giovedì 24 dicembre 2015

Principe Gioacchino di Prussia: la triste storia di un Re mancato


Principe Gioacchino di Prussia
Il Principe Gioacchino di Prussia, il cui nome completo era Gioacchino Francesco Umberto, nacque a Berlino il 17 dicembre 1890. Era l'ultimo figlio maschio dell'Imperatore Guglielmo II di Germania, e della sua prima moglie, Augusta Vittoria di Schleswig-Holstein-Sonderburg-Augustenburg.  Crebbe con una severa educazione, cosa accaduta a tutti i suoi fratelli.
Allo scoppio della Grande Guerra, la subì direttamente fin dal principio. 
L'11 marzo 1916 Gioacchino sposò la principessa Maria Augusta di Anhalt (10 giugno 1898-22 maggio 1983), figlia di Edoardo di Anhalt e di Luisa Carlotta di Sassonia-Altenburg (figlia di Maurizio di Sassonia-Altenburg). La coppia ebbe un figlio:
  • Carlo Francesco Giuseppe di Prussia (15 dicembre 1916–22 gennaio 1975).
Sua moglie Maria Augusta fu la madre adottiva di Frédéric Prinz von Anhalt, marito dell'attrice Zsa Zsa Gabor.

Durante la sollevazione di Pasqua del 1916, divampata a Dublino contro l'oppressione del governo di Londra, alcuni leader repubblicani contemplarono la possibilità di dare la corona di un'Irlanda indipendente al Principe Gioacchino.
Dopo la dichiarazione di indipendenza della Georgia in seguito alla rivoluzione bolscevica che sovvertì l'Impero Russo nel 1917, Gioacchino fu considerato, dal rappresentante tedesco Friedrich Werner von der Schulenburg e dai monarchici georgiani, come candidato al trono georgiano.

Purtroppo la guerra si concluse in maniera nefasta per gli Imperi Centrali, e il Principe Gioacchino ne subì interiormente tutte le conseguenze. Dopo l'abdicazione del padre, Gioacchino trovò difficile accettare le cose per come erano andate, con il suo nuovo status di "uomo comune" e cadde in una grave depressione, che alla fine lo portò a togliersi la vita con un colpo di pistola il 18 luglio 1920, a 30 anni.
Si dice che era in difficoltà finanziarie e soffriva da "grande depressione mentale". Suo fratello, il principe Eitel Federico, commentò che soffriva di "una misura di eccessiva demenza". Prima della sua morte, il Principe Gioacchino aveva recentemente divorziato dalla moglie.

Fonte:
  1. Daisy, Princess of Pless, ed. Desmond Chapman-Huston, Murray, London, 1928, p. 324, ASIN: B00086RUJU
  2. ^ Desmond FitzGerald, Desmond's Rising; Memoirs 1913 to Easter 1916, Liberties Press, Dublin, 1968 e 2006, p.143
  3. ^ (FR) Georges Mamoulia (2006), "Le Caucase dans les plans stratégiques de l’Allemagne (1941-1945)". Centre d'études d'histoire de la defense 29: 53
  4. ^ a b Kaiser's Youngest Son, Joachim Shoots Himself, in The New York Times, Berlin, 18 luglio 1920.
  5. ^ Two of ex-Kaiser's Sons Bring Suits For Divorce, in The New York Times, Paris, 8 gennaio 1920.

Di Redazione A.L.T.A.

mercoledì 23 dicembre 2015

A Cesare sì, a Dio no

39279_georges-pontier-marseille_440x260

Fonte: http://www.radiospada.org/

In rete troviamo questo contributo su laicità/laicismo, separazione Stato/Chiesa e “libertà religiosa”; volentieri lo offriamo ai nostri lettori. [RS]

