lunedì 5 ottobre 2015

GLI STATI DEVONO CONSERVARE IL TIPO DELLA FAMIGLIA (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)

 
 
Friedrich Carl von Savigny
La famiglia non è solamente il primo elemento di ogni Stato, essa ne è l'elemento costitutivo,

talmente che la società regolare, quale esiste, finché non si è opposta alle leggi della natura, come

l'ha fatto la nostra Francia mediante la Rivoluzione, si compone non d'individui, ma di famiglie.

Oggi, gli individui soli sono considerati, lo Stato non riconosce che cittadini dispersi; ciò è contrario

all'ordine naturale. Come molto bene disse Savigny: "Lo Stato una volta formato ha per elementi

costitutivi le famiglie, non gl'individui". Un tempo era così, e quello che lo dimostra in modo assai

sensibile era che l'enumerazione della popolazione si contava sempre, non dalle persone, ma dai

fuochi, cioè dai focolari; ogni focolare era riputato centro d'una famiglia, ed ogni famiglia era nello

Stato un'unità politica e giuridica come economica.

M. Buisson diceva recentemente alla Camera: "Il dovere della Rivoluzione è di emancipare
l'individuo, la persona umana, cellula elementare organica della società". È questo, infatti, il


compito che la Rivoluzione si è imposto, ma questo compito non si riduce a niente meno che a

disorganizzare la società ed a dissolverla. L'individuo non è che un elemento della cellula organica

della società. Questa cellula è la famiglia; separarne gli elementi, far dell'individualismo è un

distruggerne la vita, un renderla impotente a compiere il suo ufficio nella costituzione dell'essere

sociale, come farebbe nell'essere vivente la dissociazione degli elementi della cellula vegetale ed

animale.
Questo era sì bene compreso a Roma, che lo Stato primitivo romano non conosceva che le gentes, e


che per avere una situazione legale, bisognava essere membro di una di queste corporazioni. "Il

figlio di famiglia emancipato, - dice Hach - lo schiavo redento, lo straniero venuto a Roma per

cercarvi asilo, doveano sottomettersi ad un capo di famiglia".

Parimenti in Francia, nell'alto medio evo: "Nessun posto per l'uomo isolato - dice il medesimo

autore. - Se una famiglia vien a decadere, od a dissolversi, gli elementi che la compongono devono

aggregarsi ad un'altra. Non trovare un simile asilo, è la morte". Dunque la famiglia, nelle buone

epoche della storia dei popoli, è ciò che in mezzo a noi, per nostra sciagura, ha fatto la democrazia

diventare l'individuo: l'unità sociale.

Nel corpo sociale non meno che nel corpo vivente, per ripigliare il paragone di M. Buisson, le

cellule elementari, qui plastidi, là famiglie - non sono nella stessa condizione, nel medesimo rango,

sebbene egualmente uscite da una cellula primitiva. Vi sono le cellule prime, elementari, che danno

origine alle cellule del sangue ed alle cellule dei tessuti. Similmente nella società, le famiglie

quantunque partite da un medesimo punto, si trovano in ogni stato civile in condizioni diverse e

ripartite in tre classi: il popolo, la borghesia e la nobiltà. Per maggior chiarezza la borghesia compie

nella società l'ufficio del sangue nel corpo umano: essa esce dal popolo ed alimenta la nobiltà.

Contrariamente a ciò che dimanda la democrazia, dappertutto ove il progresso morale, intellettuale

e materiale germina e si sviluppa, le ineguaglianze si fanno strada, si accentuano, si fissano nelle

famiglie, ed a poco a poco costituiscono una gerarchia non di funzionarii, ma di case.

Noi ritroviamo qui le grandi leggi da Dio stabilite nella famiglia, nella prima società, perché

continuino a reggere tutte le società umane, qualunque sia lo sviluppo che esse prendano.

Louis de Bonald
"Vi sono - dice il signor de Bonald - leggi per le formiche e per le api. Come si è potuto pensare che

non ve ne siano per la società degli uomini, e ch'essa sia abbandonata al caso delle loro invenzioni?"

Rousseau ha pensato questo. Egli si studiò di formulare per gli Stati altre leggi fuori di quelle poste

dal Creatore; ed i democratici, suoi discepoli, sforzandosi, secondo le sue istruzioni, di stabilire gli

Stati nell'eguaglianza in opposizione alla gerarchia, nella libertà in opposizione all'autorità, e nella

reciproca indipendenza in opposizione all'unione, non possono che distruggerle, e distruggerle fin

dalla base.

