’irredentismo non ha mai fatto presa. Durante e dopo il conflitto mondiale per la liberazione del Trentino, infatti, i Ladini rimangono legati affettivamente all’Austria, così come la maggior parte dei Sudtirolesi di lingua italiana.
Questo nel 1921, due anni dopo la Pace di Saint Germain, che ha decretato “l’italianità” del Trentino e dell’Alto Adige. Figuriamoci prima, ai tempi di Battisti, quando a Trento c’era ancora il Prefetto che veniva da Vienna.

Ma Battisti, sebbene esperto geografo e geologo del Trentino, non tiene conto, purtroppo, di questi dati di fatto. Vuole diffondere in Trentino il socialismo e la dottrina della II Internazionale.
Proprio come stanno facendo in Italia i suoi “compagni” socialisti, che giungeranno a risultati positivi solo durante il primo decennio del Novecento, grazie alle oculate concessioni di Giovanni Giolitti.
Contro l’annessione, apostolo dell’autonomia, è schierato invece Alcide De Gasperi, che si batte per inculcare nei Trentini una “coscienza nazionale positiva”. In questa formula è riposto l’intento di stimolare la difesa dell’autonomia, la difesa dell’individualità e unicità della regione trentina. Lo sosterrà anche dopo l’annessione. “Bisogna conservare l’autonomia delle terre ormai redente” è il pensiero di Alcide De Gasperi.
Ed è proprio la “coscienza nazionale positiva” che manca a Cesare Battisti. Il suo sentimento nazionale oltrepassa i limiti dell’irrispetto e dell’odio per il sentimento nazionale austriaco: è ultranazionalismo. È fragorosa lotta contro l’“oppressore” per allontanarlo. Per lui l’annessione è sinonimo di guerra e di morti, non di tavoli di conferenze come voleva De Gasperi a Vienna o Giolitti a Roma.
A De Gasperi e a chi vuole l’“ autonomia diplomatica” del Trentino, Battisti risponde: “Dimenticateci se volete, ma non dite che noi non vogliamo staccarci dall’Austria. È un’offesa e una bestemmia”.
Benito Mussolini, socialista, interventista, che aveva lavorato con Battisti alla redazione de “Il Popolo”, sostiene che l’unico modo di annettere con onore il Trentino all’Italia, è la guerra. Negli scritti di tutt’e due affiora però la consapevolezza che “la guerra riduce e più ridurrà il Trentino a un deserto e un cimitero”.

Il socialismo di Battisti prima ha tentato la rivoluzione politica del Trentino. Poi ha voluto l’aggressione militare. Battisti si è arruolato come volontario nell’esercito italiano il 29 maggio 1915, per combattere in prima persona contro il nemico. Ha combattuto, si è fatto arrestare. È salito al patibolo con dignità, ignorando tutti i cimiteri di guerra sparsi per le belle montagne del Trentino.
La logica dell’irredentismo voleva la sua morte affrontata con “animo impavido”, quale coronamento di una vita concretamente vissuta per l’irredentismo. “Solo la morte poteva dare al suo sacrificio politico quel significato pieno e supremo che egli voleva e che nessuna prodezza sua di soldato gli avrebbe mai potuto conferire”.
Battisti, che aveva fatto giuramento mazziniano il 12 luglio 1901, era consapevole di oltrepassare i limiti di giustizia di uno Stato. Infatti, nella prima settimana del luglio 1916, quando stava combattendo con il V Reggimento Alpini nell’assedio di Monte Corno, confidava all’amico Filzi: “Eviteremo d’esser fatti prigionieri, ma se l’Austria ci prenderà, sarà questo per lei peggio di una battaglia perduta”.
Forte di quest’idea, andò incontro al capestro con un fanatico e ingiustificato sentimento di “vittoria”. Così, Cesare Battisti il 12 luglio 1916, nell’impiccagione nel cortile del Castello del Buon Consiglio a Trento, alle ore 19 e 14 minuti, chiudeva la sua “battaglia”.
Si apriva a quel punto il giudizio della Storia e la gestione della sua immagine. Per gli interventisti, i militaristi e gli ultranazionalisti la sua vicenda diventava la pietra angolare della futura “Italia imperiale”.
A settant’anni da quei fatti, lontani dalle passioni e dalle influenze del tempo, si può affermare che Cesare Battisti fu politico mediocre e poco perspicace, militare ingenuo e scarsamente fortunato. In definitiva, un altro mito verso il tramonto.
 
Bibliografia

Il Corriere della sera 22 settembre 1915
Il risveglio Austriaco, 23 giugno 2015

Appropriazione indebita e truffa... novembre del 1914.


Il 6 luglio del 1914 era stato scoperto a fare rilevamenti di un ponte sull'Isonzo, nella cartella aveva i disegni delle fortificazioni e punti nevralgici di tutto l'arco alpino. Non fu arrestato perchè come Deputato alla dieta di Innsbruck ed al Reischsrat di Vienna, non aveva l'interdizione a tali luoghi.
Sono stati rintracciati documenti che comprovano che fosse ingaggiato dai servizi segreti del Regio Esercito, non si sa per quali cifre. Il 12 agosto era già in Italia con moglie e figli, il 25 agosto il suo giornale fermò le rotative. Battisti iniziò i suoi tour interventisti, non si sa da chi fossero pagati i conti dei viaggi, alberghi, noleggio teatri, sostentamento famiglia. Lavorò per mesi nella sede del Popolo con Mussolini.
Per Mussolini e d'Aunnunzio, ci aveva pensato la Francia. Al primo aveva dato i soldi per fondarsi il Popolo d'Italia e chissà quant'altro ancora, al secondo aveva pagato tutti i debiti che lo avevano fatto scappare a Parigi.
Per debiti quella volta si finiva in carcere anche in Italia, mentre in Austria era ancora peggio: se le truffe e le appropriazioni indebite fossero state legate allo stato fallimentare del giornale di Battisti. Per "bancarotta fraudolenta", si prendevano anche anni di carcere duro. Per spionaggio invece, si veniva quasi sempre assolti.
L'arruolamento come volontario? Non poteva fare diversamente... il rischio era comunque molto basso: furono fucilati in 4 sui 600-900 volontari pari allo 0,6%. Oppure lo 0,01% se ci fidassimo del numero di volontari dichiarati dall'Italia.
Inoltre, si arruolò il 29 maggio 1915; senza sapere che in Galizia, la controffensiva austro-tedesca stava terminando in modo imprevisto, ribaltando le sorti dell'Impero che nei mesi precedenti sembrava spacciato; tutti in Italia erano convinti che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa.
Tornando a Trento come vincitore, avrebbe avuto la ricompensa che ebbero gli altri irredentisti sopravissuti: il potere, brillanti carriere e ricchezze. Forse sarebbe diventato anche fascista, chissà.
Eppure, il 12 giugno 1914 aveva gridato alla Dieta Tirolese: “La mia fede antimilitarista vale per ogni paese del mondo”. E passò quasi tutto il servizio militare a Verona, della quale scriveva "antipatica città di Austriacanti".
Riassumendo: traditore, spia, ladro, truffatore ed imbroglione. L'Italia era proprio il Paese per lui e coerentemente, l'Italia lo celebra come uno dei propri miti.
TRADUZIONE
„L’eroe“ Battisti
Nel Monumento del tradimento, che sarà scoperto oggi a Bolzano, si trova, come è risaputo, anche il busto di Cesare Battisti, giustiziato in modo ignobile per alto tradimento. È veramente ridicolo vedere quale „eroe“ è stato posto qui un monumento. l'uomo era in realtà un ladro ed un imbroglione, come risulta in modo chiaro dalle seguente scheda segnaletica, pubblicata nel bollettino di polizia Nr. 84 del Governatorato per il Tirolo ed il Vorarlberg, uscito ad Innsbruck il 20 novembre del 1914:
4535. Battisti Cesare, Dr., figlio del defunto Cesare e di Theresa von Fogolari, nato il 4 febbraio 1875 a Trento ed ivi residente, proprietario ed editore del giornale socialdemocratico „Il Popolo“ a Trento, deputato della città di Trento al Reichtsrat (Parlamento) a Vienna e al Landtag a Innsbruck, ultima dimora a Trento, Viale Verona 18, di statura alta e magra, carnagione sana, occhi, capelli e pizzetto neri, senza segni particolari, si è dato alla fuga mentre contro di lui veniva aperta, da parte della Pretura circondariale di Trento, una indagine per il delitto di appropriazione indebita ai sensi del § 183 CP e di truffa ai sensi dei §§ 197, 199 f, CP, ai danni di diversi creditori a Trento e fuori città. Il medesimo, nel caso che venisse rintracciato, è da arrestare e da consegnare a questa Pretura. Br. 585 14 Pretura Circondariale di Trento, ripart. 7, il 6 novembre 1914.


http://www.welschtirol.eu/…/u…/2015/07/Der-Held-Battisti.jpg


Fonte: Vota Franz Josef

venerdì 11 dicembre 2015

•LETTERE DI RISPOSTA ALLE MENZOGNE DI RICASOLI - M. E. Galluccio, Atripalda, 2010

Fonte: http://www.eleaml.org/


Riportiamo una lettera (presa dal sito eleaml e fornitagli a loro volta dal Dr. Mauro Elio Galluccio di Atripalda (Principato Ulteriore)) degli esuli napoletani in Francia, relativamente al carattere politico della insurrezione napoletana.
Il testo in francese è stato tradotto in italiano con programmi dedicati.
Molti documenti sono ancora da scoprire in merito alla resistenza delle Due Sicilie, alcuni dei quali basta ricercarli in pubblicazioni estere, come il periodico francese AMI de LA RELIGION. Periodico che per le sue idee antipiemontesi, nel 1862 fu comprato direttamente, pare dallo stesso Napoleone III, per zittirlo definitivamente, licenziando tutti i vecchi giornalisti del periodico.
Oltre a questa lettera viene allegata anche quella di Francesco II, sullo stesso argomento.
 
 
 
LETTERA ESULI NAPOLETANI



AMI DE LA RELIGION
VOL.10, PAG 554 - 1861
4 septembre

Nous recevons un important document;
c'est la protestation de l'émigration napolitaine en France contre les audacieuses et mensongères assertions du manifeste de M. Ricasoli.