di don Gabriele D’Avino

Un distinto gentiluomo in giacca e maglione (si tratta di mons. Georges Pontier, Arcivescovo di Marsiglia e Presidente della Conferenza Episcopale Francese) si è sentito in dovere, il 4 dicembre scorso, di pubblicare una dichiarazione a nome dell’episcopato gallico sulla celebre legge del 1905 relativa alla separazione tra la Chiesa e lo Stato in Francia, legge di cui ricorre il 110° anniversario in questi giorni. Nessuno, ma proprio nessuno glielo aveva chiesto né sollecitato.
Eppure, il prelato ha preso spunto da questo deplorevole anniversario per sottolineare come, pur essendo “buona” secondo lui la legge, è stata tuttavia mal interpretata e ha portato non ad una “laicità dello Stato” ma ad una “laicizzazione della società”.
A parte il fatto che ci sfugge la realtà della distinzione tra i due termini, è evidente l’intento di mons. Pontier di evitare una stigmatizzazione (non già dei cattolici che lui rappresenta!) di tutti i credenti, cosa che impedirebbe loro di “esprimersi come cittadini”: l’argomento è che, secondo lui, non bisogna esagerare nell’applicare la legge fino a relegare la religione (si badi, una qualsiasi, non necessariamente il cattolicesimo) nella sfera privata, altrimenti si rischia “l’emergenza di correnti e attitudini fondamentaliste”. Un po’ relegati, insomma, ma non troppo. Basterebbe che, a suo dire, “la legge fosse applicata con vigilanza e rispetto”.
Si dirà: già visto e rivisto, è la solita applicazione della solita libertà religiosa, ampiamente condannata dai papi dell’800 e del primo ‘900, affermata invece con forza dall’ultimo Concilio come diritto inalienabile. Certo, tuttavia può essere interessante rinfrescare la memoria su un episodio storico ben preciso, cioè che la promulgazione di questa legge fu oggetto di una precisa, diretta e solenne condanna da un’enciclica scritta ad hoc: la Vehementer nos di Papa San Pio X, dell’11 febbraio 1906.
La legge in questione inizia col dire che “la Repubblica assicura la libertà di coscienza” ma che “non riconosce né finanzia né sovvenziona alcun culto”. Il prelato dalla memoria corta afferma che il testo legislativo è atto a “favorire l’esercizio delle libertà”, e che perciò “la Chiesa cattolica, da qualche decennio, non rimette in causa questa legge ma la rispetta”. Linguaggio politicamente corretto che avrebbe fatto inorridire papa Sarto il quale, senza mezzi termini, nella lettera enciclica pubblicata tre mesi dopo la promulgazione della legge iniqua tuona: “È questo un avvenimento gravissimo, e tutte le anime buone devono deplorarlo”.
Questo provvedimento legislativo, infatti, si basa su una tesi perniciosa; dice ancora il Sommo Pontefice: “È una tesi falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa”; e ancora, il principio secondo cui lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso “è assolutamente ingiurioso verso Dio, poiché il Creatore dell’uomo è anche il fondatore delle società umane”. La Chiesa, si vede bene, la Chiesa di sempre, non rispetta affatto questa legge…
A fondamento della sua zoppicante tesi, il Vescovo francese, per dimostrare che la Chiesa riveste qualche importanza cita le sole opere naturali a cui essa si dedicò: “l’educazione, la sanità, la cultura, la promozione sociale, il sostegno alle famiglie, la presenza presso i giovani”, come se questo fosse l’unico compito della società fondata da Gesù Cristo. Lo ricorda bene San Pio X, insistendo sul fatto che la tesi della laicità dello Stato “è un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale”, proprio perché il compito della società civile sarebbe ridotto alla sola prosperità materiale, come se l’uomo non avesse altro fine. Ma l’uomo ha un fine soprannaturale, e se la conquista della beatitudine eterna non è diretto appannaggio dello Stato, esso deve necessariamente non solo non impedirla, ma “aiutarci a compierla” (cit. dall’Enciclica) appunto favorendo la vera religione.
Mons. Pontier sembra poi dimenticare del tutto che la legge del 1905 non si limita solo ad enunciare princìpi teorici, ma mette in atto una vera e propria spoliazione dei beni della Chiesa, togliendole la proprietà di tutti gli edifici di culto che (ed erano solo una parte!) con il Concordato napoleonico del 1801 erano stati restituiti alla Santa Sede come risarcimento parziale delle spoliazioni della Rivoluzione. Insomma, “date a Cesare quel che è di Cesare ma pure quel che è di Dio”.
La gestione degli edifici di culto (chiese, monasteri, ecc.) viene infatti affidata, come leggiamo nel Titolo III e IV del testo legislativo del 1905, a delle Associazioni “culturali” di laici, le quali sono, in ultima istanza, sottoposte al controllo del Consiglio di Stato. Queste misure, rimproverò con veemenza il Santo Padre, “mettono odiosamente la Chiesa sotto il dominio del potere civile”; e ancora: “lo Stato così offende la Chiesa”. Ecco perché l’enciclica si conclude in maniera impetuosa, con le forti parole che oggi la gerarchia ecclesiastica non è più in grado di pronunciare: “noi riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa dallo Stato come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente”. Com’è possibile che oggi la “Chiesa” rispetti questa legge?
Mons. Pontier è figlio ed erede della nuova teologia e della “nuova religione” della libertà di culto. Egli non fa che applicare l’ermeneutica della continuità, senza dubbio. Ma il suo comunicato del 4 dicembre, del tutto gratuito, fatto a nome di un’intera conferenza episcopale, non è la voce della Chiesa, non è la voce di un suo ministro ma di un suo nemico che, oggi come ieri, trama contro di essa e per la sua distruzione, sebbene con sorrisi smaglianti e con la falsa pretesa di salvaguardarne i diritti.
Sant’Ignazio di Loyola, al num. 22 degli Esercizi Spirituali (è il “presupposto”) dice che “ogni buon cristiano deve essere più propenso a salvare l’affermazione del prossimo che a condannarla: se non può giustificarla, indaghi come è intesa […]”.
Abbiamo girato e rigirato tra le mani tanto la dichiarazione della Conferenza Episcopale, quanto la Vehementer nos di San Pio X; abbiamo provato in tutti i modi a interpretare bene o a salvare le affermazioni dell’Arcivescovo di Marsiglia.

