sabato 1 ottobre 2011

In onore dei soldati Duo Siciliani caduti per la vera Patria durante la battaglia del Volturno nel 151° anniversario dall'evento bellico.




Quella che si combatté sul fiume Volturno non fu soltanto una battaglia tra due eserciti, fu lo scontro tra due culture inconciliabili e tra due concezioni del mondo. La stessa idea della guerra era radicalmente diversa. Il re Francesco II combatteva ancora la guerra delle regole, delle tregue nei giorni delle feste cristiane, del rispetto dei patti d’onore, della pietà per i caduti e per i vinti. Dall’altra parte, si combatteva la nuova guerra senza regole e senza quartiere, la guerra rivoluzionaria, che punta alla distruzione dell’identità del nemico, alla sua conquista ideologica. Nella manifestazione sovrana del re Francesco II, che fu letta ai soldati napoletani il 30 settembre 1860, vigilia della battaglia, si legge: Soldati! Poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi e ci dettano di oppugnare paesi dall’inimico occupati, obbligo di re e di soldato m’impone di rammentarvi che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità ed in ferocia quando non siano accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate adunque generosi dopo la vittoria; rispettate i prigionieri che non combattono ed i feriti e prodigate loro, come il 14° cacciatori ne ha dato esempio, quegli aiuti che è in vostro potere di apprestare. Ricordatevi che le case e le proprietà nei paesi che occupate militarmente sono il ricovero e il sostegno di molti che combattono nelle nostre file: siate adunque umani e caritatevoli con gli infelici e pacifici abitanti, innocenti certamente delle presenti calamità. L’obbedienza agli ordini dei vostri superiori sia costante e decisa; abbiate infine innanzi agli occhi sempre l’onore e il decoro dell’esercito napoletano. L’onnipossente Iddio benedirà dall’alto il braccio dei prodi e generosi che combattono e la vittoria sarà nostra. firmato: Francesco.

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Gli schieramenti in campo
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Pier Giusto Jaeger così descrive gli schieramenti dei due eserciti:

“Dobbiamo immaginarci gli schieramenti dei due eserciti contrapposti come due semicerchi spezzati, quasi regolari, con la curvatura rivolta a Nord. L’interno era quello dei garibaldini e dei piemontesi, l’esterno era quello dei napoletani. “Al centro del diametro dei due semicerchi, che ne costituisce la base, è situata la città di Caserta, dove Garibaldi collocò, con scelta strategica felice, una forte riserva. All’estremità ovest erano poste le difese garibaldine di S. Tammaro e S. Maria Capua Vetere; e a nord-ovest, nella parte più alta del semicerchio, quelle di S. Angelo, costituite da forti posizioni collinari. A nord-est vi era soltanto un piccolo distaccamento garibaldino, comandato dal maggiore Pilade Bronzetti, che era stato spedito all’ultimo momento ad occupare l’altura coronata dalle rovine del castello di Morrone. All’estremità est, Bixio difendeva l’abitato di Maddaloni e la strada che, dal bivio dei ponti della Valle, conduce a Caserta.” “Il piano napoletano prevedeva due grandi direttrici d’attacco: la prima a ovest, con base a Capua, contro S. Tammaro e Santa Maria (la destra, comandata dal generale Tabacchi, con circa 4600 uomini), e contro S. Angelo (il centro, al comando del maresciallo Afan De Rivera: 5000 uomini); l’altra contro Maddaloni e in direzione di Caserta (la sinistra di Von Mechel). Doveva risultarne un movimento a tenaglia, con un’intensa pressione sulle ali, che, se fosse riuscita, avrebbe preso alla spalle i difensori garibaldini delle linee avanti a Capua. A questo piano, peraltro, il generale von Mechel aveva apportato un cambiamento molto significativo. Tenendo per sé le truppe svizzere e bavaresi per l’attacco a Bixio, aveva lasciato al colonnello Ruiz de Ballestreros 5000 uomini, con l’ordine di muovere da Caiazzo su Caserta vecchia per congiungersi con le sue forze in un punto che si riteneva scarsamente difeso [...] e di lì investire Caserta, dove si sapeva essere la riserva garibaldina”.
La battaglia “Il primo ottobre 1860 era un lunedì – scrive Pier Giusto Jaeger – e i garibaldini erano soliti scherzare sul fatto che questo era il giorno in cui i Napoletani attaccavano, sospinti dalle preghiere e incitamenti dei cappellani della domenica precedente. Questa volta, tuttavia, vi erano ben altre avvisaglie di un’iniziativa importante da parte borbonica Si seppe che Garibaldi si era recato il 30 settembre a Maddaloni per conferire con Bixio, e che il luogotenente aveva assicurato che nessuno sarebbe passato dal suo settore”.

