giovedì 7 gennaio 2016

LA SITUAZIONE DELL'ESERCITO DI STANZA NEL REGNO LOMBARDO-VENETO NEL BIENNO 1848-1849

Fonte: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien

Molto spesso nel descrivere il turbolento bienno 1848-1849 in Lombardia e nel Veneto, al fine di avvalorare l'importanza dei movimenti di stampo risorgimentale, si racconta che quasi tutte le truppe imperiali reclutate nel Lombardo-Veneto per solidarietà “nazionale” si rifiutarono di obbedire e che decisero di aiutare la rivolta (alternativamente è proposta la versione secondo cui le truppe “italiane” venivano spedite nelle remote provincie dell'Impero sia per disprezzo sia per evitare che gli ideali delle correnti risorgimentali potessero comprometterne la fedeltà).
Entrambe queste versioni sono però o false o poco fedeli alla realtà.
In questi paragrafi presi dall'opera di Karl Schönhals “Memorie della Guerra d'Italia degli anni 1848-1849” si capisce di come le cose andarono sensibilmente diversamente.
Schönhals in questo pezzo riassume la situazione delle forze militari di stanza a Milano e nel resto del Lombardo-Veneto, alla vigilia dello scoppio dei disordini pubblici. Emerge una situazione non così critica in quanto le truppe erano ben fornite di uomini e di munizioni. Nella parte finale del seguente paragrafo viene fatto presente che un terzo delle truppe di stanza in Lombardia e nel Veneto erano composte da soldati arruolati nei territori italiani dell'Impero, soldati che (nonostante fossero inizialmente motivo di preoccupazione per i generali dell'esercito a causa di un loro possibile passaggio nelle file del nemico) avevano sempre dimostrato “tanta fedeltà alle loro bandiere”.
“La guarnigione di Milano sommava a 10 battaglioni, 5 squadroni e 6 batterie; le caserme erano strapiene, alloggiarvi un maggior numero di truppe era impossibile, e naturalmente impossibilissimo un aquartamento comune. L'esercito era diviso in due corpi. Il primo comandato dal Tenente maresciallo conte Wratislaw trovavasi in Lombardia ed aveva il suo quartier generale a Milano; il secondo comandato dal Tenente-Maresciallo barone d'Aspre, era stanziato nel Veneto con quartier generale a Padova. Le truppe erano in ottimo stato, sufficientemente provviste di munizioni, ma non armate sul piede di guerra, e per un tal caso difettavano specialmente di mezzi di trasporto. Venti battaglioni unitamente al reggimento di gendarmeria, quindi un buon terzo di quelle truppe, erano composte da italiani. Era questo senza dubbio un grande inconveniente, massime in un movimento, che assumeva un carattere nazionale. Ma quelle truppe avevano fin allora manifestato un eccellente spirito, ed in ogni occasione dato prove di tanta fedeltà ed affezione alle loro bandiere, che non v'era motivo a sospettare della loro devozione.”
Dopo aver dato una panoramica generale delle forze militari dell'esercito imperiale, Schönhals passa a raccontare la strategia attuata dai rivoltosi i quali più che attaccare i battaglioni arruolati nel Lombardo-Veneto, scelsero di “amicarsi” i soldati per poterli portare dalla propria parte. Questa strategia, per i motivi qui di seguito presentati dall'autore, si rivelò in parte efficace, anche se non portò alcun contribuito alle forze in rivolta.
“Il grande sbaglio che i rivoluzionari commisero insultando ed assalendo il militare fu tosto avvertito dai loro capi, che cercarono di porvi rimedio in tutti i modi possibili. Ogni mezzo che uno possa immaginarsi fu posto in opera per amicarsi il soldato […]. Mentre, per esempio, i due primi battaglioni del reggimento Arciduca Alberto passava in massa alla rivoluzione*, il terzo sotto il comando del bravo Maggiore Plietz si manteneva fedele e sebbene fosse composto pressochè interamente da Milanesi lasciò coll'altre truppe Milano, dove non ritornò che alli 6 agosto con tutto l'esercito. Quattro compagnie dell'8° battaglione di cacciatori defezionarono, due rimasero fedeli, e le stesse circostanze si manifestarono in diversi altri reggimenti.”
Se è vero che molti soldati disertarono, è anche vero che non ebbero alcuna intenzione di rivelarsi di aiuto per le truppe rivoltose (spalleggiate dalle truppe di Carlo Alberto). Schönhals, infatti, afferma che degli otto mila soldati (su ventimila disertori) che i piemontesi riuscirono a raccogliere, nessuno di questi si rivelò di una qualche importanza poiché nessuno di loro partecipò ad uno scontro con le forze dell'Impero Austriaco.
“Laonde la maggior parte di quelle truppe che passarono alla rivoluzione nol fecero assolutamente se non nella mira di approfittare di quell'occasione per liberarsi del servizio militare. Infatti pressochè tutte si sciolsero e n'andarono a casa loro. Se ciò non fosse stato, e se tutte le truppe che allora disertarono fossero passate immediatamente al servizio della rivoluzione, la Lombardia avrebbe tosto fornito all'esercito di Carlo Alberto un rinforzo di venti mila soldati ben addestrati e muniti di armi austriache. La qual cosa, come ognun sa, non avvenne. A fatica si potè runare una forza di ottomila uomini dalla quale Carlo Alberto non ebbe alcun profitto; chè non ci è noto ch'ella andasse una sol volta al fuoco”.
*Schönhals precisa che la gran parte delle diserzioni fu risolta abbastanza velocemente da Radetzky, che riuscì a riportare sotto il proprio comando buona parte dei disertori concedendo ampia amnistia.
Se quindi è vero che le diserzioni dei soldati arrecarono qualche ostacolo alla gestione della situazione, è anche vero che essi non fornirono alcun aiuto al progetto di Carlo Alberto di Savoia e del suo governo di annettere la Lombardia e il Veneto al Regno di Sardegna.