Ci dispiace.
Non ci siamo riusciti.


Fonte

Leader ebraico: ‘I cristiani sono vampiri succhiasangue’ che vanno espulsi da Israele

gopstein

Fonte: http://www.radiospada.org/

Benzi Gopstein, leader di Lehava, chiede a gran voce di bandire il Santo Natale: “Rimuoviamo i vampiri (cristiani) prima che bevano il nostro sangue. Non c’è posto il Natale in Terrasanta”.
Gopstein continua, in un articolo nel sito Haredi Kooker, dicendo di essere disturbato dalla “caduta delle linee di difese degli ebrei contro il nostro nemico giurato per centinaia di anni, la Chiesa Cattolica” che “avrebbe usato il massimo delle risorse a sua disposizione per distruggere il popolo ebraico” e che “la Chiesa è stata sconfitta completamente dal momento che il popolo ebraico ha uno dei più forti eserciti del mondo.”
In ogni caso, per quanto si dica rasserenato dall’IDF, continua: “Questi succhiatori di sangue hanno un’ultima missione. Se gli ebrei non possono essere uccisi, possono ancora essere convertiti. Le biblioteche missionarie vendono i loro libri davanti a tutti a Jaffa Road (Gerusalemme), molti altri hanno imprese qui.”


Nota di RS: per prevenire le prevedibili quanto ridicole accuse di antisemitismo, rimandiamo all’articolo originale su Haaretz
Cosa dire, attendiamo la condanna della Boldrini e le scuse di Bergoglio per i cristiani che tentano di convertire queste povere vittime 

lunedì 21 dicembre 2015

VERDI SCRISSE TERRIBILI PAROLE SULL’ITALIA UNITA. da un vecchio articolo di Repubblica

Milo Boz (Fonte: http://venetostoria.com/) 
 
MI0001185327Ecco per esteso, l’articolo di Repubblica del 1996 che parla della lettera di Verdi, piena di sentimenti anti unitari. grazie a Fabio Lovato che mi ha segnalato il link assieme ad altri sullo stesso argomento.
QUANDO VERDI DICEVA ‘ MEGLIO L’ ITALIA DIVISA’
BUSSETO – Fischiate pure, melomani filo-romani: oggi il vostro Giuseppe Verdi voterebbe Lega. Lo giura il suo sindaco, cioè il sindaco di Busseto, Parma, Giorgio Cavitelli, ex senatore del Carroccio; e porta prove schiaccianti, le parole stesse del Grande Concittadino, scritte nero su bianco in una lettera datata 16 giugno 1867, appena sette anni dopo l’ Unità d’ Italia: “Cosa fanno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! Ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri. Quando i padroni dei fondi non potranno, per troppe imposte, far più lavorare, allora moriremo tutti di fame. Cosa singolare! Quando l’ Italia era divisa in tanti piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze d’ una volta?“.
Cavitelli, ragioniere, sindaco dal ‘ 93, un’ impressionante somiglianza con Arrigo Sacchi, è l’ uomo che ha portato Bossi all’ Arena di Verona, a prender fischi (“Non più di cento persone…”). E adesso, per rivincita, eccolo sventolare la fotocopia che sta per faxare a Bossi: “E’ una lettera che Verdi scrisse al conte Opprandino Arrivabene, suo collega nel primo Parlamento del Regno. E’ già stata pubblicata in un paio di libri, ma naturalmente nessuno la cita mai”. Andiamo, signor sindaco: capisco la ragion di partito, ma non vorrà mica rovesciare come un calzino un mito nazionale: il Verdi che infiammava gli animi dei carbonari, il Verdi dei volantini “Viva V.E.R.D.I.” che inneggiavano al Re e all’ Italia unita, adesso lo vuol far passare come un precursore della rabbia fiscale, come l’ inventore del “Roma ladrona”?
Queste sono le sue parole, e mi sembrano chiare… Guardi che Verdi era unitario soprattutto perché era antiaustriaco, voleva la libertà dall’ oppressore straniero, la stessa cosa che vogliamo noi, la libertà del popolo padano dall’ oppressione di Roma. Il Nabucco canta la libertà di un popolo, non l’ unità d’ Italia: per questo penso che il ‘ Va’ pensiero’ sarà l’ inno ufficiale del nostro 15 settembre“.
E lei, sindaco di Busseto, la Betlemme del melodramma, lascerà che quel canto diventi un inno di partito? E’ un patrimonio di tutti… “Guardi, l’ hanno usato per la pubblicità di un ferro da stiro e nessuno ha protestato: non sarò io a oppormi se viene usato per una causa più nobile. Meglio per un’ idea che per una merce”. Però glielo poteva dire prima, a Bossi, che nel Nabucco non c’ è nessun coro dei Lombardi. “Non è un melomane, è un entusiasta… Può capitare a tutti di confondere una romanza con l’ altra“.
m s
23 agosto 1996

