domenica 16 ottobre 2011

Monarchia tradizionale parte 1:Il menendezpelaismo politico




"Noli foras ire; in interiore Hispaniae habitat veritas" (1)
- Angel Ganivet

Attualità del menendezpelaismo
Quando la serenità permetterà di stabilire nella reale prospettiva la Spagna di questi ultimi vent'anni (2), quella Spagna che ha sofferto e goduto negli uomini della mia generazione la speranza e la disillusione, Rafael Calvo Serer verrà considerato come il trasmettitore di una litania di verità intessute nella lettura degli scritti di Marcelino Menéndez y Pelayo. Termino ora di rileggere la sua magnifica replica a Antonio Tovar, raccolta in España, sin problema (3), e nella quale non si sa se applaudire maggiormente la leggiadria dello scrittore o la precisione del pensatore. Contro coloro che negano la permanente validità della lezione di Menéndez y Pelayo, Rafael Calvo Serer afferma la tesi che la Spagna è una dottrina e non un dubbio; che l'ispanità (4) affonda nelle viscere della verità cattolica, null'altro rappresentando se non la concezione cattolica della vita nella più feconda delle sue modalità; che la Tradizione spagnola è in sé tanto robusta da non necessitare rinverditori innesti stranieri.
Quando si vive fra i morti, come io vivo, queste idee raggiungono visibilmente dimensioni di esattezza conseguibili solo dopo molti anni da coloro che vivono immersi nel traffico del mondo dei vivi, popolato a volte di uomini vivi fino all'eccesso. Ben posso, dal mio ritiro nell'Estremadura, avvolto dal dolce silenzio del rumoroso oblio, ripetere le parole di Quevedo:
"Retirado en la paz de estos desiertos
con pocos, pero doctos, libros juntos,
vivo en conversación con los difuntos
y escucho con mis voces a los muertos" (5).

In questo appartarsi, nel quale concretamente si rinviene la felicità di questo mondo che ispirò la vecchia incisione argentea del famosissimo sonetto "Het geluk dezer Wereld", la serenità riduce la passione a proporzioni che anticipano quelle che i nostri quotidiani monticelli avranno quando li si contemplerà da tre o quattro secoli di distanza; l'appartarsi nello spazio supplisce e prefigura il futuro appartarsi nel tempo; e la serenità del mio ritiro mi serve per disporre in prospettiva la cosciente fortezza dell'atteggiamento di Rafael Calvo Serer, come pure i pericoli che potrebbe comportare questa sua impresa del menendezpelaismo politico.
Problema importante, se ne esistono, per coloro che hanno la consapevolezza del proprio tempo. Perché ciò che Rafael Calvo Serer cerca è la ratifica della puntualità storica del 18 luglio (6), che, se qualche cosa fu, fu proprio una radicale vampata di acceso ispanismo intransigente, così intransigente che un milione di morti irrigò per sempre i campi di Spagna per non voler cedere neppure di una virgola nella generosa intransigenza del sacrificio fino alla morte.
La stella politica di Menéndez y Pelayo
Affinché una impresa tanto elevata ottenga il perseguimento dei propri fini, è necessario delimitare gli ambiti entro i quali ci si intende muovere. E prima di tutto indicare cosa si intenda attingere dagli insegnamenti di don Marcelino Menéndez y Pelayo.
Calvo Serer afferma che il suo impegno sarà il seguente: "Restituiamo ai giovani spagnoli la vera figura del pensatore montanaro (o santanderino)..., avvertendoli, soprattutto, che in lui troveranno chiaramente espressa la grandezza di una storia interrotta, che urlando ci sta chiedendo ed esigendo la propria continuazione" (7). Parole chiare, meritevoli senza dubbio della più sincera approvazione se l'ansia restauratrice restasse limitata entro tali termini.
Si dà però il caso che Menéndez y Pelayo trasfonda la linfa del suo sapere in un atteggiamento politico. Nel creare una cultura alla spagnola, o, per meglio dire, nel riscoprire la obliata tradizione culturale spagnola, assume una posizione di fronte agli incalzanti avvenimenti del presente. Il suo sapere provoca un lavorio di accomodamento delle tristi realtà della presente decadenza con il perenne splendore dello ieri riscoperto. Dalla erudizione scaturisce la consegna e Menéndez y Pelayo passa da portabandiera di una cultura ispanica a portabandiera di una politica culturale dapprima e quindi a gonfaloniere di un giudizio alla spagnola della politica della Spagna.