I disastri e i crimini compiuti dalla Massoneria nell’Italia meridionale dopo la conquista del potere (1860)

 
Garibaldi era un adepto di una loggia massonica inglese
Garibaldi era un adepto di una loggia massonica inglese
Si tratta di un’importante descrizione coeva dei fatti narrati, a firma del massone Pier Carlo Boggio. E’ tratta da: Angela Pellicciari, I panni sporchi dei Mille; Siena, Edizioni Cantagalli, 2011, pp. 189-200. Le notizie sull’autore sono tratte dalle pp. 145-146.
Nello scrivere il Boggio si rivolge a Garibaldi, altro massone, che si era autoproclamato dittatore assoluto al posto del re di Borbone e che come tale veniva riconosciuto, di fatto ma non ufficialmente (la solita falsità), dal Cavour e dal Savoia, massoni anch’essi.
Lo scritto, a leggerlo, fa persino male, perché documenta cose talmente criminali, e in così enorme quantità, che a stento non solo saremmo stati in grado di ammetterle, ma persino di immaginarle. Eppure sono cose certe, perché raccontate da una persona che, malgrado tali fatti, approvava l’invasione dell’Italia meridionale ad opera del regno di Sardegna.
Pier Carlo Boggio, personaggio oggi praticamente sconosciuto, era un cittadino del regno di Sardegna. Nato nel 1827, influente massone, «risorgimentale della prima ora» (Pellicciari), accettò di collaborare con il Risorgimento, il giornale fondato da Cavour. Giornalista e polemista, dopo aver messo da parte alcune divergenze con il Cavour, collaborò a portare avanti la sua azione di conquista della penisola italiana. Scrisse due libretti battaglieri e schietti: nel 1859 «Fra un mese», con il quale sosteneva le ragioni della guerra contro l’Austria; nel 1860 «Cavour o Garibaldi», con il quale chiarire «perché la guerra così ben iniziata in Italia meridionale debba assolutamente essere interrotta» (idem). Quando scrisse le pagine che riportiamo, perciò, aveva solo 33 anni. Morì poi tragicamente, non senza eroismo, nel 1866: mentre l’ammiraglio Persano in quell’anno (caratterizzato dalla cosiddetta terza guerra d’indipendenza) portava la flotta navale alla rovina, Boggio preferiva morire, affondando, che mettersi in salvo, accogliendo la proposta che gli era stata fatta personalmente dal Persano.
Qui, dallo scritto «Cavour o Garibaldi» (che la Pellicciari riporta integralmente) estraiamo in ampio sunto (come detto) il solo capitolo XXXV.
Don Floriano Pellegrini
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il resto con un sunto delle pagine a questo link .. da non perdere ! https://www.facebook.com/notes/10155719916225430/

1869: Appunti legittimisti (di Angelo D'Ambra)