sabato 19 dicembre 2015

Eroi della Grande Guerra: il Principe Heinrich di Baviera

Principe Heinrich di Baviera.

Heinrich nacque a Monaco di Baviera il 24 giugno 1884. Egli era l'unico figlio del Principe Arnolfo di Baviera e di sua moglie la Principessa Teresa del Liechtenstein. Apparteneva alla famiglia Reale dei Wittelsbach.
Heinrich crebbe a Monaco di Baviera dove ricevette la propria educazione. Uno dei suoi precettori fu Joseph Gebhard Himmler, il padre di Heinrich Himmler. Himmler padre era un ardente realista che, in seguito alla nascita del suo secondo figlio, chiese di chiamarlo come il Principe- Heinrich. Il Principe accettò e divenne anche il padrino di Heinrich Himmler.  I rapporti tra il Principe e il suo figlioccio furono stretti , come dimostra la corrispondenza conservata tra Gebhard e il Principe. A  Natale Himmler riceveva regolarmente la visita del Principe e di sua madre .

All'età di 17 anni, dopo la maturità, Heinrich si arruolò nell'esercito bavarese con il grado di tenente. Inizialmente, servì nell'armata bavarese del Infanterie-Leib-Regiment. Quattro anni più tardi entrò a far parte del 1. Schweren Reiter-Regiment, Prinz Karl von Bayern“.
Il Principe Heinrich di Baviera
nel 1916.
Dopo lo scoppio della Grande Guerra, il Principe Heinrich non si tirò indietro e partì per il fronte con il suo reggimento. Vide l'azione sul fronte occidentale, dove venne gravemente ferito. Una volta guarito, tornò al suo vecchio reggimento di fanteria e nel giugno 1915, venne promosso a Maggiore. Nello stesso periodo, venne messo a capo del III. Battaglione del neo costituito Deutsches Alpenkorps di stanza nelle Alpi Carniche. Alla fine del 1916, il battaglione venne trasferito in Romania, dove  combatté a Turnu Roşu Pass. Durante l'offensiva tedesca seguente a Monte Sule da Hermannstadt (Sibiu) nelle Alpi  Transilvane, il 7 novembre 1916, Heinrich venne ferito a morte da un cecchino mentre svolgeva con indomito coraggio il suo dovere. Morì  il giorno seguente, l'8 novembre 1916, a 32 anni.

Il corpo di Heinrich venne trasportato a Monaco, dove fu sepolto al fianco di suo padre al Theatinerkirche. Il 6 marzo 1917, per la sua eccezionale bravura, postumo venne insignito della Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Max Joseph. In precedenza era stato premiato con la Croce di Ferro di 1 ° classe in seguito all'azioni nel giugno 1916.


Bibliografia:

  • Peter Longerich, Heinrich Himmler: A Life, Oxford: Oxford University Press. ISBN 978-0-19-965174-0
    • Jirí Louda and Michael MacLagan, Lines of Succession: Heraldry of the Royal Families of Europe, 2nd edition (London, U.K.: Little, Brown and Company, 1999)
    • Breitman, Richard (2004). Himmler and the Final Solution: The Architect of Genocide. Pimlico, Random House, London. ISBN 1-84413-089-4.