Se i popoli sono costituiti di famiglie viventi, e se le leggi imposte da Dio alla famiglia devono

essere leggi di tutta la società, è mestieri che gli Stati riproducano in se stessi qualche cosa del tipo

primitivo. Tutti i sapienti sono d'accordo su questo punto. "I Greci ed i Romani - dice l'abate

Fleury(1) - sì rinomati per la saggezza di questo mondo, imparavano la politica governando le loro

famiglie. La famiglia è in piccolo l'immagine dello Stato. Si tratta sempre di unire gli uomini

viventi in società".
 
Jean Bodin
"La famiglia - dice Giovanni Bodin nel secondo capitolo del primo libro della sua opera - è un buon

governo di parecchi sudditi sotto l'obbedienza d'un capo di casa. La repubblica è un giusto governo

di parecchie famiglie e di ciò che è loro comune, con sovrano potere. È impossibile che la

repubblica valga qualche cosa, se le famiglie che ne sono i cardini son mal fondate".


Papa Leone XIII
Parimenti parla Leone XIII: "La famiglia è la culla della società civile, ed è nel recinto del focolare

domestico che si prepara in gran parte il destino degli Stati".(2) Ed altrove: "La società domestica

contiene e fortifica i principii e, per così dire, i migliori elementi della vita sociale; perciò è di là che

dipende in gran parte la condizione tranquilla e prospera delle nazioni".(3) Così, con ragione dice il

signor de Bonald: "Quando le leggi della società degli uomini sono dimenticate dalla società

politica, esse si ritrovano nella società domestica".

Nella nostra Francia, la società ha conservato fino alla Rivoluzione, il tipo della famiglia.

Nel secolo XVIII, il 17 febbraio 1774, il Parlamento di Provenza poteva ancora scrivere al re: "Ogni

comune fra noi è una famiglia che si governa da sé, che s'impone le sue leggi, che veglia a' suoi

interessi. L'ufficiale municipale ne è il padre".

Il signor de Ribbes, che ha studiato con tanta passione i comuni dell'antico regime, conchiude: "Le

località sono organizzate in famiglie, i registri municipali sono simili in tutto ai libri domestici; il

focolare ha i suoi riti, le località hanno i loro. L'idea della famiglia si manifesta nel massimo grado

nel sistema di amministrazione, essa è ancora più rimarchevole nelle solennità e nelle pubbliche

ricreazioni".

La monarchia stessa aveva conservato questo identico carattere. Il governo era essenzialmente

famigliare. La regina ed il primogenito del re erano strettamente associati all'esercizio del potere. Il

tesoro dello Stato era sotto la sorveglianza della regina e sotto il suo diretto controllo. Il procuratore,

che oggi si chiamerebbe il ministro delle finanze, era per questo fatto suo subordinato. Perciò, fino

ai nostri giorni, nella maggior parte delle nostre famiglie è la donna che tiene la chiave della casa.

La regina compariva nella conclusione dei trattati colle potenze estere.

I sei grandi ufficiali della corona che assistevano il re in tutti gli atti della sua potenza, ebbero in

origine, uffici domestici nettamente indicati dai titoli stessi della loro dignità. Il siniscalco, il

connestabile, il gran panettiere, il coppiere, il cameriere, il gran cancelliere, presero il loro nome dai

differenti servigi della casa del re, ed avvenne che il palazzo del re si trasformasse a poco a poco in

un seminario di uomini di Stato.(4)
Il signor Viollet nella sua Histoire des Constitutions de la France ha cosi definito il carattere della

nostra antica monarchia: "L'autorità dei re era press'a poco quella del padre di famiglia; perciò il

potere patriarcale ed il potere reale in origine hanno una stretta parentela". Ed altrove, ritornando

sulla stessa idea, dice ancora: "È manifesto che il re sostiene l'ufficio d'un capo di famiglia

patriarcale".

Come il padre di famiglia, il re era nel regno la sorgente di ogni giustizia. Egli ascoltava i querelanti

come un signore i suoi vassalli, come un padre i suoi figliuoli.