L’episodio, a parere dello storico, conferma la tesi degli scrittori di parte regia, secondo i quali i garibaldini erano perfettamente a conoscenza del piano di Francesco II.

Fronte ovest, ore 3:30
Il canonico Giuseppe Buttà, cappellano del 9° reggimento Cacciatori e testimone oculare della battaglia, così narra: “Alle tre e mezzo del mattino uscivano le truppe da Capua per assalire il nemico. La divisione del maresciallo Gaetano Afan de Rivera, di cui io facevo parte, ebbe l’ordine di investire la posizione di S. Angelo. L’altra divisione, del generale Tabacchi, di dirigersi al centro, verso S. Maria, e il generale Sergardi con quattro squadroni di lancieri e quattro cannoni a destra, contro S. Tammaro e Carditello.”

I Napoletani avanzavano in una fitta nebbia, che solo dopo l’alba si sarebbe dissolta.
ore 5:00 “Alle cinque – prosegue lo Jaeger – gli avamposti garibaldini che si trovavano al cimitero e ai “cappuccini” udirono il rauco grido, “Viva o’ Rre”, e videro emergere vicinissime dalla bruma le forme della colonna nemica. Prontamente si ritirarono dietro la scarpata della ferrovia e le barricate rafforzate nei giorni precedenti [...] all’entrata di S. Maria Capua Vetere, presso la porta detta Capuana.”“Il 10° cacciatori di avanguardia – continua il canonico Giuseppe Buttà – comandato dal tenente colonnello Capecelatro aprì il fuoco investendo il nemico sotto S. Angelo per la diritta della strada consolare, e fu quello il segnale della battaglia. Giunto quel battaglione vicino la casina Longo, incalzando sempre i garibaldini dai posti avanzati, costoro scopersero una batteria di otto grossi cannoni, coi quali sparsero la morte sopra quel battaglione, che per sensibilissime perdite diede indietro. Si avanzò il 9° cacciatori, sostenuto dall’8° e cominciò a ribattere i colpi di quella micidiale batteria.

Fu allora che il valoroso capitano Ferdinando Campanino con un coraggio superiore a qualunque elogio, rannodò un drappello di ufficiali e soldati di vari corpi, ed alla testa dei medesimi, si slanciò sopra i pezzi in batteria. Quel fortino era difeso da centinaia di garibaldini, la maggior parte soldati inglesi della real marina, sbarcati pochi giorni prima a Castellammare dalla fregata Renown. Costoro furono i più tenaci nel difendere a qualunque costo quella munita posizione, orgogliosi com’erano dell’onore della superba Albione, però prevalse la bravura napoletana. Parte di essi furono uccisi e parte fatti prigionieri, tra cui un Capitano che stava per essere ucciso e fu salvato da Campanino. Quella mischia avvenne letteralmente corpo a corpo, dopo di che fuggirono i garibaldini italiani.” Pier Giusto Jaeger aggiunge:
“Nell’altro settore chiave della parte ovest della battaglia, davanti a S. Angelo, le cose si erano messe più favorevolmente per gli attaccanti, che avevano meglio sfruttato all’inizio il fattore sorpresa. Medici, che comandava in questa zona truppe tra le migliori [...] aveva rafforzato le già ottime difese naturali costituite dal terreno collinoso e dalle pendici dell’alto monte Tifata fortificando le diverse case e ville sparse sui declivi, nonché l’entrata di S. Angelo, appostando i cannoni nelle posizioni migliori. Ciò nonostante, quando dalla strade incassate nel tufo e protette alla vista dai filari di viti, uscirono, sparando mentre avanzavano, lunghe colonne di uomini dai pantaloni rossi, con l’accompagnamento del loro grido di guerra, che sembrava una scarica nel folto della foresta, le avanguardie garibaldine furono colte dallo sgomento. Riconobbero infatti nelle truppe che avevano di fronte i migliori soldati dell’esercito borbonico, quei cacciatori che a Calatafimi e a Milazzo erano stati molto vicino a prevalere e che la vigliaccheria dei loro generali aveva privati della vittoria. Ora quegli uomini gettavano nella mischia tutto il loro disperato desiderio di vendetta.
Si accese una “grossa orribil zuffa”, che si ripeté con episodi analoghi di feroce determinazione accanto a ciascuno dei nodi della difesa di Medici. I garibaldini, pur battendosi anch’essi molto bene, persero una dopo l’altra le “casine fortificate”, finché un’ultima spallata li buttò fuori dal paese di S. Angelo”.
Scrive lo storico Giacinto de’ Sivo: Medici, con la sua divisione si oppose di fronte, collocando una batteria sul Monte S. Angelo. Quella batteria cominciò a fulminare a mitraglia il 9° cacciatori che si era avanzato più degli altri. Fu in quel punto che la lotta divenne davvero micidiale: regi e garibaldini ora retrocedevano, ora avanzavano con varia fortuna. Vicino la cupa Lucarelli avvenne un massacro, ma più di garibaldini. Ad onta che costoro si fossero fortificati, al solito, in due casamenti vennero assaltati alla baionetta, e caddero a centinaia. Dunn, garibaldino, fu ferito con parecchi suoi ufficiali ed altri vi lasciarono miseramente la vita. Dopo quel combattimento accanito i regi presero i cannoni di Medici e le trincee…