      
    Di Redazione A.L.T.A.
      

    venerdì 18 dicembre 2015

    L’ANNESSIONE al Piemonte, gli italiani non volevano “insorgere”, ce lo spiega Angela Pellicciari.

    di Angela Pellicciari
     
    Plebiscito1860: plebisciti indetti in mezza Italia per manifestare la volontà popolare di annessione al Piemonte. L’allora capo della polizia politica confessa la falsificazione dei risultati. Minaccia di morte ai tipografi che avessero stampate le schede contrarie all’annessione. Una vera truffa.
    [Da “il Timone” n. 28, Novembre/Dicembre 2003]
    Bisogna dire che la favola dell’unità d’Italia realizzata dai Savoia e dai liberali, in nome della costituzione e della libertà, è stata ben raccontata. E ancora meglio ripetuta. I popoli — si diceva (e si continua a ripetere) — “gemevano” sotto il giogo del malgoverno papalino e borbonico. I popoli, dunque, andavano liberati e Vittorio Emanuele era lì pronto per l’occasione. Cuore forte e magnanimo, il Re di Sardegna si sarebbe mosso solo perché intenerito dal pianto di coloro (tutti gli italiani) che giustamente aspiravano ad una vita da uomini liberi e non da schiavi.
    Questa leggenda, dicevo, è stata propagandata con cura. Peccato sia radicalmente falsa. Prima di invadere (senza dichiarazione di guerra, e sempre negando, come nel Meridione, la propria diretta partecipazione all’impresa) uno dopo l’altro tutti gli Stati italiani, il governo sardo-piemontese ha fatto in modo che avvenissero “sollevazioni spontanee” in favore dei Savoia. Si trattava di garantire il buon nome del re sabaudo di fronte all’opinione pubblica italiana e straniera.
    Ecco cosa scrive Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour, in una lettera a Filippo Bartolomeo: “È necessario che l’opera sia cominciata dai popoli: il Piemonte verrà chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla conquista, e si tirerebbe addosso coalizione europea”. Il re Vittorio Emanuele — continuava — dice: “io non posso stendere la mia dittatura su popoli che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pretesto alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno”.
    Fatto sta che, nonostante il gran daffare che si sono dati, i liberali sono riusciti ad organizzare le “insorgenze” popolari solo a Firenze, a Perugia e nei ducati. A Napoli come a Roma non ‘è stato nulla da fare. E dove pure sono riusciti ad organizzarle, lo hanno fatto con la corruzione e la frode. A Firenze, per esempio, a “insorgere” sono stati un’ottantina di carabinieri fatti venire per l’occasione da Torino e spacciati per popolani toscani da Carlo Boncompagni, ambasciatore sardo in città. Quando si dice la fantasia! Questa di certo non difettava alla classe dirigente piemontese, desiderosa di conquistare un regno prestigioso come l’Italia.

    Fonte: http://venetostoria.com/

    giovedì 17 dicembre 2015

    Dobbiamo accettare o rifiutare l’immigrazione? Qualche utile riflessione di San Tommaso d’Aquino


    Fonte: http://www.radiospada.org/
    Il problema dell’immigrazione non è nuovo. Se n’è già occupato nel secolo XIII S. Tommaso d’Aquino nella sua celebre Summa Theologica (I-II, Q. 105, Art. 3). Ispirandosi agli insegnamenti delle Sacre Scritture, relativi al popolo ebreo, il Dottor Angelico stabilisce con chiarezza quali siano i limiti dell’accoglienza agli stranieri. Forse possiamo trarne qualche lezione.