Cette pièce, rédigée avec un ton de dignité et de modération bien remarquable dans la bouche de proscrits, contraste noblement avec les violences et les fureurs piémontaises.

Les émigrés napolitains s'étonnent à bon droit que le ministre de Victor-Emmanuel ose contester tout caractère politique à la résistance opiniâtre qui tient en échec l'armée piémontaise; et ils ne comprennent pas qu'on s'obstine à ne voir que des brigands dans les rangs des Napolitains opposés à l'annexion Sarde, quand l'émigration et l'exil peuplent Rome, la France, l'Allemagne, la Suisse, l'Espagne de toutes les grandes familles du royaume.

Ils rappellent que ce n'est pas seulement par les armes que les Napolitains protestent contre la domination étrangère, mais par une abstention significative qui les tient éloignés de toute participation an gouvernement actuel de leur pays.

N'est-il pas remarquable, en effet, que lé Piémont n'ait pu obtenir le concours d'aucun Napolitain pour la haute administration des Deux-Siciles; qu'il ait dû y employer constamment des gouverneurs et des agents piémontais; et que dans cette nation qu'il prétend s'être donnée à lui avec unanimité, il n'ait pu trouver pour le servir qu'un Liborio Romano?


C'est là un des caractères les plus saillants de la situation actuelle dans le sud de l'Italie; le peuple envahi y fait le vide autour de ses envahisseurs, et le conquérant ne peut parvenir à mettre la main sur sa conquête.

Quant aux atrocités de tous genres dont se souille lé Piémont pour écraser la résistance, les émigrés se bornent à poser cette simple question : " Si le Congrès de Paris en 1856 crut devoir dénoncer le gouvernement des Bourbons à Naples, de quelle manière dénoncerait-il aujourd'hui le régime exterminateur du Piémont dans le même paya ? "

Les émigrés terminent en exprimant l'espoir que l'Europe finira par s'émouvoir, au nom de l'humanité, de toutes les horreurs qui désolent leur patrie.
Cette protestation, qui retentira comme le cri de l'honneur national outragé, est suivie de nombreuses et imposantes signatures, qui seraient bien plus nombreuses encore si le temps avait permis de recueillir toutes les adhésions.

Au moment même où l'inqualifiable dépêche du baron Ricasoli était adressée à l'Europe pour la tromper sur les événements de l'Italie méridionale, Marseille ne suffisait pas à donner l'hospitalité aux proscrits napolitains.

Plusieurs évêques, chassés de leurs sièges, ont dû aller chercher un abri à Lyon, d'autres à Paris, où se trouve notamment à cette heure le vénérable archevêque de Reggio.

La plupart de ces prélats étaient demeurés complètement étrangers aux affaires politiques; mais la domination sarde est ombrageuse, et du soupçon à l'exil il n'y a pas loin.


Presque tous sont arrivés en France sans aucune ressource, et la charité publique eût été obligée de les faire vivre si les plus riches de leurs diocésains, exilés comme eux, ne fussent venus à leur secours.

Du reste, le Moniteur semble repousser lui-même aujourd'hui l'appellation flétrissante de brigands donnée par M. Ricasoli aux patriotes napolitains, et reconnaître leur véritable caractère.

Le journal officiel, relatant dans son bulletin une dépêche transmise hier de Turin à l'agence Havas, au sujet d'un nouvel <engagement entre les Piémontais et les brigands dans la province de Bénévent, > se sert des termes suivants, qui méritent d'être remarqués :
< Les dépêches de Naples mentionnent " de nouveaux engagements entre les troupes piémontaises et les partisans de François II dans la province de Bénévent.>

Ainsi le Moniteur appelle partisans de François II ceux que le Piémont persiste à désigner sous le nom de brigands.

Nous sommes encore sans informations bien précises au sujet de la flotte anglaise. Une dépêche de Marseille annonce seulement qu'elle a appareillé de Naples le 31 août (1861), mais on ne sait si elle retourne a Malte ou si elle a une autre destination.

De Turin, on annonce que M. Ricasolt ne quittera pas l'intérim des affaires étrangères avant la solution de la question romaine.

Si le ministre sarde attend, pour se décharger de ce portefeuille, une solution conforme à ses désirs, il pourra continuer d'en porter longtemps le poids.


_____________


VOICI LE DOCUMENT QUI NOUS EST COMMUNIQUÉ AU NOM DE L'ÉMIGRATION NAPOLITAINE À PARIS :


Dans la note adressée aux représentants de son gouvernement à l'étranger, le baron Ricasoli veut démontrer que le brigandage dans les provinces napolitaines n'est pas un fait politique.
Cette note n'est pas moins significative que le rapport que le commandeur Nigra adressait au premier ministre du Piémont à son départ de Naples.

Ces deux pièces, en exposant la situation des contrées napolitaines, tâchent de justifier la conduite du gouvernement piémontais; elles sont impuissantes à dissimuler les vrais sentiments de ce peuple dévoué à sa nationalité et à son roi.

La différence qui existe entre el une et l'autre pièce, c'est que le commandeur Nigra, ayant échoué dans sa mission de secrétaire de la lieutenance de Naples, sentit le besoin de se justifier auprès de son gouvernement, et que le baron Ricasoli, menacé lui aussi d'échouer dans l'entreprise de soumettre Naples, veut se justifier devant l'Europe entière.

Ne voulant pas faire un examen minutieux de la circulaire du premier ministre de Victor-Emmanuel, nous sommes remplis de pitié en voyant l'audace avec le quelle l'homme d'Etat du Piémont, s'obstinant à ne pas reconnaître la portée d'un mouvement qu'on est convenu d'appeler brigandage, o e en attribuer la direction au Souverain Pontife.

Il ose encore avancer que le roi de Naples bat de la fausse monnaie!
Ces deux assertions ne sont pas moins odieuses que les procédés expéditifs dont se servent les Piémontais pour venir à bout de notre malheureux pays.

Après les perquisitions domiciliaires sans nombre, les arrestations, les proscriptions, la suppression des journaux, les fusillades, l'incendie, le ravage de plusieurs, provinces, nous adresserons cette simple question au baron Ricasoli: Si le Congrès de Paris, en 1856, crut devoir dénoncer à l'Europe civilisée le gouvernement des Bourbons à Naples, de quelle manière dénoncerait il aujourd'hui dans le même pays le régime exterminateur du Piémont?
Si l'honorable Gladstone appela en plein
Parlement britannique le gouvernement des
Bourbons une négation de Diéu, quel terme
trouvera-t-il maintenant pour qualifier celui
des Piemontais?

Le baron Ricasoli prétend que le gouvernement bourbonnien avait pour principe la corruption. Il s'opiniâtre à ne pas voir que le gouvernement piémontais paye bien cher maintenant la corruption avec laquelle il croyait, de son côté, pouvoir conquérir le royaume De Naples.

Il a corrompu les généraux Pianella et Nunziante; d'un coup de main il a surpris le peuple napolitain, dont le roi venait de s'eloigner, pour préserver Naples: des horreurs d'une lutte; mais le moment de la surprise passé, Naples a trop clairement démontré qu'une politique corruptrice n'avait pas le pouvoir de subjuguer un peuple.

Si le baron Ricasoli voulait ne pas se faire illusion, il verrait que le brigandage qui se fait si courageusement contre les troupes piémontais est loin d'être anéanti, qu'il augmente toujours.
Il engagerait le Piémont à ne pas persister
dans son inique conquête; car ce qu'il voit
devrait le convaincre que le brigandage napolitain ne sera pas vaincu.

Le Piémont ne triomphera pas d'une nation qu'on peut fusiller, fouler aux pieds, mais qu'on ne parvient pas à faire renoncer à sa nationalité.

Est-ce que c'est par le prétendu brigandage
seulement que les Napolitains protestent con re le gouvernement piémontais?

Aurait-on oublié que la majorité du royaume n'a pas voulu prendre parti au plébiscite, ni aller aux élections des députés et des conseils municipaux, ni faire partie de la sarde nazionale?

A-t-on oublié le silence glacial avec lequel fut accueilli Victor-Emmanuel en venant à Naples, où le prince de Carignan se vit à son tour tellement isolé de la population qu'il fut obligé de quitter son poste, ainsi que tant d'hommes d'Etat qui sa sont succédé avec un éclatant insuccès dans la lieutenance du royaume?


Comment ne; pas reconnaître les sentiments politiques de ce pays, lorsque le gouvernement y est réduit à une si flagrante impuissance et si totalement privé du concours de la population?

Mais nous trouvons encore un autre indice caractéristique de ces sentiments politiques dans l'aristocratie et les principaux propriétaires napolitains; cette classe ne cesse de garder à son souverain sa fidélité et son dévouement, et son attitude prouve suffisamment que lé pays est froissé dans tous sus grands intérêts.

Aucommencement de la Révolution, une partie de cette classe quittait Naples; une autre y demeurait, faisant une opposition passive au nouvel ordre: de choses; mais bientôt la situation
devint intolérable, et quoique le baron ricasoli
déclare qu'à Naples on a laissé en vigueur les franchises constitutionnelles, et que par conséquent le respect de la liberté de la presse, de l'inviolabilité du domicile et de la, liberté individuelle, du droit d'association empêche qu'on y recoure à des répressions sommaires et instantanées, les perquisitions domiciliaires, les arrestations, les suppressions de journaux, les arrêts d'exil forcèrent l'autre partie de l'aristocratie et des propriétaires à abandonner ce beau ciel, de sorte qu'il ne reste maintenant à Naples qu'une minime partie de lu noblesse, décidée, à rester fidèle à ses principes et à subir tous les sacrifices, tant qu'il lui sera possible de ne pas aller mendier sa sûreté individuelle dans une terre étrangère.