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1° Maggio 2009


La storiografia contemporanea pare, lentamente, avallare la tesi secondo cui una decisa crescita economia nel Regno delle Due Sicilie si verificò sin dai primi anni dell’800. La libertà di esportazione della seta incoraggiò la ripresa della coltivazione del gelso e dell’allevamento del baco da seta con un aumento di produzione di seta greggia fino a 400 mila chilogrammi, l’industria laniera di Sora, Arpino, Chieti e del salernitano, anche con l’aiuto di investimenti svizzeri e tedeschi, vide l’introduzione di impianti avanzati come macchinari tessili e moderni telai a mano, in Sicilia, la produzione di zolfo crebbe sotto la spinta delle richieste inglesi e francesi, così come in Calabria crebbe l’industria estrattiva di minerali ferrosi. Numerose cartiere e fabbriche metallurgiche sorsero, nel Napoletano, mentre a Catanzaro e Reggio Calabria furono create delle ferriere destinate a soddisfare le esigenze del settore militare.
Sparse sul territorio nazionale, sorsero, poi, aziende atte alla lavorazione di vetro, cristalli e ceramiche, ed ancora numerosi stabilimenti di profumi, guanti, zucchero e prodotti chimici. L’elenco dei settori in crescita e dei progressi economici, industriali e tecnologici che interessarono il Regno di Ferdinando II, in particolar modo nel suo ultimo decennio di governo, potrebbe continuare a lungo, ma ci bastino questi pochi cenni per ipotizzare un più profondo motivo alla base della lunga resistenza popolare sorta all’indomani del 1860 e che conosciamo col nome di brigantaggio.
Probabilmente ampi strati di popolazione avevano sensibilmente avvertito il processo di crescita in atto ed anche per questo insorse. Cieca ed immutata fedeltà alla Corona di Napoli dovette, invece, animare il groviglio di tele segrete e romantici legittimisti su cui poca e fioca luce rifulge e molto v’è, dunque, da scrivere e scoprire.
Ci soffermiamo, qui, sull’anno 1869. Erano morti i Crocco, i Giordano, i Romano, falliti i progetti di Borjes e in maturazione lo scandalo della Regina Maria Sofia, una delle prime vittime dell’ingiuriosa falsificazione massmediatica moderna. Sembra che tutto fosse scemato, svanito lentamente, spentosi come la fiammella di una candela, poco prima, ardente.
Dal buio, invece, sono venute alla luce piccole verità nascoste, tracce di un movimento tutt’altro che domato, che, come l’isolotto di Ferdinandea, dalle profondità, affiorano alla calda luce solare in piccoli frammenti che solo un attento lavoro di ricostruzione, fondato sull’analisi dei documenti di Prefetture, Questure e Archivi può ricostruire fino in fondo.
Aristide Ricci, in “Giuseppe Ricciardi e l’Anticoncilio di Napoli del 1869”, scrive di ingenti flussi di denaro provenienti dalla Città Santa per alimentare precisi progetti di restaurazione. Era opinione fondata, quella del Ministero degli Interni, che il vero pericolo di sovversione non provenisse dai settori mazziniani e socialisti, ma da quelli borbonici e, proprio in questo periodo, le autorità dell’Italia unita si rendevano conto che il nemico era ben più temibile e versatile di quanto pensassero.
Capace di portare il suo attacco su più fronti, il legittimismo borbonico alimentava, infatti, il brigantaggio, lotta aperta sui monti e le vallate dell’ex Regno, e le strutture cattoliche, nelle quali era forte e solido, e dove forse durò più a lungo, ma era pure capace di coadiuvare attorno a sé altre forze politico-sociali che, partendo da opposti interessi, si incontravano in un’associazione di intenti e azione tanto bizzarra quanto poco duratura.
In questo progetto un nome spicca sugli altri ed è quello di Giovanni Gervasi, artefice del singolare raccordo di sinergie borboniche, repubblicane e socialiste che, in data 23 ottobre del 1869, incontrò a Palazzo Farnese esponenti della casa reale delle Due Sicilie e  il segretario di Stato Cardinal Antonelli.
Ne nacque un giornale, “La Soluzione”, che sostituiva la precedente pubblicazione del Gervasi, “La pietra infernale”,  ed, abilmente, si riprometteva di condurre una battaglia su temi comuni alla stampa democratica, mimetizzando, così, il lavoro dei legittimisti e congiungendo i repubblicani di Cavicchio, Nicotera e Caporosso.
Nell’ambito di questi movimenti, risulta persino concreta l’ipotesi che la fondazione della sezione partenopea dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, guidata dal Caporosso, avesse ricevuto il cospicuo appoggio finanziario dei borbonici. Possiamo pensare che l’intento dei legittimisti fosse quello di destabilizzare il nuovo Regno per poi affondare il colpo finale.
In questo stesso anno circa 2.500 carabine provenienti dal Belgio arrivarono in Abruzzo per armare i briganti sotto le insegne di Francesco II. A darne notizia fu il giornale “L’Italia”, convenendo col Prefetto sul fatto che il re Francesco II avesse destinato, solo in quel anno, l’esorbitante cifra di dodici milioni di lire alla resistenza.
Insomma, borbonici e repubblicani si ritrovarono a collaborare in progetti ed episodi d’insorgenza contro il governo sabaudo come già gli scioperi degli operai del 1861 presso l’Arsenale in Napoli, e del 1863 presso l’opificio di Pietrarsa avevano mostrato.
La risposta piemontese stavolta portava il nome di Rodolfo D’Afflitto che, sotto il Regno delle Due Sicilie, era stato funzionario della Consulta di Stato e segretario generale della prefettura di Napoli, per poi essere allontanato dopo il 1848, aveva, poi, seguito Garibaldi e, divenuto suo Ministro ai Lavori Pubblici, fu riconfermato dalla Luogotenenza Farini, nel 1861 era stato governatore di Napoli e senatore del Regno ed, infine, nell’anno 1869, fu nominato prefetto di Napoli in sostituzione di Rudinì. Attento controllore dei movimenti antiunitari, D’Afflitto temendo che le manovre dei legittimisti avessero risultati pericolosi, allarmò prefetti, eserciti, ministeri, e furono i suoi reclami a portar presto anche al sequestro de “La Soluzione”.
Non si dimentichi, in effetti, che trattiamo di un periodo storico in cui la censura, la violenza, la negazione di ogni minimo diritto era la regola. Persino i repubblicani lamentavano il timore della gente “che scappano ad un batter di piede di una Guardia o ad uno squillo di tromba”. Proprio per questo apprezziamo l’eroicità di quanti, di fronte alla scelta del Consiglio comunale di Napoli di destinare 250. 000 lire alla Corona per offrire la culla in occasione della nascita di Vittorio Emanuele III, tappezzarono coraggiosamente Napoli di manifesti di denuncia delle condizioni dei napoletani e di lode dei Borboni che “nei fausti avvenimenti della Casa non esigevan donativi e presenti, ma spendevano invece sui popoli le loro reali beneficenze”.
Continuavano: “Per la dignità quindi del nome napoletano, a serbare integri i nostri diritti, ed inviolato l’onore protestiamo con tutta la forza dell’animo contro questo atto di abbietto servilismo, che à solo riscontro nei barbari tempi vicereali, riproducendo un odioso tributo mascherato a donativo: protestiamo contro il procurato voto di una effimera maggioranza del Consiglio municipale, di cui tutto il paese aborrisce i sentimenti, e la solidarietà rigetta; protestiamo da ultimo, che le speranze, i voti, gli affetti nostri sono, e sempre fermi saranno pel nostro Legittimo Sovrano, che l’Onnipotente à serbato al risorgimento della Patria, e che in un prossimo avvenire, fatto lieto di un Figlio, vero Erede del Trono, e pegno certo della protezione divina, tornerà fra noi più glorioso non solo, ma desiderato sempre, benedetto, ed amato!!!”.
Pensare che il giorno seguente Napoli si risvegliò tra simili manifesti ha davvero qualcosa di romantico e, giustappunto, siamo in una fase “romantica”, epoca di incontri segreti, adunate sediziose, nomi in codice e cupi protagonisti, ma se Gervasi e i legittimisti di Napoli si muovevano nell’oscurità, la nobiltà del sud, rimasta fedele all’ex sovrano, mostrava in tutta libertà il proprio sdegno per Casa Savoia, infatti, in occasione della nascita di Maria Sofia di Borbone, tre quarti della nobiltà napoletana non avevano rinunciato a farle visita nella Roma Papalina. Il “popolo dei quartieri”, invece, gravato di pesanti e nuovi gravami fiscali, lamentava pure che il titolo di principe di Napoli veniva assegnato ai discendenti di casa Savoia, considerati stranieri e quindi non aventi diritto a tale privilegio. Della stampa e diffusione di questo manifesto furono sospettati i redattori del “Trovatore”, foglio borbonico napoletano, per il fatto che i suoi giornalisti avevano strette relazioni con Palazzo Farnese a Roma.
Sappiamo la storia come è andata, tutto è finito, briganti sui monti non ce ne sono più, vane si rivelarono pure le speranze dei Borbone di un intervento francese o austriaco che li riportasse sul trono, ed oggi, addirittura, mettere in discussione l’Unità è diventato un argomento per “nordisti”, tuttavia fa uno strano effetto leggere di simili vicende per poi catapultarsi nella nostra realtà dove, tra l’indifferenza generale, si continua a dedicare strade e palazzi a “liberatori” stranieri. E’ vero, è difficile, ancora difficile a 150 anni da quel 1861, chiedere almeno una lettura imparziale degli eventi e rispetto per la nostra storia, ma lo è ancora di più perché il popolo non ha memoria e, così, va costruendosi un sommesso futuro. Chissà se qualcosa cambierà, noi vi metteremo il nostro impegno.