ore 8:00 Verso le otto del mattino sul campo di battaglia apparvero i Principi reali, Conti di Trani e Caserta, che giungevano da Gaeta, in un momento in cui le sorti dello scontro sotto S. Angelo erano incerte. La loro presenza entusiasmò i soldati.

Ricorda Giacinto de’ Sivo:“fattisi in mezzo, mentre con l’esempio e con la voce rianimavano i soldati, li soccorsero col 1° battaglione del 10° di linea col tenente colonnello Afflitto, chiamato da Capua”. Aggiunge il canonico Giuseppe Buttà: “alle otto del mattino la truppa che avea assalito l’Anfiteatro ripiegava, e di già cominciava a disordinarsi, quando giunsero sul campo i fratelli del Re, il conte di Trani e quello di Caserta; costoro si gittarono in mezzo ai combattenti, e li fecero ritornare ad un assalto vigoroso. Marulli si slanciò contro il centro, ov’era la maggiore resistenza; e La Masa, dopo un’ostinata difesa, ripiegò; allora Milbitz, appiattato dietro l’anfiteatro, uscì per opporsi ai regi e fu pure respinto. Il 10° di linea, che si era più di tutti avanzato, alla corsa occupò le prime case di S. Maria, destando gran panico nei garibaldini. La popolazione di quella città metteva pannolini bianchi ai balconi, gridando Viva Il Re, e chiedendo armi per dare addosso ai rivoluzionari quali fuggenti, quali in disordine”

Fronte est, ore 8:00 Così descrive la situazione Pier Giusto Jaeger:

“Nel settore est del campo di battaglia [...] il terreno era completamente diverso, assai più mosso e montagnoso. Il luoghi dello scontro erano dominati dai maestosi “ponti della Valle” […]. I garibaldini di Bixio occupavano le alture; ma anch’essi furono sorpresi dalla rapidità e dalla precisione dell’attacco degli svizzeri di von Mechel, che cominciò, tuttavia, soltanto verso le ore otto del mattino, quando ormai da tre ore si combatteva sul fronte ovest. La brigata Eberhardt cedette, gettandosi in fuga disordinata, e Bixio si trovò in difficoltà, tanto che fu obbligato a chiedere rinforzi. In questo combattimento perì il tenente Emil von Mechel, figlio unico del generale. Il povero padre si arrestò un istante di fronte al cadavere, lo salutò al grido di “Vive le Roi!” e procedette oltre. Gli svizzeri erano ormai padroni di molte delle alture. Convergendo a sinistra, avrebbero potuto facilmente impadronirsi di Maddaloni. Invece von Mechel si fermò. Forse per far riposare i suoi, più probabilmente per aspettare Ruiz de Ballestreros, che, se avesse proceduto regolarmente, doveva ormai essere in vista”.
Secondo Jaeger, la condotta di Ballestreros, che era stato uno dei maggiori responsabili della rotta in Calabria “non trova nessuna giustificazione”. “Ruiz – commenta lo storico – avanzò lentissimo, senza curarsi di tenere i contatti con von Mechel. A Castel Morrone si trovò di fronte la piccola guarnigione di Pilade Bronzetti, e perse ore preziose per sopraffarla…
ore 10:00 Scrive Giacinto de’ Sivo:“In quell’ora decima del mattina in tutta la battaglia la fortuna volgeva ai Borboniani; fuggirono i ribelli, le strade di S. Maria erano deserte, le finestre avean pannilini e già la popolazione si aggruppava con voci reazionarie, e cercava armi per dar sui fuggenti. Ma i nostri duci, mancando d’ impeto, non si avvidero del nemico scoraggiato: lasciarono passar l’ore e dettero tempo accorresse per la via di ferro di Caserta prima la brigata Assanti, poi l’altra Pace, che rinforzando i rossi li fecero di nuovo uscire alla riscossa sulle strade. Inoltre arrivavano in fretta da Napoli e da Aversa quanto v’era d’armati e di settarii stranieri, e artiglieri sardi e inglesi, di sorte che la difesa, quantunque confusa, pur poté per numero arrestare il progredimento dei soldati reali”. Fronte ovest, prime ore del pomeriggio Scrive Pier Giusto Jaeger: “In questo settore […] i regi avevano fatto i maggiori progressi fino alle prime ore del pomeriggio. Medici era esausto: le sue ultime forze si aggrappavano disperatamente alle asperità che separavano i napoletani dal ciglio dei rilievi montani, superati i quali essi avrebbero potuto dilagare nella pianura per tagliare le comunicazioni tra Caserta e Capua. A un certo momento una colonna proveniente dal Volturno aveva addirittura raggiunto la vetta, cogliendo i volontari di fianco; ed era stata respinta soltanto dopo durissima lotta. Ma anche le truppe di Afan de Rivera non ne potevano più, e si fermarono per riposarsi.” Fu qui che avvenne un episodio decisivo, che avrebbe potuto cambiare definitivamente le sorti della battaglia e forse, la storia futura. Così lo riporta lo storico Giacinto de’ Sivo: “Garibaldi, che aveva cominciato la battaglia dalla parte di S. Maria contro la divisione Tabacchi, udendo il rombo del cannone che aumentava sempre dal suo fianco diritto, e vedendo fuggire i suoi da S. Angelo, corse in carrozza regia da quella parte, ma venne assalito da un drappello di soldati dell’11° cacciatori, guidati dall’alfiere Mariadangelo. Costoro gli uccisero il cocchiere ed un cavallo, e stavano per fare prigioniero lo stesso Dittatore. Questi si gettò dalla carrozza e fuggì; i soldati gli tirarono delle fucilate ma non lo colpirono. Garibaldi non fu riconosciuto dai regi altrimenti non sarebbe scappato, a qualunque costo”. Ruiz de Ballestreros arrivò a Caserta vecchia nel tardo pomeriggio, quando von Mechel aveva già ordinato la ritirata. “Noncurante delle sorti della lotta – scrive Jaeger - Ruiz si fermò a Caserta vecchia a pernottare; per avviare il giorno dopo, con altrettanta calma, il movimento retrogrado”. E conclude: “La manovra avvolgente di von Mechel era così completamente fallita; ma la battaglia non era ancora decisa. Davanti a S. Maria Capua Vetere i combattimenti continuavano, alternando brevi soste a scontri furibondi.” Narra Giacinto de’ Sivo [...] il Re, vedendo l’impossibilità del vincer di fronte ordinò che la colonna vincitrice di S. Angelo e il Sergardi da S. Tammaro dessero sui fianchi di S. Maria; il che saria stato certa vittoria. L’ordine non andò al Rivera, che, rimasto indietro, non fu visto combattere ma giunse ai brigadieri Polizzy e Barbalonga, i quali, per la stanchezza dei soldati, è da credere perdessero molto tempo a rianimarli. Dall’altra parte il Sergardi ubbidendo mosse coi suoi cavalli a S. Tammaro, fugò i rari difensori delle quattro barricate ed, entrato, prese alquanti prigionieri ed una bandiera; mentre il popolo, festeggiando coi pannilini e plausi le case dei faziosi ardeva.” E il canonico Giuseppe Buttà:

“Da S.Tammaro (Sergardi) chiese un battaglione per investire il fianco di S. Maria e non poté averlo; rimase inoperoso, e si ritirò poi per ordine del Generale in capo”.
La condizione dei garibaldini, però, era peggiore di quella dei napoletani: avevano perso S. Tammaro e S. Angelo, avevano avuto molte perdite. Ricorda de’ Sivo:

[...] “Noi li miravamo arrivare a torme a Napoli pallidi e tacenti [...]. Arriva fuggente il dittatore: che al vedere tanto sgomento pur là, correva gridando: si rassicurassero esser egli su tutti i punti vincitore”. Da Caserta, Garibaldi fa affluire il resto della riserva, il Turr con le brigate “Eber” e “Giorgi” e le inviò a S. Angelo e S. Maria. Da Napoli arrivarono militari dell’esercito piemontese e cannoni, che furono collocati sulle batterie della ferrovia e sugli archi antichi. Davanti S. Maria Capua Vetere era fallito l’assalto dei granatieri della Guardia reale, privi di ogni esperienza di fuoco, che si sbandarono di fronte ad un violentissimo fuoco dei garibaldini nonostante il Re in persona si fosse gettato tra loro incitandoli.
Alle quattro del pomeriggio Francesco II ed i principi reali radunarono tra Capua e dintorni i soldati più valorosi per lanciare un ultimo assalto. “I rossi uscirono a incontrarli dalla Via S. Angelo e dalla città, assalendoli di fianco e di fronte” – scrive de’ Sivo. Fu battaglia per oltre un’ora ed un pallottola vagante ferì Garibaldi alla gamba sinistra. Il re – riferisce ancora de’ Sivo - raccolse alcune centinaia di soldati del 10° e del 9° di linea e mandò a rinforzarli il colonnello De Liguoro. Ma erano forze insufficienti. “Benché facessero prodezze”, come precisa lo storico maddalonese, bastarono solo a difendere le posizioni che aveva conquistato coraggiosamente il colonnello Marulli. ore 17:00 Alle cinque del pomeriggio il comandante in capo delle forze napoletane Giosuè Ritucci dà il segnale della ritirata generale, come ricorda Giacinto de’ Sivo:“considerando non si poter vincere con sì sparute forze il duce Ritucci ordinò la ritirata e che cavalleria e artiglieria la proteggessero”. Tutto si svolse ordinatamente, aggiunge Jaeger, “riparando le truppe nei loro alloggiamenti di Capua senza che i garibaldini le disturbassero”. Per ironia della sorte in quegli stessi momenti quattro compagnie di tiragliatori napoletani, raggiungevano le prime case di S. Maria Capua Vetere, abbandonate dai garibaldini e chiedevano rinforzi per conquistare la città. Furono assaliti dai garibaldini. De’ Sivo narra che: “i garibaldini uscirono ad incalzare; ma pochi squadroni di carabinieri, nonostante l’inadatto terreno e l’albereto, sì menarono le sciabole che ne cavarono loro la voglia”.






Ferito all’arma bianca cadde il tenente ungherese Flugel con molti altri garibaldini. Il colonnello napoletano Grenet, con soli 100 superstiti del suo reggimento si fermò, e tenne il fronte finché tutta la truppa non si fu ritirata. Era ormai sera. “Durante la notte – scrive Pier Giusto Jaeger – Cosenz chiese a Villamarina di fare intervenire i bersaglieri e i granatieri sardi [...] circa 400 soldati piemontesi presero parte all’azione del giorno dopo, che fu in verità poco più di un rastrellamento e che permise di catturare l’intera brigata Ruiz”. Fu quello l’ultimo atto della battaglia del Volturno. “Si trattò di un fatto d’armi che francamente si può mettere al livello dei primi in tutti i tempi”, scrisse il luogotenente garibaldino Guglielmo Rustow.

Sugli esiti della battaglia si scatenò la propaganda unitaria. I garibaldini arrivarono a parlare, con Rustow, di “una delle più splendide vittorie che la storia del mondo abbia mai registrato”, attribuendo ai napoletani una “forza doppia” rispetto alla loro.

“I napoletani non impegnarono nella lotta più di metà delle truppe che avevano a disposizione – precisa lo Jaeger – quindi un numero di uomini di poco superiore a quello dei volontari”.
Ed aggiunge:“I soldati borbonici nel complesso si batterono molto bene e gareggiarono coi volontari in entusiasmo e furore. Le eccezioni furono rappresentate dalla brigata di Ruiz [...] e, soprattutto, dalla Guardia reale”.