Naples est un bien beau pays; ni Mergellina, ni Pausilippe, ni Sorrento, ni Castellamare, ni son beau ciel, ni son doux climat ne se retrouvent ailleurs; l'aristocratie et les propriétaires napolitains out sacrifié tout cela, sans conspirer, sans se mettre à la tête des soldats de l'indépendance qu'on ose qualifier de brigands; mais ils ont cru que c'était pour eux une obligation sacrée de prolester d'une manière solennelle dans l'intérêt de leur patrie, et c'est pourquoi c'est un devoir aussi de consigner ici leurs noms en partie, car il est impossible de mentionner tous ceux qui ont dû se rendre à l'étranger:

Prince d'Angri-Durfa, avec sa famille.
Prince de Montemiletto-Tocco-Cantelmo-Stuard, avec sa famille.
Duc de Popoli Cantelmo-Stuard.
Duc de Santo-Teodoro-Caracciolo. '
Marquis Caracciolo.
Marquis de Circello-Somma, avec sa famille.
Duc de San Cesario-Marulli, avec sa famille.
Duc d'Evoli- Doria, avec sa famille.
Charles Doria des princes de Centola.
Prince de Comitini.
Duc de Gallo-Mastrllli, avec sa famille.
Duc de Paganica et sa famille.
Duc de San-Marco-Capece-Zurlo et sa famille.
Prince Jean Capace Zurlo.
Vincent Capece des Princes Zurlo.
Commandeur Jules Capece Zurlo.
Prince Santangelo Marulli.
Marquis Gentile et sa famille.
Duc da Sangro et sa famille,
Duc de Martina-Placide de Sangro.
Chevalier de Medici des princes d'Ottajaio.
Duc de Castelluccio-Caracciolo et sa famille.
Duc de la Regina-Capece Galeata et sa famille.
Marquis de Casalicchio-Tommasi et sa famille.
Marquis de Carapelle-Filiasi.
Chevalier Raphaël Caracciolo des ducs de Castelluccio.
Chevalier Gaetan Caracciolo des ducs de Castelluccio,
Marquis de San-Giuliano-Carafa des comtes de Policastro.
Marquis Jean Filiasi.
Marquise Filiasi Somma, des princes del Colle.
Princesse Santangelo Sangro, des princes de Fondi.
Chevalier Ferdinand-Tommasi et sa famille.
Marquis Azzia et sa famille.
Marquise Azzia-Sangro des princes de Fondi.
Prince de Stigliano Marc Antoine Colonna.
Duc de Corigliano et sa famille.
Prince do San-Mauro-Salluzzo.
Prince de Belvedere Salluzzo.
Duc d'Ascoli et sa famille.
Prince de Caramanico et sa famille.
Marquis Mazi-Acguaviva.
Duc de San-Pietro et sa famille.
Marquis Monteforte et sa famille.
Prince de Sciarra et sa famille.
Princesse Petrulla.
Prince de Scilla-Ruffo et sa famille.
Princesse de Montevago.
Marquis Spaccaforno et sa famille.
Prince de Gerace-Serra et sa famille.
Marquise Gioja Doria.
Comte de Montesantangelo-Serra.
Marquis de Rende et sa famille.
Comte de Gigliano et sa famille.
Duc delle Pesche des marquis de Pletracatella.
Marquis Taraburri.
Prince de Trasso et sa famille.
Princesse Dentice-Serra.
Comte Pierre Statella-Cassero.
Chevalier Gallotti.
Prince de Castelclcala-Ruffo et sa famille.
Prince d'Ischitella.
Duc de Civitella et sa famille.
Marquis Frederic Imperiale et sa famille.
Prince Diego Pignatelli et sa famille.
Prince Pignatelli-Colonna.
Prince Monteroduni et sa famille.
Prince de Sepino et sa famille.
Prince Jérôme Pignatelli et sa famille.
Duc de San-Cipriano et sa famille.
Marquis de Latiano Imperiale.
Comte Statella-Berio et sa famille.
Comte Statella-Cianciulli
Comte Statella Giardinelli.
Comte François Latour-Medici ot sa famille.
Comte Leopold Latour-Doria et sa famille.
Comte François Latour-Majo.
Prince de Ruffano et sa famille.
Marquis de Rivelio Brancaccio
Duchesse de San Cesario Berio.
Duchesse de Casalmaggiore.
DUC de Monteleone et sa famille.
Duc Riario Sforza.
Duchesse Riario Sforza Caracciolo et sa famille.
Prince de Squinzano d'Aragona et sa famille.
Comte Capaccio Marino Doria.
Chevalier Alfred Dentce des princes de Frasso.
Comte Marino Latour.
Chevalier Claude Ferri.
Duc de Pescolanciano Ruffo et sa famille.
Chevalier Ferri, des marquis Pignalvera.
Marquis de Costanzo.
Marquis Jean Imperiale.
Chevalier Mari des princes d'Acquaviva.
Comte del Balzo et sa famlle.
Marquis de Cosentino-Longo et sa famille.
Chevalier de Napoli.
Comte de Melino et sa famille.
Comtesse Grifeo-Statella.
Marquis Guidomandri-Ruffo et sa famille.
Duc de Carmignano et sa famille.
Prince San Antimo-Ruffo et sa famille.
Prince de Spinosa-Ruffo et sa famille.
Prince de Campofranco.
Comte Gaetani des ducs de Laurenzano et sa famille.
Prince de Bisignano-Sanseverino et sa famille.
Comte de Chiaromonte et sa famille.
Duchesse da Scondito-Sanseverino.
Prince de Scaletta Ruffo et sa famille.
Baron Nolli et sa famille.
Marquis Caracciolo de Brienza et sa famille.
Prince Vincent Pignatelli Donde et sa famille.
Prince Antoine Pignatelli Ruffo.
Duc de Canzano.
Chevalier Dominique Blanco.
Chevalier Charles Beyrès.
Commandeur Cianciulli et sa famille.
Baron Antoine Winspeare
Chevalier David Winspeare.
Chevalier Guillaume Winspeare.
Marquis Angiulli.
Duc Spiriti et sa famille.
Marquis Gargallo.
Marquis Dusmet et sa famille.
Baron Malocia.
Marquis Auguste Imperiale et sa famille.
Prince de la Rocca et sa famille.
Marquis Albano.
Duc de Bagnara.
Prince Ginetti-Caracciolo.
Duc de San-Valentino-Capece-Minutolo.
Baron Antonini et sa famille.
Comte Grasset et sa famille.













Après tout cela, il est évident que le gouvernement piémontais, pour réussir dans sa tentative, devrait successivement vaincre le brigandage auquel il refuse un caractère politique, et faire voir au mon le que les sentiments nationaux d'un pays qui rend impuissant le gouvernement piémontais n'existent pas.

Cette double tâche est impossible. L'attitude des brigands et des exilés vaut bien la comédie du suffrage universel. Ces populations, décidées à
toujours résister, tant qu'on refusera de se
rendre à leurs voeux que le traité solennel de
Zurich satisfaisait, ces populations , disons-nous, n'ont pas encore perdu confiance dans les puissances de I'Europe; elles espèrent que ces puissances interviendront enfin au nom
de l'humanité, et mettront un terme à l'oppression sanglante qui les accable.

Pour extrait: Théophile Martin
Amico Della Religione
Vol.10, PAG 554 - 1861
4 settembre

Riceviamo un importante documento; è la protesta dell'emigrazione napoletana in Francia contro le audaci e menzognere asserzioni del manifesto di M. Ricasoli.


Questo pezzo, redatto con un tono di dignità e di moderazione molto importante nella bocca di esiliati, contrasta nobilmente con le violenze ed i furori piemontesi.

Gli emigrati napoletani si stupiscono a buon diritto che il ministro di Victor-Emanuele osa contestare ogni carattere politico alla resistenza ostinata che tiene in scacco l'esercito piemontese; ed essi non comprendono che egli si ostina a vedere solamente dei briganti nelle file dei Napoletani che si oppogono all'annessione Sarda, quando l'emigrazione e l'esilio popolano Roma, la Francia, la Germania, la Svizzera, la Spagna di tutte le grandi famiglie del Reame.

Ricordano che non sono solamente per le armi che i Napoletani protestano contro il dominio straniero, ma per un'astensione significativa che li tiene lontani di ogni partecipazione al governo attuale del loro paese.


Non è notevole, difatti che il Piemonte non abbia potuto ottenere il concorso di nessuno Napoletano per l'alta amministrazione delle Due-Sicilie; che abbia dovuto adoperare costantemente dei governatori e degli agenti piemontesi; e che in questa nazione che si pretende essere data a lui con unanimità, non abbia potuto trovare per servirlo che un Liborio Romano?


Questa è una delle caratteristiche più salienti della situazione attuale nel Sud dell'Italia; il popolo invaso ha fatto il vuoto intorno ai suoi invasori, ed il conquistatore non può giungere a mettere la mano sulla sua conquista.

In quanto alle atrocità di ogni genere di cui si sporcano i Piemontesi per schiacciare la resistenza, gli emigrati si limitano a porre questa semplice domanda: Se il Congresso di Parigi nel 1856 credè dovere denunciare il governo dei Borbone a Napoli, di quale modo denuncerebbe oggi il regime sterminatore del Piemonte, nello stesso modo?


Gli emigrati finiscono esprimendo la speranza che l'Europa finirà per commuoversi, al nome dell'umanità, di tutti gli orrori che affliggono la loro patria.
Questa protesta che echeggerà come il grido dell'onore nazionale oltraggiato, è seguita da numerose ed autorevoli firme che sarebbero ancora molto più numerose se il tempo avesse permesso di raccogliere tutte le adesioni.


Al momento stesso dell’invio dell'inqualificabile dispaccio del barone Ricasoli in Europa per ingannarla sugli eventi dell'Italia meridionale, Marsiglia non bastava a dare l'ospitalità agli esuli napoletani.

Parecchi vescovi, cacciati dalle loro sedi, sono dovuti andare a cercare un riparo a Lione, gli altri a Parigi, dove si trova a questa ora particolarmente il venerabile arcivescovo di Reggio.
La maggior parte di questi prelati erano rimasti completamente estranei agli affari politici; ma il dominio sardo è sospettoso, e dal sospetto all'esilio non c'è distanza.

Quasi tutti sono arrivati in Francia senza nessuna risorsa, e la carità pubblica fosse stata obbligata di farli vivere, se più ricchi dei loro diocesani, esiliati come essi, non fossero venuti al loro soccorso.

Del resto, il Monitor sembra respingere oggi stesso la denominazione avvizzita di briganti data dal M. Ricasoli ai patrioti napoletani, e riconoscere il loro vero carattere.