FONTI:

 A. Ricci, "Giuseppe Ricciardi e l’Anticoncilio di Napoli del 1869", Luigi Regina, Napoli, 1975

http://www.eleaml.org/

martedì 5 gennaio 2016

Un magistrale discorso – (quasi) introvabile – di Pio XI su Dio, Stato e totalitarismo

 
Pubblichiamo l’estratto di un discorso di Pio XI del 18 settembre 1938 (pochi mesi prima di morire e molti anni dopo la “Non abbiamo bisogno” del 1931) alla Federazione dei sindacati cristiani francesi. Fatto salvo qualche breve accenno, questo testo risulta irreperibile online, persino sul sito del Vaticano. Qui Papa Ratti parla di Stato, di Uomo, di Dio, dei diritti della Chiesa, della “questione totalitaria”, con un chiarissimo riferimento al fascismo. Perché proporlo? Per la sua tremenda attualità e la sua “scorrettezza politica”, inoltre perché introduce la prossima uscita delle Edizioni Radio Spada: un libro che parlerà dell’incompatibilità tra statolatria e Cattolicesimo, con un saggio di Piergiorgio Seveso relativo a “Concordato e fascismo” e uno di Andrea Giacobazzi intitolato “Peronismo scomunicato?”. Grassettature nostre. [RS]
 
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[… ] La nostra prima parola ha relazione con un punto di dottrina importante. Avete annoverato tra i vostri grandi principi – l’abbiamo visto, e non poteva essere altrimenti per dei lavoratori cristiani – il rifiuto della tesi così frequente oggi, la quale dice che la collettività è tutto, e l’individuo è nulla. Avete fatto bene, perché la Chiesa non parla in questo modo; non è tale la dottrina della Chiesa. Si potrebbe riassumere così questa teoria, con una semplicità brutale: tutto allo Stato, niente alla persona. No, è suo privilegio, camminare, in qualche modo attraverso i popoli e i continenti, attraverso tutte le genti del mondo (non diciamo le razze), e di conservare in tutto, dappertutto questa direzione media nella quale consiste sempre la virtù, in medio stat virtus. La virtù è sempre nel mezzo né in un estremo, né nell’altro.
La Chiesa professa e insegna una dottrina che sottolinea i giusti rapporti tra collettività e individuo. Certamente (è l’evidenza stessa), a causa delle necessità della vita, dalla nascita alla morte l’individuo ha bisogno della collettività: per vivere, per sviluppare la sua vita. Ma non è vero che la collettività sia essa stessa una persona, una persona indipendente, che parla nome proprio. No la scienza come l’ignoranza, la scienza come la virtù sono proprie dell’individuo. Anche quando si parla dell’anima della collettività, è un modo di dire, che ha sì il suo fondamento nella realtà, ma che rimane una astrazione. E la collettività non può esercitare nessuna funzione personale, se non attraverso gli individui che la compongono: è l’evidenza, ma un’evidenza che, ai nostri giorni, non è più riconosciuta in molti ambienti. Si dice troppo, un po’ dappertutto in un modo o in un altro – e ci si è abituati a sentir dire – che tutto appartiene allo Stato, nulla all’individuo. Oh! Cari figli, quale falsità in questa espressione: essa va dapprima contro i fatti, perché se l’individuo è realmente dipendente a tal punto dalla società, la società d’altra parte non sarà nulla senza gli individui se non una pura astrazione. Ma ci sono delle intenzioni occulte ben gravi; E quelli che dicono: tutto alla collettività, dicono anche che la collettività e qualcosa di divino; e allora ecco l’individuo divinizzato, ma in maniera nuova: è una specie di panteismo sociale. Ecco, cari figli, la lezione di catechismo elementare ci insegna. È il nemico dell’uomo che ha detto: Eritis sicut dii. Voi conoscete tutto quello che questa frase voleva dire, e come si è tradotta nei secoli che si sono succeduti sulla povera umanità peccatrice. Così si dice un po’ dappertutto; tutto deve essere dello Stato: ed ecco lo Stato totalitario, come lo si chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. Ma in ciò vi è una falsità così evidente, che fa meraviglia che gli uomini, del resto seri e dotati di talenti, lo dicano e l’insegnino alle folle.
Infatti come lo Stato potrebbe essere veramente totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto; come potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione interiore – poiché si tratta di cristiani – per la santificazione e la glorificazione delle anime? Perciò quante cose sfuggono alla possibilità dello Stato nella vita presente e in vista della vita futura, eterna! E in questo caso, ci sarebbe una grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è la creatura del buon Dio, egli è il prezzo della Redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere quaggiù, e con Dio in cielo. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa, perché tutto intero appartiene a Dio. Quanto a noi, bisogna ringraziare il Buon Dio di essere a una così buona scuola, in un sì bello e ricco splendore di verità.
[…]
Discorsi di Pio XI, a cura di D. Bertetto, v. 3. SEI, 1961, pp. 813-814.