Don Marcelino non si sognò tuttavia mai di sollevare faziose coorti politiche, ben sicuro nell'oscura intuizione che la propria opera fosse strettamente culturale. Fu alla caduta della Repubblica coronata che si era definita Restaurazione liberale, nel 1931, che l'orientamento culturale di Menéndez y Pelayo si condensò in una politica culturale, quella dell'Acción Española. "Vegas Latapié, fondatore di questo movimento intellettuale nazionale - scrive Calvo Serer -, proclama la sua filiazione storica dal grande santanderino e fa continuamente riferimento alle sue idee" (8).
L'Acción Española fu un movimento culturale, di politica culturale alla spagnola, allattato alle erudite mammelle del principale dei nostri eruditi, sul cui pensiero si innesta il movimento militare del 18 luglio 1936, istante nel quale quel menendezpelaismo che alle origini era appena un saggio bastione e che l'Acción Española cambia in politica culturale, si trasforma seccamente in politica, pura politica di governo. Nella diversificazione storica della Spagna contemporanea, qualche pensatore come Pedro Laín o Antonio Tovar potrà indirizzare critiche a don Marcelino come mezzo per manifestare simpatie a favore dell'europeizzazione, e in primo luogo a José Ortega y Gasset; però il generalissimo Francisco Franco si sentirà alla fine più prossimo a Menéndez y Pelayo che a Ortega, costituendosi in paladino della cultura nazionale in quanto interprete dello spirito del 18 luglio.
La legione dei Calvo Serer, Jorge Vigón e loro collaboratori assume in questa congiuntura il compito di porre in evidenza i legami che collegano lo spirito del 18 luglio con Menéndez y Pelayo. Intento plausibile, conveniente e giusto, nell'alveo della più severa ortodossia e adeguato allo stile mentale di chi capitanò le più aspre giornate della guerra. Perché se il 18 luglio non fosse un movimento menendezpelaista, di restaurazione integrale e violenta dell'autentica cultura ispanica contro l'introduzione di usi e costumi stranieri, non sarebbe altro che una sommossa sediziosa o una contesa civile fra molte altre; ciò che renderà o meno il 18 luglio una data centrale della nostra storia contemporanea sarà che significhi o meno una totale volontà di restaurazione delle tradizioni patrie, basata culturalmente sull'opera di Menéndez y Pelayo, culturalmente impregnando la coscienza del nostro popolo, e soprattutto della gioventù del nostro popolo, di un sentimento nazionale della vita assolutamente incompatibile con le mode straniere e con la cieca ammirazione per coloro che postulano di impiantare nel nostro suolo tali mode straniere.
Ma quale era il programma di Menéndez y Pelayo? Calvo Serer vuole estrarlo dalla sua opera, e concretamente lo condensa nel celebre brindisi pronunciato il 20 maggio 1881 in occasione del centenario di Calderón (9), stabilendo una tavola delle idee che esprime il legato del Maestro ai discepoli presenti.
Però, nel saggiare la quantità e la qualità di tale eredità si manifestano le riserve.
I limiti di una gigantesca opera
Non per la qualità, poiché siamo tutti d'accordo nel ricevere il testamento di Menéndez y Pelayo, ma per la maniera con cui lo si riceve. Da don Marcelino si può concepire la recezione di una linea direttrice di condotta, mai di un serrato programma politico. Egli fu il grandioso rinnovatore dei nostri ricordi, l'impareggiabile archivio delle nostre conoscenze, la bacchetta magica che trasformava in oro nostro ciò che era precedentemente disprezzato come residuo di superstizione o di abbandono. La sua fu una gloriosa inquietudine di fervide affermazioni nel mezzo di una società stranierizzata. In un mondo ostile al cattolicesimo salvo a mazzate, quel suo cattolicesimo alla spagnola, intransigente fino all'inquisitoriale, senza paura degli scherni né delle burle. In una patria rosa dalla massoneria alla savoiarda, dal liberalismo dottrinario alla francese, dai gusti inglesi o dalle pedanterie germanizzanti dei krausisti (10), fu spagnolo monolitico e insegnò a noialtri spagnoli la passata lezione della nostra incomparabile grandezza culturale. Quando nessuno credeva in lui, egli solo, titano e Ercole a un tempo, aggiogando nella sua figura tutte le Spagne delle mitologie del sapere, si fece testamentario dei nostri maggiori e ci consegnò qualche cosa di più di una tavola dei saperi: ci consegnò la via per conseguire la sapienza spagnola.