La gazzetta ufficiale, riferendo nel suo bollettino un dispaccio trasmesso ieri di Torino all'agenzia HAVAS, a proposito di un nuovo <scontro tra i Piemontesi ed i briganti nella provincia di Benevento,> si serve dei seguenti termini che meritano di essere notati:
<I dispacci di Napoli menzionano dei nuovi scontri tra le truppe piemontesi ed i partigiani di Francesco II nella provincia di Benevento.>


Così il Monitor chiama partigiani di Francesco II quelli che il Piemonte insistono a designare sotto il nome di briganti.

Siamo ancora senza notizie molto precise a proposito della flotta inglese. Un dispaccio di Marsiglia annuncia solamente che ha salpato da Napoli il 31 agosto (1861), ma non si sa se è tornata a Malta o se ha un'altra destinazione.

A Torino, si annuncia che M. Ricasoli non lascerà l'interim degli affari esteri prima della soluzione della questione romana.

Se il ministro sardo aspetta, per scaricarsi di questo portafoglio, una soluzione conforme ai suoi desideri, potrà continuare a portare per molto tempo il peso.





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ECCO IL DOCUMENTO CHE CI VIENE COMUNICATO A NOME DELL'EMIGRAZIONE NAPOLETANA A PARIGI:


Nella nota inviata ai rappresentanti del suo governo all'estero, il barone Ricasoli vuole dimostrare che il brigantaggio nelle province napoletane non sia un fatto politico.

Questa nota non è meno significativa del rapporto che il commendatore Nigra che inviava al primo ministro del Piemonte alla sua partenza da Napoli.

Questi due documenti, esponendo la situazione delle contrade napoletane, cercano di giustificare la condotta del governo piemontese; sono inadeguati a nascondere i veri sentimenti di questo Popolo (Napoletano) dedicato alla sua nazionalità ed al suo re.
La differenza che esiste tra l’uno e l'altro documento, è che il commendatore Nigra, avendo fallito nella sua missione di Segretario della Luogotenenza di Napoli, sentì il bisogno di giustificarsi presso il suo governo, e che il barone Ricasoli, minacciato anche egli di fallire nell'impresa di sottomettere Napoli, vuole giustificarsi davanti all'Europa intera.

Non volendo fare un esame scrupoloso della circolare del primo ministro di Victor-Emanuele, siamo riempiti di pietà vedendo l'imprudenza col quale l'uomo di Stato del Piemonte, ostinandosi a non riconoscere la portata di un movimento che si è convenuto di chiamare brigantaggio, o attribuire nella direzione data al Sovrano Pontefice.

Osa avanzare ancora che il re di Napoli batte della falsa moneta!
Queste due asserzioni non sono meno odiose dei procedimenti sbrigativi di cui si servono i Piemontesi per venire ad estremità dal nostro disgraziato paese.

Dopo le innumerevoli perquisizioni domiciliari, gli arresti, le espulsioni, la soppressione dei giornali, le sparatorie, l'incendio, la devastazione di parecchie Province (Napoletane), invieremo questa semplice domanda al barone Ricasoli: Se il Congresso di Parigi, nel 1856, credette il dovere di denunciare all'Europa civilizzata il governo dei Borbone a Napoli, in quale modo denuncerebbe oggi nello stesso paese il regime sterminatore del Piemonte?
Se l'onorabile! Gladstone chiamò in pieno
Parlamento britannico il governo dei Borbone una negazione di Dio, quale termine, troverà per qualificare quello di adesso
dei Piemontesi?

Il barone Ricasoli pretende che il governo borbonico aveva per principio la corruzione. Egli si ostina a non vedere che il governo piemontese ora sta pagando molto cara la corruzione con la quale credeva, dal canto suo, di potere conquistare il Regno di Napoli.


Ha corrotto i generali Pianella e Nunziante; di un colpo di mano ha sorpreso il popolo napoletano da cui il re si era appena allontanato, per preservare Napoli degli orrori di una guerra; ma il momento della sorpresa passa, Napoli ha dimostrato troppo chiaramente che una politica corruttrice non aveva il potere di soggiogare un popolo.

Se il barone Ricasoli volesse non farsi illusione, vedrebbe che il brigantaggio che si fa così coraggiosamente contro le truppe piemontesi è lontano da essere annientato, che aumenta sempre.
Impegnerebbe il Piemonte a non persistere nella sua iniqua conquista; perché ciò che vede dovrebbe convincerlo che il brigantaggio napoletano non sarà vinto.

Il Piemonte non supererà una nazione che si può fucilare, calpestare, ma che non gli riesce a fare rinnegare alla sua nazionalità.


È ciò che è per il preteso brigantaggio solamente che i Napoletani protestano al duro re del governo piemontese?

Si sarebbe dimenticato che la maggioranza del regno non ha voluto prendere partito al plebiscito, né andare alle elezioni dei deputati e dei consigli comunali, né fare parte della guardia nazionale?

Si è dimenticato il silenzio glaciale con il quale fu accolta la venuta a Napoli di Victor-Emanuele, dove il principe di Carignano a sua volta si è trovato così isolato dalla popolazione che fu costretto a lasciare il suo posto, così come tanti uomini di stato che sono seguiti, con un splendente insuccesso nella luogotenenza del regno?


Come non riconoscere i sentimenti politici di questo paese, quando il governo è ridotto ad una si flagrante impotenza e così totalmente privato del concorso della popolazione?


Ma troviamo ancora un altro indizio caratteristico di questi sentimenti politici nell'aristocrazia e nei principali proprietari napoletani; questa classe non smette di custodire la sua fedeltà e la sua devozione al suo sovrano (Francesco II), ed il suo atteggiamento prova sufficientemente che il paese è ferito da tutti i suoi grandi interessi.

All’inizio della Rivoluzione, una parte di questa classe lasciava Napoli; un’altra rimaneva, facendo un'opposizione passiva al nuovo ordine di cose; ma presto la situazione è
diventata impossibile, e sebbene il barone Ricasoli
dichiara che a Napoli si è lasciato in vigore le franchigie costituzionali, e che di conseguenza il rispetto della libertà della stampa, dell'inviolabilità del domicilio e della, libertà individuale, del diritto di associazione impedisce che si ricorra alle repressioni sommarie ed istantanee, le perquisizioni domiciliari, gli arresti, le soppressioni di giornali, gli arresti gli esili costrinsero l'altra parte dell'aristocrazia e dei proprietari ad abbandonare questo bel cielo, così non resta a Napoli che un minimo partito della nobiltà, decisa, a restare fedele ai suoi principi ed a subire tutti i sacrifici, finché gli sarà possibile non andare a implorare la sua sicurezza individuale in una terra straniera.



Napoli è un paese molto bello; né Mergellina, né Posilipo, né Sorrento, né Castellamare, né il suo bel cielo, né il suo dolce clima si ritrova altrove; l'aristocrazia ed i proprietari napoletani esiliati hanno sacrificato tutto ciò, senza cospirare, senza mettersi alla testa dei soldati dell'indipendenza che si osa qualificare di briganti; ma hanno creduto che era per essi un obbligo sacro di protestare in modo solenne nell'interesse della loro PATRIA (Napoletana!), ed è per questo che era un dovere registrare in parte qui i loro nomi, perché era impossibile menzionare tutti quelli che avevano dovuto recarsi all'estero:

- Principe di Angri-Durfa, con la sua famiglia.
- Principe di Montemiletto-Tocco-Cantelmo-Stuard, con la sua famiglia.
- Duca di Popoli Cantelmo-Stuard.
- Duca di Santo-Teodoro-Caracciolo.
- Marchese Caracciolo.
- Marchese di Circello-Somma, con la sua famiglia.
- Duca di San Cesario-Marulli, con la sua famiglia.
- Duca di Evoli - Doria, con la sua famiglia.
- Charles Doria dei principi di Centola.
- Principe di Comitini.
- Duca di Gallo-Mastrilli, con la sua famiglia.
- Duca di Paganica e la sua famiglia.
- Duca di San-Marco-Capece-Zurlo e la sua famiglia.
- Principe Jean Capace Zurlo.
Vincent Capece dei Principi Zurlo.
- Commendatore Jules Capece Zurlo.
- Principe Santangelo Marulli.
- Marchese Gentile e la sua famiglia.
- Duca da Sangro e la sua famiglia,
- Duca di Martina-placido di Sangro.
- Cavaliere di Medici dei principi di Ottajaio.
- Duca di Castelluccio-Caracciolo e la sua famiglia.
- Duca del Regina-Capece Galeata e la sua famiglia.
- Marchese di Casalicchio-Tommasi e la sua famiglia.
- Marchese di Carapelle-Filiasi.
- Cavaliere Raphaël Caracciolo dei duchi di Castelluccio.
- Cavaliere Gaetano Caracciolo dei duchi di Castelluccio,
Marchese di San-Giuliano-Carafa dei conti di Policastro.
- Marchese Jean Filiasi.
Marchesa Filiasi Somma, dei principi del Colle.
- Principessa Santangelo Sangro, dei principi di Fondi.
- Cavaliere Ferdinando-Tommasi e la sua famiglia.
- Marchese Azzia e la sua famiglia.
- Marchesa Azzia-Sangro dei principi di Fondi.
- Principe di Stigliano Marc Antoine Colonna.
- Duca di Corigliano e la sua famiglia.
- Principe do San-Mauro-Salluzzo.
- Principe di Belvedere Salluzzo.
- Duca di Ascoli e la sua famiglia.
- Principe di Caramanico e la sua famiglia.
- Marchese Mazi-Acguaviva.
- Duca di San-Pietro e la sua famiglia.
- Marchese Monteforte e la sua famiglia.
- Principe di Sciarra e la sua famiglia.
- Principessa Petrulla.
- Principe di Scilla-Ruffo e la sua famiglia.
- Principessa di Montevago.
- Marchese Spaccaforno e la sua famiglia.
- Principe di Gerace-strinse e la sua famiglia.
- Marchesa Gioja Doria.
Conte di Montesantangelo-Serra.
- Marchese di Renda e la sua famiglia.
- Conte di Gigliano e la sua famiglia.
- Duca delle Pesche dei marchesi di Pletracatella.
- Marchese Taraburri.
- Principe di Trasso e la sua famiglia.
- Principessa Dentice-Serra.
- Conte Pierre Statella-Cassero.
- Cavaliere Gallotti.
- Principe di Castelclcala-Ruffo e la sua famiglia.
- Principe di Ischitella.
- Duca di Civitella e la sua famiglia.
- Marchese Federico Imperiale e la sua famiglia.
- Principe Diego Pignatelli e la sua famiglia.
- Principe Pignatelli-Colonna.
- Principe Monteroduni e la sua famiglia.
- Principe di Sepino e la sua famiglia.
- Principe Jérôme Pignatelli e la sua famiglia.
- Duca di San-Cipriano e la sua famiglia.
- Marchese di Latiano Impériale.
- Conte Statella-Berio e la sua famiglia.
- Conte Statella-Cianciulli
- Conte Statella Giardinelli.
- Conte Francesco Latour-Medici e la sua famiglia.
- Conte Léopold Latour-Doria e la sua famiglia.
- Conte Francesco Latour-Majo.
- Principe di Ruffano e la sua famiglia.
- Marchese di Rivelio Brancaccio
- Duchessa di San Cesario Berio.
- Duchessa di Casalmaggiore.
- Duca di Monteleone e la sua famiglia.
- Duca Riario Sforza.
- Duchessa Riario Sforza - Caracciolo e la sua famiglia.
- Principe di Squinzano di Aragona e la sua famiglia.
- Conte Capaccio Marino Doria.
- Cavaliere Alfred Dentce dei principi di Frasso.
- Conte Marino Latour.
- Cavaliere Claude Ferri.
- Duca di Pescolanciano Ruffo e la sua famiglia.
- Cavaliere Ferri, dei marchesi Pignalvera.
- Marchese di Costanzo.
- Marchese Jean Impériale.
- Cavaliere Mari dei principi di Acquaviva.
- Conte del Balzo ed il suo famlle.
- Marchese di Cosentino-Longo e la sua famiglia.
- Cavaliere di Napoli.
- Conte di Melino e la sua famiglia.
- Contessa Grifeo-Statella.
- Marchese Guidomandri-Ruffo e la sua famiglia.
- Duca di Carmignano e la sua famiglia.
- Principe San Antimo-Ruffo e la sua famiglia.
- Principe di Spinosa-Ruffo e la sua famiglia.
- Principe di Campofranco.
Conte Gaetani dei duchi di Laurenzano e la sua famiglia.
- Principe di Bisignano-Sanseverino e la sua famiglia.
- Conte di Chiaromonte e la sua famiglia.
- Duchessa da Scondito-Sanseverino.
- Principe di Scaletta Ruffo e la sua famiglia.
- Barone Nolli e la sua famiglia.
- Marchese Caracciolo di Brienza e la sua famiglia.
- Principe Vincent Pignatelli Donde e la sua famiglia.
- Principe Antoine Pignatelli Ruffo.
- Duca di Canzano.
- Cavaliere Dominique Blanco.
- Cavaliere Charles Beyrès.
- Commendatore Cianciulli e la sua famiglia.
- Barone Antoine Winspeare
- Cavaliere Davide Winspeare.
- Cavaliere Guillaume Winspeare.
- Marchese Angiulli.
- Duca Spiriti e la sua famiglia.
- Marchese Gargallo.
- Marchese Dusmet e la sua famiglia.
- Barone Malocia.
- Marchese Auguste Impériale e la sua famiglia.
- Principe del Rocca e la sua famiglia.
- Marchese Albano.
- Duca di Bagnara.
- Principe Ginetti-Caracciolo.
- Duca di San-Valentino-Capece-Minutolo.
- Barone Antonini e la sua famiglia.
- Conte Grasset e la sua famiglia.


Dopo tutto ciò, è evidente che il governo piemontese, per riuscire nel suo tentativo, dovrebbe vincere il brigantaggio al quale rifiuta un carattere politico poi, e fare credere a me (francese) che i sentimenti nazionali di un paese che rende impotente il governo piemontese non esistono. Questo
doppio compito è impossibile.


L'atteggiamento dei briganti e degli esiliati vale bene la commedia del suffragio universale. Queste popolazioni, decise a
sempre resistere, finché si rifiuterà di si
rendere ai loro voti che il trattato solenne di Zurigo soddisfaceva, queste popolazioni, diciamoci, non hanno perso ancora la fiducia nei poteri dell'Europa; sperano che questi poteri intervengano infine al nome
dell'umanità, e metteranno un termine all'oppressione insanguinata che li prostra.


Per brano: Théophile Martin



LETTERA DI FRANCESCO II


ARCHIVES DIPLOMATIQUES
VOL. 4 - 1861
PAG. 135-141

Mémorandum de François II, en réponse à la Circulaire de M. Ricasoli, 7 septembre 1861.

Le baron Ricasoli vient d'adresser une nouvelle circulaire, datée du 24 août, aux représentants du roi Victor-Emmanuel à l'étranger; et, cette fois, pour marcher droit à la conquête de la capitale du monde catholique, qui est son rêve chéri, il dénature les événements qui arrivent tous les jours dans l'Italie méridionale; il dénonce Rome comme le foyer des malheurs dont les villes napolitaines, naguère si florissantes, offrent le navrant spectacle.

Si l'Europe a assisté impassible à l'occupation piémontaise, elle ne peut pourtant pas ne pas avoir apprécié par elle-même, et par le moyen de correspondances exactes et impartiales, l'état lamentable des personnes et des intérêts du royaume des Deux-Siciles.

L'imperturbabilité dont fait preuve M. le ministre nous force d'élever hautement la voix contre ce honteux tissu de mensonges.

La levée de boucliers du peuple des Deux-Siciles contre les oppresseurs piémontais, que les révolutionnaires se plaisent à appeler du nom de brigandages, est tellement étendue et unanime, qu'il n'y a plus une ville ou une bourgade dans le royaume qui ne se soit associée pour soutenir le principe d'autonomie et amener la restauration de l'ancienne dynastie, dont ils se rappellent le gouvernement paternel.

Dans la circulaire, on a recours à cette dénomination déjà usée de brigands, dont la véritable signification est celle de «voleurs de grand chemin, » et on établit la ressemblance de l'insurrection napolitaine avec celle de l'écosse, de la Vendée, et celle plus récente encore de l'Espagne; mais en Écosse c'était la guerre civile, et non pas la guerre contre l'étranger; c'était l'insurrection d'une partie de la Grande-Bretagne, tandis que le royaume de Naples tout entier est en lutte contre les armes piémontaises.

La Vendée et la Biscaye luttaient également seules, et les gouvernements de l'époque donnaient à ceux qui combattaient dans la Vendée et en Espagne le même nom de brigands que le Piémont prodigue aux Napolitains qui se battent pour leur indépendance; et s'il n'y a pas encore de Charette et de Cabrera, il faut se rappeler que les noms de ces héros ne devinrent célèbres qu'après une longue résistance.

On cite, à l'appui du nom de brigands que l'on donne aux insurgés, le caractère fier des Calabrais, et, selon M. Ricasoli, enclin au pillage; et en même temps, par une bizarre contradiction , on dit que, dans les Calabres, le brigandage est moindre que partout ailleurs.

Il est pourtant bien avéré que les bandes des insurgés marchent partout sous le drapeau royaliste, avec la discipline militaire, qu'ils attaquent et se défendent militairement, et que dans les villes qu'ils occupent, leur premier soin est de briser l'écusson de Savoie, ainsi que les portraits de Victor-Emmanuel et de Garibaldi, et de les remplacer par les emblèmes et les images de leurs souverains légitimes; et là où ils s'arrêtent pour quelque temps, ils remplacent les autorités intruses par celles qu'ils étaient habitués à respecter.

Il est donc impossible de méconnaître le principe politique qu'avouent, et pour lequel se battent les insurgés de toutes les provinces napolitaines.

Les rapports de quelques agents anglais résidant dans le royaume, cités par le baron Ricasoli, n'ont aucune valeur; car, ne voulant pas tenir compte de l'esprit d'hostilité avec lequel ils sont rédigés, nous devons faire observer que leur date est trop ancienne pour pouvoir servir dans les circonstances présentes ; et ils ont dernièrement reçu un démenti formel pour une série de lettres et correspondances anglaises , et surtout par la lettre d'un autre anglais fort connu depuis longtemps à Naples, M. Craven, publiée par les journaux français.

Il n'est donc plus douteux que cette manifestation n'est pas une de ces réunions isolées et peu nombreuses de bandits qui ont infesté telle ou telle autre partie boisée de quelque province, et qui ont toujours été pour le Gouvernement du roi l'objet des mesures les plus énergiques et les plus salutaires; mais c'est bien une insurrection générale pour la manifestation d'un principe d'ordre; c'est une résistance active contre l'invasion, qui, par le sentiment national, entraîne le paysan comme le bourgeois , l'homme qui vit de son travail aussi bien que le propriétaire; et, à ce propos, il n'est pas inutile de faire remarquer que les réactions des années 1799 et 1806 eurent le même levier, c'est-à-dire la haine que le peuple des Deux-Siciles a constamment nourrie pour n'importe quelle domination étrangère.

Les rangs de l'insurrection se sont grossis par la dissolution de cette armée, que la trahison, et non le manque de courage, rendit impuissante contre les attaques de la révolution; cette armée rappelle au Piémont que, mieux commandée, elle avait déjà triomphé des légions garibaldiennes, et que la révolution en aurait été à son dernier jour si les bataillons d'un roi qui s'était toujours dit ami n'avaient traîtreusement volé à son secours; cette même armée, sur les bords du Garigliano, a vu fuir devant elle les soi-disant héros de Castelfidardo; et peut-être la résistance aurait-elle eu un autre résultat si le départ subit et inattendu de la flotte française, laissant dégarnie la droite du Garigliano, n'eût pas permis aux vaisseaux piémontais de tirer en toute sûreté sur le flanc non défendu.

C'est cette même armée qui, doublement assiégée dans une place dont les batteries ne correspondaient pas à la portée de celles des assiégéants, se défendit si bien, qu'elle força l'admiration des ennemis eux-mêmes.

Voilà ceux que M. Ricasoli accuse de lâcheté en face de ces gardes nationaux que le Piémont essaye en vain de pousser devant ses troupes pour combattre l'insurrection.

C'est bien pourtant des généraux et des officiers de cette armée que le Piémont a accueillis, qu'il a placés dans des positions élevées et comblés de dignités et d'honneurs.