domenica 3 gennaio 2016

R. H. Benson, J. R. R.Tolkien, W. Golding: i tre “Lord” della letteratura inglese

di Luca Fumagalli (Fonte: http://www.radiospada.org/)
 
 
Le letteratura è costruita attorno a un fascio denso di relazioni, citazioni e rimandi. Così come tra le biografie di autori diversissimi tra loro per cultura o sensibilità possono trovarsi corrispondenze più o meno ampie, allo stesso modo nei romanzi è facile imbattersi in quelle che a tutta prima potrebbero essere solo coincidenze, ma che, andando più a fondo, si rivelano come sovrapposizioni significative e ben lontane dalla casualità. Molti esempi potrebbero essere fatti − si pensi al debito storico-culturale che ogni epoca nutre nei confronti delle precedenti − ma tutti i rapporti trovano la radice, il minimo comune denominatore nell’esperienza umana.
Questo è quello che è accaduto a tre grandi scrittori inglesi dell’ultimo secolo, lontani per formazione, ma accumunati da un medesimo problema: indagare con lo strumento della letteratura le origini e gli esiti ultimi del male metafisico che attraversa la storia. R. H. Benson, J. R. R.Tolkien e W. Golding − cattolici i primi due, agnostico di formazione anglicana il terzo − seppero tracciare con singolare efficacia nei loro lavori i tratti luciferini di un mondo preda dell’egoismo e del disordine. Nacquero così tre capolavori, tre famosi “Lord” che ancora oggi sono conosciuti e letti da un grande stuolo di appassionati. A Lord of the World (Il padrone del mondo) di Benson, pubblicato nel 1907, seguirono l’intramontabile classico di Tolkien, The Lord of the Rings (Il signore degli anelli) (1954-’55) e l’altrettanto fortunato, soprattutto in ambito anglosassone, Lord of the Flies (Il signore delle mosche) di Golding, dato alle stampe proprio nel 1954, lo stesso anno in cui uscì il primo volume della trilogia tolkeniana.
 
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Il “signore” a cui si riferiscono tutti è tre i titoli è il diavolo. Se Benson e Golding optarono rispettivamente per una perifrasi di derivazione neo e vetero testamentaria − tra le tante citabili «Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo» (Gv 14, 30-31) e «Andate e interrogate Baal-Zebub [letteralmente “il signore delle mosche”], dio di Ekròn» (2Re 1, 2) − Tolkien preferì riferirsi direttamente all’antagonista della sua opera, Sauron, una personificazione del male.
Proiettati verso i recessi dell’anima, attenti indagatori del cuore dell’uomo e delle contraddizioni che lo animano, i tre decisero di ambientare le loro narrazioni lontano dalla contemporaneità: prendere le distanze dal soggetto significava poterlo osservare più chiaramente, nel suo insieme, offrendo, nel medesimo tempo, un’analisi lucida quanto spietata.
Benson, per esempio, in Lord of the World parla di un universo distopico in cui l’ “umanitarismo”, una sorta di religione laica basata sul culto dell’uomo, soppianta il cristianesimo. Alla propaganda anticlericale fa seguito la violenza e la comparsa, nel doppiopetto del politico, dell’Anticristo, colui che tenterà di sferrare l’ultimo e fatale colpo alla Chiesa. Anche Golding si muove nella stessa direzione, ma il mondo futuro devastato dal conflitto atomico incide in piccola parte sulla trama che vede protagonisti alcuni giovani naufraghi, soli e senza adulti su un’isola deserta; i ragazzi, dopo aver tentato inutilmente di stabilire una rudimentale gerarchia di compiti e ruoli, cadono presto vittima degli istinti ferini inaugurando una spaventosa carneficina. The Lord of the Rings, il massimo esponente del genere “fantasy”, colloca la storia in un universo totalmente altro chiamato “Terra di mezzo”. Qui, dopo secoli di quiescenza, il signore oscuro si è risvegliato e brama con i suoi eserciti di riprendere l’anello del potere, l’unico oggetto che gli permetterebbe di sottomettere le genti libere dell’ovest.
 
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A partire dalla presa di coscienza condivisa che il male, lungi dall’essere solo qualcosa di esterno, è parte dell’essere umano − anche un insospettabile come Golding parlava a questo proposito di “peccato originale” − ai tre autori si pose con urgenza la domanda se la malvagità fosse emendabile oppure se le tenebre fossero destinate a trionfare su una realtà inerme e corrotta. Ed è a questo punto che le risposte degli scrittori si differenziano notevolmente. Se in Lord of the World l’Anticristo riesce a conquistare la terra ma è schiacciato dalla seconda venuta del Figlio di Dio − che ha inizio nel momento in cui vengono uccisi gli ultimi cristiani − The Lord of the Rings fa del gesto generoso e disinteressato dei protagonisti l’antidoto per sconfiggere Sauron. Frodo, il portatore dell’anello, e con lui gli altri comprimari, riescono a trionfare nel momento in cui si scoprono capaci di superare limiti ed egoismi, di alzare lo sguardo oltre le maglie della tentazione per assaporare un orizzonte colmo di speranza (il tutto accompagnato da uno sguardo corale rintracciabile anche in Golding e Benson).
Nell’opera di Golding, al contrario, il male e la violenza hanno l’ultima parola. Significativa è la scena conclusiva del romanzo in cui i ragazzi, salvati da un gruppo di soldati, sono ricondotti in un mondo dilaniato dalla guerra, una versione adulta delle sanguinose caccie all’uomo che avvenivano sull’isola. Non esiste Grazia divina o possibilità di redenzione come in Benson e Tolkien; qui, soli con se stessi, i protagonisti vengono  lacerati dalla “bestia” che è in loro e di cui non riescono a liberarsi: il “signore delle mosche”, tragicamente rappresentato da una testa di maiale conficcata su un palo, alla fine ottiene la vittoria.
Nonostante le differenze, tra Benson, Tolkien e Golding vi è una profonda analogia, del resto tipica di un certo filone della letteratura britannica novecentesca, costretta a fare i conti con i morti e gli orrori di due guerre mondiali. L’asserzione che il progresso, l’inesorabile avanzare del tempo, corrisponda a una regressione è parte integrante della poetica di tutti e tre gli scrittori. Non si parla solamente di sviluppo materiale e tecnologico, quanto di un’idea storiografica generale per cui, con il passare degli anni, l’umanità è destinata a scendere sempre più negli abissi dell’abiezione e della corruzione morale.
 