S. Luigi in un'antica incisione
Egli trattava i suoi sudditi con tutta famigliarità. "Tutti i giorni - dice Joinville, parlando di san

Luigi - egli dava da mangiare ad una gran quantità di poveri, nella sua camera, e molte volte io lo

vidi spezzar loro il pane e versar da bere". Sarebbe un errore il credere che questi atti fossero stati

particolarmente propri della generosa carità di san Luigi; Roberto il Pio, fra gli altri, operava

egualmente. Fu una tradizione dei nostri antichi re di mostrarsi ospitali e benefici sopratutto verso i

piccoli e gli umili.(5)

Nel secolo XIII, il re passeggiava a piedi per le vie di Parigi e ognuno lo accostava e gli parlava con

tutta confidenza. Il fiorentino Francesco Barberino manifesta la sua sorpresa di vedere Filippo il

Bello, - la cui potenza si fa sentire fino nell'estrema Italia - passeggiare così in Parigi e rendere con

semplicità il saluto alla buona gente che passa. Egli non tralascia di opporre questa bonarietà alla

boria dei signori fiorentini.

Carlo VII di Francia
Per testimonianza del cronista Chastellan, Carlo VII "impiegava il suo tempo a trattare con ogni

condizione d'uomini e parlava a tu per tu e in modo distinto con ognuno".

Gli ambasciatori veneziani del secolo XVI nei loro celebri dispacci constatano "che nessuna

persona è esclusa dalla presenza del re, e che la gente della classe più vile penetra arditamente a suo

bell'agio nella camera intima". Il re mangiava alla presenza de' suoi sudditi, in famiglia. Ognuno

durante il pasto poteva entrare nella sala. "Se vi è un carattere singolare in questa monarchia - scrive

lo stesso Luigi XIV - è l'accesso libero e facile de' sudditi al principe". Liberamente si entrava nel

palazzo di Versailles.

Luigi XIV di Francia
"Io andava al Louvre, - scrisse Locatello nel 1665 - io passeggiava con tutta libertà, e attraversando

i diversi corpi di guardia, io giunsi a questa porta che vi si apre appena la si tocca, e il più delle

volte dal re medesimo. Basta battere leggermente e subito vi s'introduce. Il re vuole che i sudditi

entrino liberamente".

Gli avvenimenti che riguardavano direttamente il re e la regina erano per la Francia intera

avvenimenti di famiglia. La casa del re era propriamente "la casa di Francia".
Le Lettres d'un voyageur anglais sur la France, la Suisse et l'Allemagne rendono la stessa


testimonianza. Ecco qualche riga della citazione che ne fa G. de Maistre in uno de' suoi opuscoli:

"L'amore e l'attaccamento de' Francesi per la persona del loro re, è una parte essenziale e
sorprendente del carattere nazionale ... La parola re nell'animo dei Francesi, risveglia ad un tempo


idee di beneficenza, di riconoscenza, d'amore come di potenza, di grandezza e di felicità ... I

Francesi accorrono in folla a Versailles, le domeniche e le feste, e riguardano il loro re con una

avidità sempre nuova, e lo vedono la ventesima volta collo stesso piacere che lo videro la prima.

Essi lo considerano come il loro amico, il loro protettore, il loro benefattore".

"Prima della Rivoluzione - dice ancora il generale Marmont - si aveva per la persona del re un

sentimento che difficilmente si definisce, un sentimento di devozione con un carattere quasi
religioso. La parola Re aveva allora un fascino ed una potenza che niente aveva alterato. Questo


amore diveniva una specie di culto".

"Ricordatevi di amare con tenerezza la sacra persona del nostro re - diceva nel 1681 a' suoi figliuoli
nel suo libro de Raison(6) un modesto abitante di Puy-Michel (Basse Alpi) - di essergli obbedienti,

sottomessi e pieni di rispetto per i suoi ordini". Simili raccomandazioni si trovano negli altri libri de

Maison pubblicati da Carlo de Ribbes, e le divise di famiglie signorili spesso esprimono gli stessi


sentimenti.

Essi non si manifestarono mai più fragorosi che nell'innalzamento al trono di Luigi XVI.
"Le grida di Viva il Re! che incominciavano alle sei del mattino non erano interrotte fino al


tramonto del sole. Quando nacque il Delfino, la gioia della Francia fu quella d'una famiglia. Era un

fermarsi sulle vie, un parlarsi senza conoscersi, un abbracciarsi di quelli che si conoscevano".