La seule différence est que ces derniers sont précisément ceux qui ont mérité l'accusation de lâcheté lancée par M. Ricasoli, n'ayant pas voulu s'exposer aux dangers de la guerre, ayant abandonné leur drapeau et trahi le serment qui est la religion du soldat.

Si l'armée napolitaine a combattu si longtemps et si glorieusement, en butte à toutes les séductions et les trahisons les plus noires, il faut en trouver la raison dans la noblesse de cette même éducation militaire; car le monde entier n'ignore pas par quelles infâmes manœuvres on a forcé une partie de ces soldats à se dissoudre, et le Piémont d'ailleurs ne s'en cache pas, puis qu'il nous montre tous les jours quels sont les individus de cette armée qu'il préfère et qu'il honore.

Les nombreux soldats qui se battent contre l'envahisseur ne manquent pas, comme M. Ricasoli le prétend, de chefs volontaires, et ils ne manqueraient pas plus de généraux napolitains, si les proconsuls piémontais, dans cette crainte, ne les avait arrêtés tous, à peu d'exceptions près, et envoyés à Gênes, à Alexandrie, à Fenestrelle, sans forme de procès, sans arrêt prononcé.

Cette mesure a frappé des généraux et officiers supérieurs, garantis par les conditions de Capoue, Gaète et Messine, et qui n'étaient pas de ceux que le Piémont aurait pu décorer de l'ordre de Saint-Maurice.

Il est toutefois superflu de démontrer l'existence de ce mouvement général du royaume contre l'usurpation accomplie sous le masque d'une prétendue unité et régénération politique, lorsqu'on voit les envahisseurs fusiller tous les jours et partout des centaines de combattants, lorsqu'on voit les prisons de l'État regorger de citoyens, et le Gouvernement obligé, faute de localités, de changer en succursales de prisons les châteaux-forts, les couvents et souvent jusqu'aux cimetières, pour y entasser ses victimes, choisies dans toutes les classes de la société, lorsqu'on voit l'aristocratie, le bourgeois et souvent même l'artisan abandonner volontairement le foyer domestique, et fixer la demeure de leurs familles sur une terre étrangère.

Que M. Ricasoli veuille bien se rappeler le commerce éteint, les manufactures abandonnées, l'agriculture languissante, le gaspillage du trésor anéanti en peu de mois par les Verrès et les Pisons envoyés comme proconsuls du Piémont, les arsenaux militaires jadis si bien fournis, vides aujourd'hui, les fabriques d'armes détruites, les palais royaux tout à fait dépouillés, les nombreux employés civils et magistrats honorables destitués ou envoyés de force dans l'Italie du Nord , toutes les nouvelles impositions décrétées, ou en projet, les incendies, la désolation et la mort, et il saura alors quelles sont les causes qui forcent les Napolitains à s'armer et à combattre.

C'est une bien sanglante dérision que celle de la circulaire piémontaise, lorsqu'elle parle des bienfaits de la liberté et de la grandeur dont cette partie méridionale de l'Italie peut maintenant être fière!

M. Ricasoli fait semblant d'ignorer jusqu'à la topographie des provinces napolitaines; et voulant restreindre à quelques provinces l'insurrection , qui est générale, il déclare qu'elle n'existe que dans celles qui sont aux frontières romaines.

En même temps il dit que, dans les Abruzzes, le brigandage est moindre; de sorte que, pour M. Ricasoli, les Abruzzes ont cessé de se trouver aux frontières des États du Saint-Père. Et pourtant ces provinces ont été les premières à opposer de la résistance à l'envahisseur.

C'est là qu'ont paru les premières bandes armées qui ont forcé les généraux piémontais à capituler; et si elles se sont dissoutes par la suite, ce n'a été que sur les ordres plusieurs fois répétés de leur roi, au sortir de Gaëte.

Que M. Ricasoli laisse une fois tomber entièrement son masque et qu'il somme l'Europe catholique de lui céder le siége de la papauté pour fonder à sa place un nouveau prosélytisme, qui, par la dissolution sociale, nous conduirait à l'anéantissement des traditions du catholicisme; mais qu'il ne vienne pas nous parler de dépôts d'armes cachés à Rome, de conspiration , d'enrôlements et d'envois secrets de renforts aux insurgés napolitains.

Le territoire romain n'est pas assez peuplé pour jamais y faire des levées : ce sont, au contraire, les paysans des Abruzzes qui viennent pendant l'hiver habiter ces contrées.

Plusieurs fois la surveillance française a voulu s'assurer s'il n'y avait pas près des frontières quelques agents enrôleurs; et le résultat de ces investigations, y compris les enquêtes à l'occasion des dernières arrestations, dont M. Ricasoli fait tant de bruit, a donné la certitude que les personnes qui fréquentaient ces contrées ne faisaient que vaquer à leurs affaires industrielles, d'où leur immédiat élargissement; et nous n'hésitons pas à en appeler aux mêmes troupes françaises pour témoigner de la loyauté de la conduite du gouvernement du Saint-Père et de S. M. le Roi.

François II doit trop de reconnaissance au Père des fidèles pour qu'il puisse vouloir ajouter à toutes les amertumes qui troublent sa tranquillité.

Ce fut à son arrivée à Rome, après la chute de Gaëte, que S. M. le Roi donna des ordres pour la reddition des places de Civitella del Tronto et de Messine, et pour la dissolution des bandes armées.

Le Roi prit la force de donner ces ordres dans le même puissant amour pour son peuple qui, neuf mois auparavant lui fit arrêter les bras de ses soldats dans la capitale de la Sicile, et évacuer Palerme au moment où les hordes garibaldiennes étaient près de succomber à la Fieraventica, et qui, trois mois plus tard, lui conseilla de quitter Naples sans coup férir, non pour la céder à l'ennemi, mais pour lui épargner les terribles conséquences de la guerre, qu'il allait faire ailleurs.

S'il eut voulu pousser son peuple à une lutte désespérée, lorsque Gaëte résistait encore glorieusement, il l'aurait fait, et aurait ainsi placé l'envahisseur dans la dure alternative, ou de continuer lu siège, et de perdre le royaume derrière lui, ou de courir sus aux insurgés, de débloquer la place, et de laisser ainsi le champ libre aux attaques d'une nombreuse garnison.

Le roi des Deux-Siciles est fier pourtant de la manifestation unanime et spontanée de son peuple; et il comprend son devoir de le protéger et de le garantir, dès qu'il en aura le pouvoir, tout autant qu'il tient au droit qui lui vient, à lui, comme à sa dynastie, de la légitime succession, et de la volonté si généralement unanime de son peuple, et bien autrement exprimée que celle de ce plébiscite mensonger qui suivit mais ne précéda pas l'invasion piémontaise, dont l'Europe connaît à l'heure qu'il est les indignes manoeuvres.

C'est pourquoi il est toujours décidé d'accourir dès qu'il le croira nécessaire et de la manière qu'il jugera convenable; c'est pour lui un devoir et un droit; mais jamais il n'est entré dans sa pensée de faire d'une terre hospitalière la base de ses opérations militaires.

Il a, au contraire, attaché la plus grande importance à ne pas donner la moindre prise à ce soupçon. Si pourtant S. M. le Roi a voulu, par sa conduite, garantir le Saint-Siège, il ne faut pas croire qu'il soit peu soucieux de ses devoirs envers son peuple, et il n'attend que le moment favorable pour les remplir.

Si les inspirations partaient de Rome, comme M. Ricasoli le prétend, il faudrait croire que ni les généraux, ni les moyens, ni les plans ne manqueraient aux insurgés, tandis que s'étant spontanément armés, ils n'ont que des chefs volontaires; ils se munissent d'armes en les arrachant aux gardes nationaux; et dans leurs luttes désespérées on ne voit pas le moindre plan préconçu.

M. Ricasoli tombe dans une flagrante contradiction; il dit que les insurgés sont des bandits altérés de sang et de pillage, et quelques lignes pins bas il affirme qu'ils dépendent de Rome et sont dirigés dans un but politique.

De deux choses l'une : ou ce sont des hommes se battant dans un but politique, et alors ils sont mus par l'amour de la patrie et de leur roi, dont ils lèvent le drapeau; ou bien ce sont des bandits, et alors ils ne pourraient ni ne voudraient certainement pas dépendre de Rome.

Par rapport au caractère de férocité que M. Ricasoli attribue à l'insurrection, il ne fait par là que rejeter sur les bandes nationales les atrocités commises par les Piémontais; car il est clairement prouvé que, partout où l'insurrection s'est manifestée, elle n'a fait que désarmer les gardes nationaux, et qu'il n'y a eu à déplorer d'autres malheurs que ceux qui sont les conséquences naturelles des combats.

Il eet également constaté qu'elle a < généreusement renvoyé » les prisonniers piémontais, pendant que ceux-ci, en revanche, ont poussé l'inhumanité jusqu'à immoler tous ceux qui tombaient entre leurs mains avec un cruel raffinement de barbarie, à fusiller sur un simple soupçon des malheureux inoffensifs arrachés à leurs familles et à leurs champs.

L'Europe a dû frémir au récit de la destruction de villes entières, comme Auletta et Montefalcione ; et les ruines de Pontelandolfo, San Marco, Casalduni, Rignano, Viesti, Spinelli et autres sont encore fumantes, là où les Piémontais ont fait périr femmes, enfants, vieillards et malades, et commis des actes de brutalité que la pudeur nous défend de mentionner.

Il est aussi bien étrange que ce ministre ose parler des entraves dont souffre l'action du gouvernement à cause de la garantie des libertés constitutionnelles, pendant que la presse, même la plusrévolutionnaire, nous dénonce tous les jours et à chaque page les exécutions sans procès, les arrestations arbitraires; les domiciles violés et les assassinats politiques commis en plein jour et sur la voie publique ; pendant qu'on nous donne toujours de nouveaux exemples de suppression de journaux qui élèvent quelquefois la voix contre cette série de violences, d'abus ; et même on fait tout briser et détruire dans les imprimeries des journaux les plus indépendants, dont le crime est souvent d'avoir donné un autre nom que celui de brigandage à l'insurrection napolitaine.
Les rédacteurs et les gérants sont jetés en prison avant d'être jugés et sans aucun avertissement préalable.