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Al di là dei selvaggi moderni dipinti da Golding − che a questo tema dedicò il romanzo The Inheritors (Uomini nudi) − sorprende trovare il paradossale rapporto evoluzione-involuzione anche in lavori caratterizzati da una prospettiva ultimamente positiva come, appunto, Lord of the World e The Lord of the Rings. Nel primo caso il mondo, sempre più lontano dalla Chiesa, abbraccia l’apostasia, mentre nel libro di Tolkien, anche se il bene trionfa, l’epoca degli elfi, il popolo meno corrotto tra quelli che vivono nella Terra di mezzo, è ormai giunta al termine.
La risposta a questa apparente contraddizione si trova nella radice cattolica comune a entrambi gli autori. La Chiesa inglese, dai tempi di Elisabetta, era stata costretta a vivere nella clandestinità e la gerarchia ecclesiastica era stata rispristinata solo a metà del XIX secolo. Obbligati a vestire gli scomodi panni della minoranza perseguitata, i “papisti”, come venivano spregiativamente chiamati dai protestanti, maturarono una sensibilità peculiare rispetto a quella dei cattolici del continente, alieni da condizioni tanto dure. Convinti che la battaglia terrena fosse votata alla sconfitta, pur guardando con fiducia a Cristo anche diversi scrittori si adeguarono a questa vena di fatalismo tragico in temporibus. Non a caso Benson pubblicò numerosi romanzi storici dedicati alle persecuzioni anticattoliche e Tolkien lasciò tra le sue carte diverse annotazioni circa un possibile seguito di The Lord of the Rings in cui il male sarebbe ritornato per l’indolenza dell’uomo.
A prescindere dalle differenze che corrono tra essi, i tre “Lord” della letteratura inglese meritano dunque di essere letti e meditati perché mai come in questi testi l’anima dell’uomo sfibrata dal peccato ha trovato narratori all’altezza, ognuno capace con il proprio portato culturale di affrontare brillantemente un tema spesso dimenticato, eppure di capitale importanza. Per il lettore che avrà il coraggio di affacciarsi sul “cuore di tenebra” dell’umano descritto da R. H. Benson, J. R. R.Tolkien, e W. Golding le sorprese certamente non si faranno attendere.

Mondialismo e pace universale, ovvero il messianismo temporale della Sinagoga

Mondialismo e pace universale, ovvero il messianismo temporale della Sinagoga
 
Fonte: http://www.radiospada.org/
 
di Padre Louis-Marie OP. Digitalizzazione a cura di CdP Ricciotti. Dalla pagina 22 alla 28.
 