“Si trattò di uno scontro terribile per quantità di perdite – riconosce Jaeger – nel quale i borbonici si trovarono più volte assai vicini al successo […] i morti e feriti garibaldini superarono quelli napoletani. La resa della brigata Ruiz fece pendere dalla parte dei volontari il numero dei nemici catturati, ma anche tra le camice rosse si ebbero ben 1389 ‘smarriti’, ciò che dà un’idea di come interi reparti si siano dissolti nel panico, fuggendo verso la non lontana capitale e gettandovi lo sgomento. In complesso, Garibaldi perse circa il 20% del suo piccolo esercitò. Le perdite furono molto simili a quelle delle più sanguinose battaglie dell’Ottocento”.



A Napoli il panico creato dall’arrivo di torme di fuggiaschi colpì anche i capi della congiura unitaria. “Personaggi di rilevo – narra sempre Jaeger – si precipitarono ad invocare l’intervento piemontese, vaneggiando che coi regi stessero combattendo truppe austriache. In simili appelli si distinse Liborio Romano, nonché il leggendario barone Nisco, che doveva essere fuori di se dal terrore per scrivere a Cavour parole come queste: ‘Per amore d’Italia spedite truppe e truppe, se possibile con aerostatici’ ”. Scrive il primo ministro borbonico Pietro Calà Ulloa:

“Garibaldi si rendeva conto, dopo la battaglia, che il più importante risultato di questa era lo scoraggiamento dei volontari. Scopriva distrutta l’orgogliosa sicurezza che fin qui l’aveva accompagnato nella sue imprese. Sentiva infine che la rivoluzione si era arrestata e che senza l’aiuto dei piemontesi, essa non poteva più trionfare”.

Ricorda Giacinto de’ Sivo:“I garibaldini descrivono la battaglia tronfiamente, con pugne da epopea, chè parecchi di loro essendo scrittorelli, mandavano lettere ai giornali encomiatrici di se stessi, poi per tutta Europa ristampate. Ma se i borboniani non seppero vincere, neppure l’esercito rivoluzionari guadagnò terreno: dopo la giornata i regi restarono ai posti di prima”.

“L’esercito garibaldino – continua de’ Sivo – scemò per fughe, perdé il prestigio, strinse le linee di avanguardia, niente altro operò ed ebbe necessità di quarantamila Sardi che il cavassero dalla stretta. Anche le perdite per la nostra migliore artiglieria, furono a lui più sanguinose. Avemmo mille e più fuori combattimento, oltre i detti prigionieri.
Il nemico, dice il Rustow, che avesse 506 morti, 1328 feriti, 1389 tra prigionieri e smarriti; ma vedemmo parecchi dì la strada ferrata menar feriti in Napoli [...] per portarli ad ospedali e conventi: il rapporto ufficiale di San Sebastiano novera 1050 feriti giunti colà solo il 1° ottobre. Se Napoli era piena i paesi più vicini erano colmi. Credo perdessero tra morti, feriti e prigionieri da quattromila; i fuggiaschi non numerabili”. Scrive il canonico Giuseppe Buttà: “La battaglia del 1° ottobre, militarmente parlando, se non si può dire assolutamente vinta dai regi, moralmente lo fu, perchè l’esercito piemontese dovette soccorrere poi quello a metà disfatto dei garibaldini. L’aureola di Garibaldi fu annientata in Capua da quei fidi e prodi soldati ed ufficiali che seppero lavare nel sangue le patite vergogne di Sicilia e di Calabria. Spogliato l’esercito regio della maggior parte dei traditori, dimostrò che non ai Mille di Garibaldi è dovuto il trionfo della rivoluzione, mai ai compri duci napoletani”. Dopo un fiume di sangue versato in quella giornata del 1° ottobre l’esercito napoletano rientrava nelle sua antiche posizioni, lasciando quelle che aveva acquistato a prezzo di crudelissimi massacri” Il sangue versato non fu inutile. La battaglia del Volturno restituì l’onore ad un esercito tradito da troppi generali e calunniato dal nemico. Non è senza significato, dunque, parlare di vittoria morale. Quella battaglia fu, per i Napoletani, il tempo dell’orgoglio ritrovato.
Cacciatori Napoletani.