Così è oggi incomparabile nelle materie alle quali pose mano: nella storia della letteratura, nella critica e nell'erudizione. Sforzo colossale per un solo uomo e che difficilmente potrà essere da qualcuno superato.
Grave errore sarebbe tuttavia il confondere l'orientamento culturale di Menéndez y Pelayo con il suo pensiero politico. Una cosa sarà il legato della sua concezione della cultura spagnola come sistema oggettivo di verità cristiane, immutabile e fermissimo di fronte agli attacchi della stranierizzazione, un'altra sarà la sua attitudine politica, che proprio il rappresentante dei menendezpelaisti attuali reputa accidentale (11).
E la ragione è molto semplice: don Marcelino, che come nessun altro seppe fare storia di tante cose, non fu storico del pensiero politico né delle istituzioni politiche spagnole. Ciò che in questi campi riuscì a conoscere fu frutto della sua poderosissima intuizione e della geniale capacità divinatoria che incastona i suoi scritti con diamanti risplendenti di verità; nulla di uno studio sereno e riposato della tradizione politica spagnola, le più insigni pagine della quale, come il tostatismo salamantino, i bagliori di Ferdinando de Roa, la teoria della libertà tomista di Mieres o di Marquilles, il concetto lulliano della missione, la sopravvivenza dei sistemi delle libertà concrete in Navarra o in Sardegna, sono cose che ignorava completamente. Fu già sufficiente quella sua inaudita impresa di aprirci i filoni della tradizione, di insegnarci la fertilità del nostro proprio sapere, per non dovergli pure chiedere che ci illuminasse i principi e ci rendesse chiare le realtà della tradizione politica delle Spagne. Scavando senza interruzione per portare alla luce scheletri culturali, non ebbe il tempo di dissotterrare norme politiche; l'unica cosa che fece, questo sì, fu di dirci il modo con il quale dovremo procedere per dissotterrarle.
La disparità fra la sua azione culturale spagnola e il suo allontanamento dallo studio del pensiero politico spagnolo genera l'apparente incongruenza che lo vede come tradizionalista nell'ambito culturale rimanendo canovista o maurista in quello politico, senza calcare le orme dell'autentico tradizionalismo politico spagnolo: il carlismo. Restandone ai margini, non giunse a capirlo. Fu egli il primo a inciampare nell'equivoco del quale si lamentò quando scriveva: "La storia letteraria del XIX secolo in Spagna é mal conosciuta e male compresa da quasi tutti, e, inoltre, piena di ingiustizie e dimenticanze a cui si deve porre rimedio. Sembra che la vicinanza degli oggetti inganni gli occhi e porti fuori strada il giudizio dei contemporanei. Viviamo senza conoscerci gli uni gli altri, per il semplice motivo che nulla crediamo di meglio conoscere" (12).
Parole che condannano in anticipo quel suo doppio giudizio crepuscolare sul carlismo, a lui così prossimo nel tempo e nell'orientamento culturale e che tuttavia gli era completamente sconosciuto. "Quando Cadrago giunse all'arena politica - pubblicando nel 1842 i suoi primi articoli con El católico e fondando, nel 1844, La Fe -, rimanevano due fogli molto duri e accaniti, dopo aver vagato senza posa né misericordia per i campi di battaglia: inconciliabili, accigliati e rancorosi, come separati da un mare di sangue e da un abisso ideale sempre più profondo. L'uno si diceva rappresentante della tradizione e dell'antica Spagna, e non si può negare che in parte lo fosse, sebbene per la fatalità dei tempi, nel resistere alla spinta della rivoluzione demolitrice, parve identificare la sua causa con quella delle istituzioni caduche e condannate a una morte irrimediabile, e si costituì in difensore non di una gloriosa tradizione il cui significato comprendeva appena né conseguiva se non in modo vago e istintivo, bensì dei peggiori abusi dell'antico regime nelle sua degenerazione e nel suo periodo finale. Diede così una apparente giustificazione a quelli del partito avverso che, pensando e sentendo con lo spirito della rivoluzione francese, radicalmente ostile a qualsiasi elemento tradizionale e storico, confondevano sotto il medesimo anatema i principi fondamentali e perenni della nostra vita nazionale e le corruttele, le imperfezioni, le scorie che lo scorrere dei secoli e la decadenza dei popoli traggono con sé" (13).