Dallo scritto: “Perché gli ebrei non credono in Gesù”, titolo originale “Pourquoi les juifs ne croient pas en Jésus”, apparso sulla rivista “Le Sel de la terre”, n° 59, Inverno 2006-2007, traduzione di un estratto (pagg. 4-46) a cura di Paolo Baroni, Ferrara 2015, Qui ut Deus?, stampato in proprio.
[…] La pace temporale non è una conseguenza diretta del cristianesimo, ma non gli è neanche estranea. Il pianeta Terra, che da secoli risuonava dello scontro delle armi e dei clamori guerrieri, sembrò calmarsi e raccogliersi quando si avvicinò la nascita del bambino-Dio. L’imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.) impose la pace universale, sia all’intemo dell’impero che alle sue frontiere, chiudendo, dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), le porte del tempio della guerra, quasi sempre aperte dalla fondazione di Roma.
Il mondo era in pace quando gli angeli vennero a cantare la notte di Natale: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà». La Chiesa cattolica divenne la custode di questa pace. Quando l’impero romano crollò sotto il peso delle invasioni barbare, la Chiesa non venne trascinata in questa fine, ma vinse pacificamente i barbari, mutando progressivamente il loro cuore; attirando gli uni ai monasteri, imponendo agli altri la «pace di Dio» o la «tregua di Dio», e, da queste orde che dovevano sommergerla, fece nascere le diverse nazioni della cristianità.
Gesù non ha mai preteso stabilire il paradiso in terra. Il loglio resta mescolato al buono grano (Mt 13, 41), e le atrocità non sono mancate anche all’interno del cristianesimo. Ma la predicazione costante della carità, e soprattutto l’esempio dei Santi, non rimasero senza frutti. La Chiesa protesse il matrimonio, e dunque le donne e i bambini. Seppe resistere ai re e agli imperatori quando si comportavano da tiranni. Essa soppresse poco a poco la schiavitù. Instaurò una società cristiana che, pur nelle sue miserie terrene, si è mostrata incontestabilmente più umana e più attenta ai deboli di tutte le civiltà pagane. Senza fornire direttamente la pace temporale, Gesù Cristo la dona in sovrappiù, nella misura in cui le nazioni si sottopongono alla Sua legge.
[…] E per concludere a proposito della profezia di Isaia, dedichiamo volentieri al rabbino Simmons l’esempio di uno dei suoi predecessori, così descritti da Tertulliano (155-230): «Paolo, da persecutore divenne Apostolo; egli, che prima versava il sangue della Chiesa, cambiò la sua spada in uno stiletto e trasformò la sua ascia in un vomere da arare» – [Schiavitù, superstizioni, sacrifici umani, tirannide dei sovrani, sop­pressione dei bambini indesiderati, sfruttamento della donna, ecc…: ecco i mali dai quali il cristianesimo ha liberato l’umanità. Occorre ricordare che la vita umana non valeva quasi nulla nell’impero romano, almeno quella dei neonati, degli schiavi o dei gladiatori? E che nessuna autorità religiosa era in grado di porre dei limiti ai capricci dell’imperatore, che giunse anche a farsi adorare come un dio?]
Quarto compito del Messia: «Diffondere la conoscenza universale del Dio d’Israele che riunirà l’umanità formando un solo popolo». Quelli che sanno distinguere la religione dalla politica […], riportano evidentemente questa promessa nell’ordine religioso. E constatano allora che essa si è realizzata, poiché una società unica che ha riunito nel suo seno tutte le nazionalità, senza mescolarle né confonderle, ha sparso nel mondo intero la conoscenza del Dio unico rivelatosi per primo a Israele. Al contrario, coloro che sognano ancora un messianismo essenzialmente temporale interpretano queste promesse di unificazione mondiale in modo umano (naturale, politico, terreno), ne concludono che ancora non sono state compiute. Per risolvere queste due interpretazioni concorrenti, è sufficiente paragonare i frutti visibili dell’una e dell’altra, così come la loro logica interna.
[…] «È meglio un uovo oggi che una gallina domani», dice il proverbio. La Chiesa cattolica ha già un grande vantaggio sul «popolo unico» atteso dagli ebrei: esso esiste già! Questa esistenza è indiscutibile poiché la Chiesa possiede un’unità esterna e un’universalità facilmente riscontrabili anche da chi non ha la fede. Storicamente parlando, il cristianesimo è la prima religione universale. Mentre ogni popolo (od ogni famiglia di popoli) aveva le sue divinità nazionali, essa li ha condotti alla fede nel Dio unico. La Chiesa ha conquistato tutta la terra, ma nella pace, senza violentare nessuno, subendo al contrario lunghe e sanguinose persecuzioni. Il paragone con l’islam (che è stata la seconda religione universale della storia, e sotto molti aspetti, una contraffazione della prima) è a questo riguardo assai illuminante. L’universalismo del cristianesimo è un universalismo di pace (da due millenni, il cristianesimo genera continuamente frutti di pace: i Santi). Si può dire altrettanto del messianismo temporale?
[Probabilmente si opporranno a questa affermazione i soliti luoghi comuni sull’inquisizione, sulle crociate e sulla conquista delle Americhe. Basta qui rispondere che né l’inquisizione né le crociate avevano lo scopo di convertire al cristianesimo. La prima si prodigava a proteggere la fede dei cristiani già battezzati; le seconde a liberare la Palestina – terra cristiana invasa dall’islam – affinché i pellegrini potessero recarvisi senza pericolo. Né l’una né le altre sono state delle imprese di conversione forzata. Quanto all’America Latina, essa è stata conquistata con la forza delle armi dalla Spagna e dal Portogallo, non dalla Chiesa. Quest’ultima ha diffuso il cristianesimo con la predicazione, con l’esempio e per mezzo dei miracoli, come d’altronde è accaduto ovunque. Fu grazie ai miracoli – e senza mai ricorrere alla violenza – che San Louis Bertrand (1526-1581) operò decine di migliaia di conversioni in Colombia; furono le apparizioni della Madonna di Guadalupe (1531) che convertirono il popolo messicano, ecc…] (qui approfondimenti).
[…] Quali sono, da duemila anni a questa parte, le grandi imprese universalistiche ispirate dal messianismo temporale? L’islam, di cui non si è ancora finito di censire le vittime [Sulle origini giudeo-nazarene dell’islam, vedi la tesi di É.-M. Gallez, Le Messie et son prophète. Aux origines de l’islam («Il Messia e il suo profeta. Alle origini dell’islam»), Editions de Paris, 2005. Ma indipendentemente da que­ste opere storiche, la dipendenza dell’islam dal messianismo temporale ebraico è più che evidente]; Le utopie rivoluzionarie [«La nuova Gerusalemme sarà ovunque trionferà l’idea francese della Rivoluzione», dichiarava Maurice Bloch (cit. in M.-J. Lagrange o.p., Le Messianisme chez les juifs 150 a.C. à 200 d.C., Gabalda, Parigi 1909, pag. 331)], e in particolare il comunismo, responsabile di più di cento milioni di morti [Sul ruolo degli ebrei nel comunismo, vedi in particolare A. Sol°enicyn, Deux siècles ensemble («Due secoli insieme»), vol. II, Fayard, Parigi 2003]; E oggi, l’ideologia «mondialista» (eliminiamo le frontiere!) [Vedi H. Ryssen, Les espérances planétariennes («Le speranze planetarie»), Ed. Baskerville, Levallois, 2005. Questo libro mostra molto bene come l’uto­pia del messianismo temporale insita nel comunismo, sottende oggi l’ideo­logia mondialista, ma manca di spirito cristiano. Le critiche voltairiane contro la Bibbia (pagg. 204-208) sono particolarmente sgradevoli , di cui si può dubitare ragionevolmente che faccia la felicità dell’umanità].