Ce honteux étalage de la camorra n'est dû qu'au gouvernement révolutionnaire, qui l'a groupée autour de lui comme ses sicaires : la camorra est composée du rebut des galères que le gouvernement du Roi tenait séparé des autres dans les prisons, et dont la Révolution à fait une institution nationale.

Il n'est pas superflu de rappeler que, dans l'année 1859, lorsque le gouvernement de Sa Majesté déporta sur uneîle quelques-uns de ces camorristi, qui, ayant expié leur peine, parurent dans la ville, la presse révolutionnaire jeta les hauts cris contre cette violation de la liberté individuelle et gratifia les camorristi du nom de libéraux.

L'Europe n'a jamais entendu parler de ceux-ci comme séides du gouvernement qu'après la révolution.

Ce sont eux qui plongent la capitale dans la terreur, ce sont eux qui arrêtent, qui brisent les presses, qui attaquent, blessent et tuent, sûrs de leur impunité.

Une époque pareille de destruction, de ruines et de meurtres, a-telle jamais existé sous le gouvernement des Bourbons?

Peut-on compter dans le dernier demi-siècle un nombre d'exécutions capitales qui s'approche de celui des fusillés dans un seul jour par les Piémontais ?

Les temps d'Attila pâlissent en comparaison de ceux du Piémont, La force brutale de la conquête la plus inqualifiable veut soumettre la force de l'intelligence d'un peuple qui soutient sa dignité, qui secoue le joug de la tyrannie apportée sous le masque de liberté, et développée par la suite avec la férocité de l'assassin.

Le peuple des Deux-Siciles, riche de toutes les ressources sociales, fier de ces génies qui furent l'orgueil de l'Italie, un peuple fort d'environ dix millions d'âmes, possédant des villes remarquables et puissantes, ne pouvait pas, ne peut et ne pourra jamais devenir province du Piémont, dépourvu de tout ce qui constitue la grandeur des nations.

Le peuple des Deux-Siciles combat donc spontanément, et sans aucune impulsion jusqu'à présent, pour revendiquer son ancienne grandeur : il réclame le retour de cette splendeur imprimée sur son front par l'immortel Charles III, qui le tira de son état de province; il demande le respect et la conservation de la religion de ses pères dans toute sa pureté, que l'intrigue, la lâcheté et la trahison ont voulu lui arracher.

ARCHIVES DIPLOMATIQUES
VOL. 4 - 1861
PAG. 135-141

Memorandum di Francesco II, in risposta alla Circolare di M. Ricasoli, 7 settembre 1861.

Il barone Ricasoli ha appena inviato una notizia circolare, datata del 24 agosto, ai rappresentanti del re Victor-Emanuele all'estero; e, questa volta, per camminare diritto alla conquista della capitale del mondo cattolico che è il suo sogno caro, snatura gli avvenimenti che arrivano dall'Italia meridionale tutti i giorni; denuncia Roma come il focolare delle disgrazie di cui le città napoletane, poc'anzi così fiorenti, offrono il desolante spettacolo.

Se l'Europa ha assistito impassibile all'occupazione piemontese, non può tuttavia non avere apprezzato da se stessa, e per il mezzo di corrispondenze esatte ed imparziali, lo stato penoso delle persone e degli interessi del Reame delle Due Sicilie.

L'imperturbabilità di cui fa prova M. il ministro ci costringe di alzare altamente la voce contro questo vergognoso tessuto di menzogne.

La levata di scudi del popolo delle Due Sicilie contro gli oppressori piemontesi, che i rivoluzionari amano chiamare col nome di brigantaggio, è talmente vasta ed unanime, che non c’è più una città od una borgata nel Regno che non si sia associata a sostenere il principio di autonomia e portare la ristorazione della vecchia dinastia di cui si ricordano il governo paterno.



Nella circolare, si fa già ricorso a questa denominazione consumata di briganti di cui il vero significato è quella di "ladri di grande strada", e si stabilisce la somiglianza dell'insurrezione napoletana con quella dello sbuccio!, della Vendea, e quella più recente ancora della Spagna; ma in Scozia era la guerra civile, e non la guerra contro lo straniero; era l'insurrezione di una parte del Gran Bretagna, mentre il Regno di Napoli tutto intero è in lotta contro le armi piemontesi.

La Vandea e la Biscaglia lottavano anche da soli, ed i governi dell'epoca davano a quelli che combattevano nella Vendea ed in Spagna lo stesso nome di briganti che il Piemonte elargisce ai Napoletani che si battono per la loro indipendenza; e se non c'è ancora Charette et de Cabrera, bisogna ricordarsi che i nomi di questi eroi diventarono celebri solamente dopo una lunga resistenza.

Si cita, a sostegno del nome di briganti che si dà agli insorti, il carattere fiero dei calabresi, e, secondo M. Ricasoli, incline al saccheggio; ed allo stesso tempo, per una bizzarra contraddizione, si dice che, nelle Calabrie, il brigantaggio è inferiore che dovunque altrove.

Tuttavia è evidente che le bande degli insorti marciano sotto la bandiera realista, con la disciplina militare, dovunque attaccano e si difendono militarmente, e che nelle città che occupano, la loro prima cura è di rompere lo scudo della Savoia, così come i ritratti di Victor-Emanuele e di Garibaldi, e di sostituirli con gli emblemi e le immagini dei loro sovrani legittimi; e là dove si fermano per qualche tempo, sostituiscono le autorità intruse con quelle che erano abituati a rispettare.


È dunque impossibile ignorare il principio politico che si evidenzia, e perchè si battono gli insorti di tutte le province napoletane.


I rapporti di alcuni agenti inglesi che risiedono nel regno, citati dal barone Ricasoli, non hanno nessuno valore; perché, non volendo tenere conto dello spirito di ostilità con il quale sono redatti, dobbiamo fare osservare che la loro data è troppo vecchia per potere servire nelle circostanze presenti; ed essi hanno ricevuto ultimamente una smentita formale per una serie di lettere e corrispondenze inglesi, e soprattutto per la lettera di un alto inglese da tempo molto conosciuto a Napoli, M. Craven, pubblicato dai giornali francesi.

Non c'è più dubbio di questa manifestazione dunque, non è una di quelle riunioni isolate e poco numerose di banditi che hanno infestato questa o quella zona boscosa di qualche provincia, e che sono sempre stati per il Governo del re l'oggetto delle misure più energiche e più salutari; ma sono sicuramente un'insurrezione generale per la manifestazione di un principio di ordine; è una resistenza attiva contro l'invasione che, per il sentimento nazionale, trascina il contadino come il borghese, l'uomo che vive bene quanto il proprietario del suo lavoro; e, a questo proposito, non è inutile fare notare che le reazioni degli anni 1799 e 1806 ebbero la stessa leva, quanto e odioso dire che il popolo delle Due Sicilie è costantemente alimentato ad ogni dominio straniero.

I ranghi dell'insurrezione si sono ingrossate dallo scioglimento di questo esercito (napoletano), che il tradimento, e non la mancanza di coraggio, rese impotente contro gli attacchi della rivoluzione; questo esercito ricorda al piemonte che, comandato meglio, aveva superato già le legioni garibaldine, e che per la rivoluzione sarebbe stata la sua ultima giornata, se i battaglioni di un re che si era sempre detto a tradimento amico non fossero andate in soccorso (ai garibaldini); questo stesso esercito, sui bordi del Garigliano, ha visto fuggire davanti a lui i sedicenti eroi di Castelfidardo; e forse la resistenza avrebbe avuto un altro risultato se la partenza improvvisa ed inattesa della flotta francese, lasciando sguarnita la destra del Garigliano, non avesse permesso ai vascelli piemontesi di tirare con sicurezza sul fianco indifeso.
È questo stesso esercito che, assediato doppiamente in un posto in cui le batterie non corrispondevano alla portata di queste degli assedianti, si difese così bene, che costrinse l'ammirazione dei loro stessi nemici.

Ecco quelli che M. Ricasoli accusa di vigliaccheria di fronte a queste guardie nazionali che il Piemonte ha cercato invano a spingere davanti alle sue truppe per combattere l'insurrezione.

Eppure i generali e gli ufficiali di quell'esercito che il piemonte ha ricevuto, egli ha posto in posizioni alte e piene di dignità e onore.


L'unica differenza è che questi sono proprio quelli che meritano l'accusa di vigliaccheria lanciata dal signor Ricasoli, non avendo voluto esporsisi ai pericoli della guerra, avendo abbandonato la loro bandiera e tradito il giuramento che è la religione del soldato.

Se l’armata napoletana ha combattuto così molto tempo e così gloriosamente, esposti a tutte le seduzioni ed i tradimenti più neri, ne bisogna trovare la ragione nella nobiltà di questa stessa educazione militare; perché il mondo intero non ignora con quali infami manovre si è costretto una parte di questi soldati a sciogliersi, ed il pemonte non ne nasconde del resto, poi ci mostra che tutti i giorni sono gli individui di questo esercito che preferisce e che onora.


I numerosi soldati che si battono contro l'invasore non mancano, come M. Ricasoli lo pretende, di capi volontari, e non mancherebbero non più di generali napoletani, se i proconsoli piemontesi, in questo timore, non li avevano fermati tutti, a poche eccezioni vicino, ed inviati a Genova, ad Alessandria, a Fenestrelle, senza forma di processo, senza arresto pronunziato.

Questa misura ha colpito dei generali ed ufficiali superiori, garantiti dalle condizioni di Capua, Gaeta e Messina, e che non erano di quelli che il piemonte avrebbe potuto decorare dell'ordine di Santo-Maurice.

È tuttavia superfluo dimostrare l'esistenza di questo movimento generale del regno contro l'usurpazione compiuta sotto la maschera di una pretesa unità e rigenerazione politica, quando si vede gli invasori fucilare tutti i giorni delle centinaia di combattenti dovunque, quando si vede che le prigioni dello stato traboccare di cittadini, ed il governo (piemontese) obbligato, per mancanza di località, di cambiare in succursali le prigioni i castello-forti, i conventi e spesso perfino i cimiteri, per ammucchiare le sue vittime, prese in tutte le classi della società, quando si vede l'aristocrazia, il borghese e spesso anche l'artigiano abbandonare volontariamente il focolare domestico, e fissare la casa delle loro famiglie su una terra straniera.