I medesimi sentimenti perseverarono fino in piena Rivoluzione. Maurice Talmeyer, nella sua
operetta La Franc-Maçonnerie et la Révolution francaise, ne fece l'osservazione:



"Per ben due anni, la Rivoluzione si fa al grido di: Viva il Re! Poi, gli stessi uomini e le donne di

ammutinamento, pagati per oltraggiare il sovrano, sono in grandissima parte signoreggiati, alla sua

presenza, dall'insuperabile amore per la loro dinastia, pel discendente de' suoi monarchi. Tutto il

loro riscaldamento, alla sua presenza, si converte, come nell'ottobre 1789, in rispetto e tenerezza".

Talmeyer riferisce altri fatti in conferma di ciò che asserisce e fa appello alla testimonianza di Louis

Blanc.

Egli avrebbe potuto invocare del pari quella di madama Roland. Testimonio di ciò che accadeva

sotto i suoi occhi, ella scriveva con grande afflizione: "Non si potrebbe credere quanto gli ufficiali e

i negozianti siano reazionari. Quanto al popolo, esso è stanco; crede tutto finito e ritorna a' suoi

lavori. Tutti i fogli democratici s'irritano degli evviva che accompagnano il re ogni volta che si

presenta in pubblico".

La è dunque vera l'osservazione di Frantz Funck-Brentano: "Niente è più difficile per uno spirito

moderno che raffigurarsi quello che era nella antica Francia la personalità reale ed i sentimenti,

onde i suoi sudditi le erano affezionati". Si diceva comunemente che il re era il padre dei propri

sudditi; queste parole rispondevano ad un sentimento reale e concreto dal lato del sovrano come dal

lato della nazione.

"Nominare il re "padre del popolo" - dice La Bruyere, che usa sempre tanta precisione in tutti i suoi

detti - è meno fare il suo elogio che la sua definizione", e il signor de Tocqueville: "La nazione

aveva pel re tutt'insieme la tenerezza che si ha per un padre e il rispetto che si deve a Dio".

"Questo regime (monarchico) - dice Augustin Thierry - la nazione non lo ha subito, ma essa lo ha

voluto risolutamente e con perseveranza. Non era fondato sulla forza, né sulla frode, ma accettato

dalla coscienza di tutti".(7)

Perciò non si può dire che la nazione abbia voluto liberarsene. Il gran numero di astensioni nelle

elezioni di tutto il periodo rivoluzionario in cui soltanto diecimila elettori votarono su centomila

iscritti, ben dimostra che la parte della nazione vera che voleva la sostituzione del regime

repubblicano al regime monarchico, era insignificante. Si sa d'altronde che la maggioranza non

aderì punto al voto che condannava Luigi XVI. Uno dei votanti non avea ancor venticinque anni, un

altro non era francese, cinque altri non erano validi o inscritti, infine sette deputati votarono due

volte, come deputati e come supplenti dei loro colleghi. Invece di un voto di maggioranza il

verdetto aveva una minoranza di tre voti.

Allo spirito famigliare della monarchia la Francia andò debitrice in grandissima parte della sua

prosperità. E questa prosperità fu tale che la Francia era, senza contestazione, la prima nazione

dell'Europa. Il grande oratore inglese Fox lo riconosceva, non senza amarezza, nella Camera dei

Comuni, allorché esclamava, nel 1787:

"Da Pietroburgo a Lisbona, fatta eccezione della Corte di Vienna, l'influenza della Francia

predomina su tutti i Gabinetti dell'Europa. Il Gabinetto di Versailles offre al mondo il paradosso più

incomprensibile: è il più stabile, il più costante e il più inflessibile che siavi in Europa. Da più

secoli, esso segue invariabilmente il medesimo sistema, e tuttavia la nazione francese passava come

la più leggera dell'Europa".

Egli è effettivamente che ogni società la quale conserva lo spirito di famiglia, perché resta

sottomessa alla legge di natura, prospera per così dire necessariamente. "Niente nella storia - dice

Frantz Funck-Brentano - ha mai infirmato questa legge generale: finché una nazione si governa

secondo i principii costitutivi della famiglia, essa è fiorente; dal giorno in cui si discosta da quelle

tradizioni che l'hanno creata, la rovina non è lontana. Ciò che fonda le nazioni serve anche a

conservarle".