Il carlismo per Menéndez y Pelayo era l'assolutismo settecentesco e, disconoscendolo, lo negava né più né meno di quanto negava il liberalismo ottocentesco. La sua anima, appassionatamente tradizionalista, non avvertì che qual pugno di tradizionalisti politici non aveva nulla a che vedere con l'assolutismo, né tenne in conto che erano essi i logici propagandisti politici del suo tradizionalismo culturale. Non sembra vero che a un uomo così splendidamente acuto e tanto abile nel catalogare uomini e idee, sfuggisse un fatto patente, oggi posto in risalto da Federico Suárez Verdeguer: che già nel 1814 Bernardo Mozo de Rosales o chiunque fosse il redattore del Manifiesto de los Persas, da dove il carlismo muove ancor prima di difendere i diritti dinastici di don Carlos María Isidro, contrappone al liberalismo e all'assolutismo una posizione al pari inedita e vecchissima: la monarchia tradizionale (14).
Menéndez y Pelayo, al contrario, confondeva i realisti, o tradizionalisti, del 1814, con gli assolutisti del secolo XVIII (15), disconoscendo che il carlismo incarnava politicamente la medesima tradizione delle Spagne che egli stava restaurando nell'ambito culturale. Il vivere fra i morti, a forza di osservare prospettive passate, gli fece sfuggire la prospettiva dell'orizzonte contemporaneo e confondere i contorni degli uomini con quelli delle idee nella inintelligibile baraonda della sminuita monarchia della Restaurazione canovista. Preciso, nell'illuminare la nostra tradizione culturale non ebbe tempo di approfondire la nostra tradizione politica e non seppe neppure chi fosse a innalzarne gli stendardi.
L'autentico menendezpelaismo
Ignorata dal punto di vista dello studio la nostra tradizione politica e separato dai portastendardi politici di essa, l'attitudine di don Marcelino fu profondissimamente efficace nell'ambito culturale, documentata come nessuna e creatrice di un universo di verità titanicamente strappato dagli artigli dell'oblio. Però nell'ambito politico si arrestò all'intuizione, alla mera intuizione. Rafael Calvo Serer propone come formulazioni di principio l'epilogo degli Heterodoxos e il brindisi del Retiro; però quando don Marcelino li esprimeva, rasentava appena i cinque lustri e si avviava agli inizi della sua gigantesca carriera letteraria. Se non si separò mai da ciò che in entrambi i documenti propugnava, tanto meglio, perché questo implica che, allontanatosi dalla speculazione politica e concentrato nell'ambito culturale, non sottopose a revisione le sue idee giovanili, poiché di esse ne aveva a sufficienza per i suoi fugaci contatti con la vita quotidiana, immerso nella sua opera di disseppellitore verità culturali.
Anche il Brindisi del Retiro è più che altro, la manifestazione che il suo pensiero coincideva "con le grandi idee che furono l'anima e l'ispirazione dei poemi di Calderón" (16). E il suo contenuto è una sintesi, certamente magnifica essendo sua, più desunta dalla lettura di Calderón da un saggio venticinquenne che non il risultato di studi specializzati.
Non c'è dubbio che se don Marcelino avesse versato sulla storia del pensiero politico spagnolo quelle sue incomparabili capacità, la risposta sarebbe stata abbastanza differente e le sue posizioni molto diversa. Sarebbe perciò una pericolosa deviazione supporre che il menendezpelaismo politico consista nel dedurre dal Maestro un'ideologia in luogo di un orientamento, assoggettandola alle parole lanciate in campi differenti dalla storia del pensiero politico invece di provvedere a portare a termine l'impresa che il Maestro non ebbe occasione di realizzare: la storia della tradizione politica spagnola.