Che M. Ricasoli ben voglia ricordare che il commercio langue, le manifatture abbandonate, l'agricoltura languisce, lo spreco del tesoro annientato in pochi mesi dai Verrès ed i Pisons mandati come proconsoli dal piemonte, gli arsenali militari un tempo molto forniti, oggi vuoti, le fabbriche di armi distrutte, i palazzi reali completamente spogli, i numerosi impiegati civili e onorabili magistrati destituiti o con la forza inviati nell'Italia del Nord, tutte le nuove imposizioni decretate, o in progetto, gli incendi, la desolazione e la morte, ed egli saprà allora quale sono le cause che costringono i Napoletani ad armarsi ed a combattere.


È una beffa molto sanguinosa che la circolare piemontese, quando si parla dei benefici della libertà e della grandezza di cui questa parte meridionale dell'Italia può essere ora fiera!


M. Ricasoli finge di ignorare la topografia delle province napoletane; e volendo restringere ad alcune province l'insurrezione che è generale, dichiara che esiste solamente in quelle vicine alle frontiere romane.


Allo stesso tempo dice che, negli Abruzzi, il brigantaggio è inferiore; così che, per M. Ricasoli, gli Abruzzi hanno smesso di trovarsi alle frontiere degli Stati del Santo Padre.
E tuttavia queste province sono state le prime ad opporre resistenza all'invasore.

È là sembrava che le prime bande armate che hanno costretto i generali piemontesi a capitolare; e se si sono sciolte in seguito, lo sono state solamente per gli ordini, parecchie volte ripetuti, dal loro Re, a portarlo fuori di Gaeta.


Che M. Ricasoli lascia una volta cadere interamente la sua maschera e che la somma Europa cattolica di cedere la sede del papato per fondare al suo posto un nuovo proselitismo che, per lo scioglimento sociale, ci condurrebbe all'annientamento delle tradizioni del cattolicesimo; ma che non venga a parlarci di depositi di armi nascoste a Roma, di cospirazione, di arruolamenti e di invii segreti di rinforzi agli insorti napoletani.


Il territorio romano non è popolato mai abbastanza per fare arruolamenti: sono invece i contadini degli Abruzzi che vengono durante l'inverno ad abitare queste contrade.

Parecchie volte la sorveglianza francese ha voluto assicurarsi se non c'erano vicino alle frontiere alcuni agenti che arruolassero (enrôleurs); ed il risultato di queste investigazioni, ivi compreso le inchieste in occasione degli ultimi arresti di cui M. Ricasoli fa tanto rumore, ha dato la certezza che le persone che frequentavano queste contrade badavano solamente ai loro affari industriali, e quindi la scarcerazione immediata; e noi non esitiamo a chiamare alle stesse truppe francesi a dimostrare lealtà di condotta del governo del Santo Padre e di S. M. il Re.

Francesco II deve troppa riconoscenza al Padre dei fedeli affinché possa volere aggiungere a tutte le amarezze anche quelle che turbano la sua tranquillità.

Era al suo arrivo a Roma, dopo la caduta di Gaeta che S. M. il Re diede degli ordini per la resa dei posti di Civitella del Tronto e di Messina, e per lo scioglimento delle bande armate .



Il Re prese la forza di dare questi ordini nello stesso amore potente per il suo popolo che, nove mesi prima fece fermare le braccia dei suoi soldati nella capitale della Sicilia, ed evacuare Palermo nel momento in cui lei orde garibaldine erano vicino a perire alla Fieraventica, e che, tre mesi più tardi, egli consigliava di lasciare Napoli senza colpo ferire, non per cederla al nemico, ma per risparmiare egli le terribili conseguenze della guerra, che andava a fare altrove.


Se avesse voluto spingere il suo popolo ad una lotta disperata, quando Gaeta resisteva ancora gloriosamente, l'avrebbe fatto, ed avrebbe posto così l'invasore nella dura alternativa, o di continuare l’assedio, e la perdita del regno dietro lui, o di incorrere negli insorti, di sbloccare il posto, e di lasciare così il campo libero agli attacchi di una numerosa guarnigione.


Il re delle Due Sicilie è orgoglioso tuttavia della manifestazione unanime e spontanea del suo popolo; ed egli comprende il suo dovere di proteggerlo e di garantirlo, appena ne avrà il potere, ogni volta che egli avrà il diritto che gli viene, a lui, come alla sua dinastia, dalla legittima successione, e dalla volontà così generalmente unanime del suo popolo, ed espressa molto diversamente che quella di questo plebiscito menzognero che avviene subito dopo l'invasione piemontese di cui ora l'Europa conosce le vergognose manovre.

Di conseguenza è ancora deciso di accorrere appena lo crederà necessario e del modo che giudicherà adatto; è per lui un dovere ed un diritto; ma mai non è entrato nel suo pensiero di fare di una terra accogliente la base delle sue operazioni militari.

Ha dato, al contrario, la massima importanza a non dare l'inferiore prende a questo sospetto.
Se tuttavia S. M. il Re ha voluto, per la sua condotta, garantire la Santa Sede, non bisogna credere che sia poco preoccupato dei suoi doveri verso il suo popolo, ed egli aspetta solamente il momento favorevole per adempirli.

Se le ispirazioni partissero da Roma, come M. Ricasoli lo pretende, bisognerebbe credere che né i generali, né i mezzi, né i piani non mancherebbero agli insorti, mentre essendo armato spontaneamente si hanno solamente dei capi volontari; essi si muniscono di armi strappandoli alle guardie nazionali; e nelle loro lotte disperate non si vede l'inferiore piano preconcetto.

M. Ricasoli cade in una flagrante contraddizione; dice che gli insorti sono dei banditi assetati di sangue e di saccheggio, ed alcune righe sotto afferma che dipendono da Roma e sono diretti per motivi politici.

Delle due cose una: o sono degli uomini che si battono per motivi politici, ed allora sono mossi per l'amore della patria e del loro re da cui sollevano la bandiera; o sono dei banditi, ed allora non potrebbero né non vorrebbero certamente dipendere da Roma.

Rispetto al carattere di ferocia che M. Ricasoli attribuisce all'insurrezione, non ci fa da che rigettare sulle guardie nazionali le atrocità commesse dai piemontesi; perché è provato chiaramente che, dovunque dove l'insurrezione si è manifestata, ha fatto disarmare solamente le guardie nazionali, e che non ha avuto da deplorare altre disgrazie quelle che sono le naturali conseguenze dei combattimenti.

Egli ha anche constatato che ha < rinviato generosamente> i prigionieri piemontesi, mentre questi, in compenso, hanno spinto l'inumanità fino ad immolare tutti quelli che cadevano tra le loro mani con una crudele raffinatezza di barbarie, a fucilare su un semplice sospetto degli infelici innocui strappati alle loro famiglie ed ai loro campi.

L'Europa è dovuta rabbrividire al racconto della distruzione di città intere, come Auletta e Montefalcione; e le rovine di Pontelandolfo, San Marco, Casalduni, Rignano, Viesti, Spinelli ed altri sono ancora fumanti, là dove i piemontesi hanno fatto perire donne, bambini, vecchi e malati, e commesso degli atti di brutalità che il pudore ci proibisce menzionare.


È anche strano che questo ministro osa parlare delle pastoie di cui soffre l'azione del governo a causa della garanzia delle libertà costituzionali, mentre la stampa, anche quella più rivoluzionaria, denuncia tutti i giorni ed ad ogni pagina le esecuzioni senza processo, gli arresti arbitrari; i domicili violati e gli assassini politici commessi in pieno giorno e sulla via pubblica; mentre ci si dà sempre dei nuovi esempi di soppressione di giornali che alzano talvolta la voce contro questa serie di violenze, di abuso; e stesso si fa di tutto per rompere e distruggere nelle tipografie dei giornali più indipendenti di cui il crimine è spesso di avere dato un altro nome che quello di brigantaggio all'insurrezione napoletana.

I redattori ed i gestori sono gettati in prigione prima di essere giudicati e senza nessuno avvertimento preliminare.


Questa mostra vergognosa della camorra è dovuta solamente al governo rivoluzionario che l'ha raggruppata intorno a lui come i suoi sicari: la camorra è composta del rifiuto delle galere che il governo del Re teneva separato degli altri nelle prigioni, e di cui la Rivoluzione ha fatto un'istituzione nazionale.

Non è superfluo ricordare che, nell'anno 1859, quando il governo di Sua Maestà deportò su un'isola alcuni di questi camorristi che, avendo espiato la loro pena, apparvero sulla città, la stampa rivoluzionaria gettò le alte grida contro questa violazione della libertà individuale e gratificò i camorristi del nome di liberali. (che dire di più)

L'Europa non ha sentito parlare mai di questi come leccapiedi del governo solo dopo la rivoluzione.

Questi sono coloro che ammorbano la capitale col terrore, sono loro che decidono a chi rompere le stampe attaccano, feriscono ed uccidono, sicuri della loro impunità.

Un'epoca simile di distruzione, di rovine e di omicidi, non è mai esistito sotto il governo dei Borbone?

Possiamo contare nell'ultimo mezzo-secolo un numero di esecuzioni capitali che si avvicina a quello dei fucilati in un solo giorno dai piemontesi?

I tempi di Attila impallidiscono in paragone a quelli del Piemonte, La forza brutale della conquista più inqualificabile vuole sottomettere la forza dell'intelligenza di un popolo che sostiene la sua dignità che scuote il giogo della tirannide portata sotto la maschera di libertà, ed è evoluta in seguito con la ferocia dell'assassino.

Il popolo delle Due Sicilie, ricco di tutte le risorse sociali, fiero di quei geni che furono l'orgoglio dell'Italia, un popolo forte di circa dieci milioni di anime, che possiede delle città straordinarie e potenti, non poteva, non può e non potrà diventare mai provincia del piemonte, privo di tutto ciò che costituisce la grandezza delle nazioni.

Il popolo delle Due Sicilie combatte dunque spontaneamente, e senza nessuno impulso esterno finora, per rivendicare la sua antica grandezza: chiede il ritorno di quel splendore stampato sulla sua fronte dell'immortale Carlo III che lo trasse dal suo stato di provincia; chiede il rispetto e la conservazione della religione dei suoi padri in tutta la sua purezza, che l'intrigo, la vigliaccheria ed il tradimento hanno voluto strappargli.