 
Note:

(1) Opuscolo I, p. 292.
(2) Enciclica Sapientiae christianae.

(3) Enciclica Quod multum.


(4) Il siniscalco era l'ufficiale trinciante. In tempo di guerra, egli seguiva il suo padrone nelle

spedizioni, egli sorvegliava alla disposizione della tenda reale. In assenza del re, egli comandava gli

eserciti. Questi uffici divennero ereditari nelle case di Rochefort e di Guierlande; Luigi VI ne

diminuì il numero, Filippo Augusto li soppresse.
Il connestabile era il conte della scuderia comes stabuli. Quando Filippo Augusto fece sparire


l'ufficio di siniscalco, il connestabile divenne il capo dell'esercito, il re gli aggiunse due marescialli.

L'ufficio fu soppresso da Richelieu.

Il panettiere sorvegliava la cottura del pane. L'ufficio ebbe per titolare i più grandi nomi di Francia,

tra gli altri dei Montmorency.

Il coppiere avea l'amministrazione dei vigneti reali e ne amministrava le rendite. Egli ebbe
l'intendenza del tesoro reale e la presidenza della Camera dei conti (Chambre des comptes).


Cominciando dal secolo XII, questi uffici divennero ereditari nella casa della Tour. Essi furono

soppressi da Carlo VII.

Il cameriere dirigeva il servizio degli appartamenti privati. Egli divenne il tesoriere del regno, e in

questa qualità stava, come si è detto, agli ordini della regina. La carica fu soppressa nel 1445.

L'origine del gran cancelliere è religiosa insieme e domestica. I re merovingi conservavano fra le

loro reliquie la piccola cappa di S. Martino. Di là il nome di cappella dato al luogo in cui erano

custodite le reliquie dei re. Alle reliquie si aggiungevano gli archivi. Il capo dei cappellani fu il gran

cancelliere, che portava costantemente al collo il gran sigillo reale.


(5) Ecco ciò che Francesco I all'esordio del suo regno scriveva in capo all'ordinanza del 25

settembre 1523.

"Come piacque a Dio di chiamarci nel fior degl'anni a sostener l'ufficio d'uno de' suoi principali di

governo e d'amministrazione di questo splendido, nobile e degno regno di Francia, divinamente e
miracolosamente istituito per la direzione e protezione di tutti i suoi stati: specialmente per la

conservazione, splendore e difesa dello stato comune e popolare, che è il più debole, e perciò il più


facile ad esser calpestato, e naturalmente ha più bisogno d'ogni altro di buona salvaguardia e difesa,
e singolarmente il povero comune popolo di Francia, che sempre è stato dolce, umile e grazioso in

ogni cosa, ed ossequente al suo principe e signor naturale, che ha sempre riconosciuto, avendo

servito ed obbedito, senza cambiare né variare, né volere ammettere, soffrire né ricevere dominio

da altro principe. Talmente che fra i re di Francia ed i loro sudditi vi è sempre stata la più grande

conglutinazione, legame e congiunzione di vero amore, sincera devozione, cordiale concordia, e

intima affezione come in qualunque altra monarchia e nazione cristiana.

"Il qual amore, devozione e concordia ben conservati fra re e sudditi sotto il timore e l'amore di Dio

(il quale è stato servito devotamente in Francia) ha reso il reame fiorente, trionfante, temuto,

paventato e stimato in tutta la terra..

"Ora il vero mezzo per cui i re possono e devono perpetuare ed aumentare questo amore consiste

nella giustizia e nella pace: nella giustizia facendola rendere e amministrare pura, buona, eguale, e

sollecita senza alcun riguardo a persona e senza alcun sospetto di avarizia verso i nostri sudditi:

nella pace fuori e dentro il nostro regno: e sopratutto nella pace interna facendo vivere il buon

suddito sotto l'egida e protezione del suo re, in buona sicura ed amorosa pace mangiare il suo pane,

e vivere tranquillo nella sua proprietà, senza essere vessato, né tormentato senza ragione, che è la

più gran felicità, contentamento e tesoro che un re possa procacciare al suo popolo ...".
(6) Libro dei conti di famiglia. (Nota del Traduttore).

(7) A. Tierry, Essai sur la formation du Tiers-Etat, p. 89.