Ogni storico può rimanere colpito solamente dalla forza apparentemente irresistibile con la quale queste utopie mortifere – contrarie al più elementare buon senso – si impongono tutto d’un tratto come una marea montante ad una grossa porzione dell’umanità. Anche i più materialisti tra loro – gli ideologi marxisti – sembrano animati da un fervore quasi religioso, come da un soffio mistico. Il fatto è che tutti attingono più o meno direttamente la loro forza dalla speranza messianica d’Israele. Speranza di origine divina, certamente, per essere portatrice di una tale energia, ma sicuramente deviata per essere all’origine di tanti disastri. Le follie moderne non sono «idee cristiane diventate pazze» [«World full of Christian ideas gone mad» (cfr. G. K. Chesterton, Orthodoxy, 1908)], ma idee ebraiche: la speranza messianica distolta dal suo vero oggetto (la salvezza eterna) e applicata all’ordine temporale. Il peggio è che il messianismo temporale sopravvive ai disastri che genera. E continuerà a generarne di nuovi perché, secondo il rabbino Simmons che evoca su questo punto l’autorità di Maimonide, «ogni generazione contiene nel suo seno un individuo che avrebbe la capacità di diventare il Messia».
[…] Dopo i frutti (di pace da un lato, di morte dall’altro), paragoniamo la logica interna dell’universalismo cattolico con quella del messianismo temporale. La speranza del rabbino di «riunire l’umanità formando un solo popolo» conduce immediatamente ad una domanda: il popolo ebraico è dunque chiamato a fondersi con le altre nazioni per formare un po­polo unico? In questo caso, come conserverà tutte le prerogative cui il rabbino si mostra così attaccato? Ma se rifiuta di mescolarsi agli altri, cosa sta ad indicare questo «popolo unico»? In questo caso, diventa palpabile la formidabile contraddizione interna della speranza messianica ebraica. Ed è stato necessario, in realtà, che Dio stesso in­tervenisse per risolverla, facendo comprendere agli Apostoli che la Chiesa non poteva aprirsi all’umanità intera che abbandonando le particolarità ebraiche (At 10 e 11). «Non vi è più giudeo né greco – esclama San Paolo – […] ma tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù. E se voi siete di Cristo siete seme di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,28-29). In altre parole, i criteri di appartenenza al popolo eletto non sono più razziali (la discendenza fisica da Abramo), ma spirituali (l’incorporazione mistica a Cristo – Abramo fu cristiano in voto, NdR). La Sinagoga ha rifiutato questa realtà, temendo soprattutto di perdere il suo statuto speciale. E allo stesso tempo ha rinnegato la profezia del «popolo unico». L’attuale giudaismo rimprovera vivamente alla Chiesa di proclamarsi il «nuovo Israele». Per esso si tratta di una pretesa inammissibile. Ma questa «pretesa» manifesta proprio la splendente realizzazione della profezia messianica. E nella Chiesa (il «nuovo Israele») che si avvera l’oracolo di Zaccaria: «Gerusalemme sarà priva di mura, per la moltitudine di uomini e di animali che dovrà accogliere. Io stesso – parola del Signore – le farò da muro di fuoco all’intorno e sarò una gloria in mezzo ad essa» (Zc 2, 8-9).
Augustin Lémann, un illustre convertito dal giudaismo, commentava: «Questa metafora indica che la vecchia Gerusalemme era solamente la figura di un regno che sarebbe stato assai diverso, poiché la sua superficie non potrebbe essere determinata in modo umano. Essa avrà il suo compimento nella Chiesa di Cristo, regno spirituale e universale» […]
[…] Se l’universalismo messianico degli ebrei è intrinsecamente contraddittorio (e dunque irrealizzabile), l’universalismo cattolico può sembrare, a prima vista, del tutto paradossale. Ma esso ha l’immenso vantaggio di essere un paradosso realizzato, un paradosso vivente. La Chiesa costituisce una vera società universale (in greco, «cattolico» significa «universale») dotata di una solida unità di governo, di dottrina e di culto [note distintive oggi messe in discussione dalla crisi innescata dal vaticanosecondo, non a caso concordato con la Sinagoga, NdR] – [Mentre tutte le altre società religiose si mettono rapidamente al servizio del potere politico, come le chiese scismatiche orientali (i cosiddetti «ortodossi»), gli anglicani, i protestanti, i musulmani, ecc…, la Chiesa cattolica è sempre riuscita a liberarsi dai poteri che tentavano di asservirla]; i suoi membri gli sono più attaccati che alla loro patria terrena, e persino di più che alla loro vita; e tuttavia, lungi dallo sciogliere le nazionalità, la Chiesa cattolica ne ha fatto nascere numerose. Charles Maurras (1868-1952), un teorico nazionalista che non aveva la fede, ha dovuto riconoscere che questa società sovranazionale, lungi dal nuocere alle nazioni, le aveva largamente beneficate; egli l’ha definita anche come «l’unica internazionale che valga» [quello che, invece, hanno dimostrato di non aver mai accettato o capito anche i politici nostrani, NdR]. Il fatto è che la Chiesa si trova su di un altro ordine rispetto alle nazioni temporali. Il suo sviluppo non potrebbe dunque disturbarle, ma al contrario esse approfittano della sua azione moralizzatrice.
A chi obiettasse che la Chiesa non ha ancora riunito tutta l’umanità nel suo seno, bisognerebbe dare due risposte distinte.
Innanzi tutto, nulla impedisce, prima della fine del mondo, un trionfo universale della santa Chiesa che realizzerebbe completamente la profezia messianica (senza tuttavia stabilire il paradiso sulla terra, giacché gli uomini resteranno peccatori e la Chiesa minacciata dalla tiepidezza). Gli ebrei stessi raggiungeranno in questo momento l’unica Chiesa. Ma anche coloro che rifiutano questa speranza dovranno convenire che la Chiesa è già una società universale evoluta presso tutti i popoli del mondo. E dunque, essa realizza già la profezia del popolo unico [Si può notare che, globalmente, malgrado le persecuzioni e le diverse crisi che possono essere interpretate come «variazioni stagionali», ininfluenza della Chiesa sulla terra è sempre stata crescente]. «Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» (Is 52,10; SI 97, 3).
di Padre Louis-Marie OP. Digitalizzazione a cura di CdP Ricciotti. Dalla pagina 22 alla 28.
Dallo scritto: “Perché gli ebrei non credono in Gesù”, titolo originale “Pourquoi les juifs ne croient pas en Jésus”, apparso sulla rivista “Le Sel de la terre”, n° 59, Inverno 2006-2007, traduzione di un estratto (pagg. 4-46) a cura di Paolo Baroni, Ferrara 2015, Qui ut Deus?, stampato in proprio.