Mi pare che non sia lecito estrarre dagli scritti di don Marcelino ciò che lui stesso in essi non volle porre; e che la più esatta esecuzione testamentaria della sua ingente impresa riscopritrice sia il proseguire a vele spiegate per i mari inesplorati della nostra storia politica. Si deve guardare alla Spagna esattamente quale essa fu, perché questo egli volle, scrostare via le oscurità e le falsità, ripulirla dalle scorie e dalle interpretazioni devianti; non impegnarsi nel ridurre la nostra tradizione al modo nel quale egli la vide, poiché egli non ebbe il tempo per svelarcela. Oggi si devono ammettere le sue geniali intuizioni, senza però aggrapparsi a esse, prima di aver approfondito nel passato, con la cautela di accettarle o di correggerle a seconda di come gli uomini o i fatti parlino. Si deve andare direttamente ai vecchi libri, schivando l'impostazione dalle polemiche presenti, che mai vanno al di là di Donoso o della Institución, di Balmes o di Ortega. Si deve scandagliare nei secoli passati per verificare se ci furono o meno creazioni politiche ispaniche e se, essendoci state, abbiano o meno lasciato impronte che le attestino.
Il miglior menendezpelaismo politico non sarà quello che si aggrappa ai libri del Maestro in quanto storico della filosofia o della letteratura, bensì quello che rifaccia la storia della tradizione politica spagnola impiegando i medesimi criteri che don Marcelino impiegò per rifare la storia delle idee estetiche o dell'origine del romanzo qui da noi.
Solo operando così, consumando anni su anni nell'impegno riscopritore di questa particella della nostra storia, che egli conosceva solamente in modo intuitivo, potremo un giorno o l'altro ripetere le sue stesse parole speranzose e presaghe, tanto giustamente ricordate da Rafael Calvo Serer, secondo cui: "popolo che non conosce la propria storia é popolo condannato a morte irrevocabile. Può produrre delle brillanti individualità isolate, gesta di passione, di ingegno e persino di genio, che saranno come lampi che accresceranno più e più la tetraggine della notte. Oggi - perché non dirlo? - camminiamo alla cieca, trascinati da un movimento al quale non possiamo energicamente partecipare; spossando in sforzi vani, indisciplinati e senza metodo, forze originarie che forse basterebbero per sollevare montagne, affannandoci a correre dietro ogni miraggio di dottrina nuova per ritrovarci poi beffeggiati e riprendere la stessa via, sempre in ritardo e sempre trafitti e mortificati dalla coscienza del nostro ritardo; che non si guarisce, no, con importazioni abborracciate, con rappezzi male cuciti di ciò che altrove si scarta e nemmeno con l'infame espediente di rinnegare la nostra razza e di lanciare sulle onorate fronti dei nostri antenati le maledizioni che debbono cadere solo sulla nostra stupidità, fiacchezza e ignoranza" (17).
NOTE
1) Cfr. Sant'Agostino, De vera religione, "Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" (N.d.T.)
2) L'A. scrive nel 1954 [n. d. t.].
3) Rafael Calvo Serer, España, sin problema, Madrid, Rialp, 1952, 2ª ed.
4) Hispanidad nell'originale [n. d. t.].
5) "Ritirato nella pace di questi deserti, assieme a pochi ma dotti libri, vivo conversando con i defunti e ascolto i morti coi miei voti".
6) Il 18 luglio 1936 è la data d'inizio della sollevazione militare spagnola contro il governo del Fronte Popolare [n. d. t.].
7) Rafael Calvo Serer, op. cit., pp.158-159.
8) Idem, Teoría de la Restauración, Madrid, Rialp, 1952, p.201.
9) Ibid., p.145.
10) Karl Christian Friedrich Krause (1781 - 1832) fu un filosofo tedesco le cui dottrine panteistiche esercitarono un'immensa influenza in Spagna tramite Juliàn Sanz del Rìo e i suoi discepoli (N.d.T.).
11) Idem, España, sin problema, cit., p.145
12) Marcelino Menéndez y Pelayo, Quadrado y sus obras, in Estudios y discursos de crítica histórica y literaria, Madrid, CSIC, V (1942), p.196.
13) Ibid., pp.211-212.
14) Federico Suárez Verdeguer, La crisis política del Antiguo Régimen en España (1800 - 1840), Madrid, Rialp, 1950, pp.57-94.
15) Marcelino Menéndez y Pelayo, La historia externa e interna de España en la primera midad del siglo XIX, in Estudios y discursos de crítica histórica y literaria, cit., VII (1942), p.247.
16) Idem, Brindis del Retiro, in Estudios y discursos de crítica histórica y literaria, cit., III (1941), p.385.
17) Rafael Calvo Serer, España, sin problema, cit., p.139.