    stommaso
    S. Tommaso: “Con gli stranieri ci possono essere due tipi di rapporti: l’uno di pace, l’altro di guerra. E rispetto all’uno e all’altro la legge contiene giusti precetti”.
    S. Tommaso afferma, dunque, che non tutti gli immigranti sono uguali, perché i rapporti con gli stranieri non sono tutti uguagli: alcuni sono pacifici, altri conflittuali. Ogni nazione ha il diritto di decidere quale tipo di immigrazione può essere ritenuta pacifica, quindi benefica per il bene comune; e quale invece ostile, e quindi nociva. Come misura di legittima difesa, uno Stato può rigettare elementi che ritenga nocivi al bene comune della nazione.
    Un secondo punto è il riferimento alla legge, sia divina sia umana. Uno Stato ha il diritto di applicare le proprie leggi giuste.
    L’Angelico passa poi all’analisi dell’immigrazione “pacifica”.
    S. Tommaso: “Infatti gli ebrei avevano tre occasioni per comunicare in modo pacifico con gli stranieri. Primo, quando gli stranieri passavano per il loro territorio come viandanti. Secondo, quando venivano ad abitare nella loro terra come forestieri. E sia nell’un caso come nell’altro la legge imponeva precetti di misericordia; infatti nell’Esodo si dice: ‘Non affliggere lo straniero’; e ancora: ‘Non darai molestia al forestiero’”.
    Qui S. Tommaso riconosce che ci possano essere stranieri che, in modo pacifico e quindi benefico, vogliano visitare un altro paese, oppure soggiornarvi per un certo periodo. Tali stranieri devono essere trattati con carità, rispetto e cortesia, cosa richiesta ad ogni uomo di buona volontà. In tali casi, la legge deve proteggere questi stranieri da qualsiasi sopraffazione.
    S. Tommaso: “Terzo, quando degli stranieri volevano passare totalmente nella loro collettività e nel loro rito. In tal caso si procedeva con un certo ordine. Infatti non si riceveva subito come compatrioti: del resto anche presso alcuni gentili era stabilito, come riferisce il Filosofo, che non venissero considerati cittadini, se non quelli che lo fossero stati a cominciare dal nonno, o dal bisnonno”.
    In terzo luogo, S. Tommaso menziona coloro che vogliono stabilirsi nel paese. E qui il Dottor Angelico mette una prima condizione per accettarli: il desiderio di integrarsi perfettamente nella vita e nella cultura della nazione ospitante.
    Una seconda condizione è che l’accoglienza non sia immediata. L’integrazione è un processo che richiede tempo. Le persone devono adattarsi alla nuova cultura. L’Angelico cita anche Aristotele, il quale afferma che tale processo può richiedere due o tre generazioni. S. Tommaso non stabilisce un tempo ideale, affermando soltanto che esso può essere lungo.
    S. Tommaso: “E questo perché, ammettendo degli stranieri a trattare i negozi della nazione, potevano sorgere molti pericoli; poiché gli stranieri, non avendo ancora un amore ben consolidato al bene pubblico, avrebbero potuto attentare contro la nazione”.
    L’insegnamento di S. Tommaso, fondato sul senso comune, suona oggi politicamente scorretto. Eppure, è perfettamente logico. L’Angelico evidenzia che vivere in un’altra nazione è cosa molto complessa. Ci vuole tempo per conoscere gli usi e la mentalità del Paese e, quindi, per capire i suoi problemi. Solo quelli che vi abitano da molto tempo, facendo ormai parte della cultura del Paese, a stretto contatto con la sua storia, sono in grado di giudicare meglio le decisioni a lungo termine che convengano al bene comune. È dannoso e ingiusto mettere il futuro del Paese nelle mani di chi è appena arrivato. Anche senza colpa, costui spesso non è in grado di capire fino in fondo cosa stia succedendo, o cosa sia successo, nel Paese che ha scelto come nuova Patria. E questo può avere conseguenze nefaste.
    Illustrando questo punto, S. Tommaso nota come gli ebrei non trattavano tutti i popoli in modo uguale. Vi erano nazioni più vicine e, quindi, più facilmente assimilabili. Altre, invece, erano più lontane o addirittura ostili. Alcuni popoli ritenuti ostili non potevano essere accettati in Israele, vista appunto la loro inimicizia.
    S. Tommaso: “Ecco perché la legge stabiliva che si potessero ricevere nella convivenza del popolo alla terza generazione alcuni dei gentili che avevano una certa affinità con gli ebrei: cioè gli egiziani, presso i quali gli ebrei erano nati e cresciuti, e gli idumei, figli di Esaù fratello di Giacobbe. Invece alcuni, come gli ammoniti e i moabiti, non potevano essere mai accolti, perché li avevano trattati in maniera ostile. Gli amaleciti, poi, che più li avevano avversati, e con i quali non avevano nessun contatto di parentela, erano considerati come nemici perpetui”.
    Le regole, però, non devono essere rigide, possono ammettere eccezioni:
    S. Tommaso: “Tuttavia qualcuno poteva essere ammesso nella civile convivenza del popolo con una dispensa, per qualche atto particolare di virtù: si legge infatti nel libro di Giuditta, che Achior, comandante degli Ammoniti, ‘fu aggregato al popolo d’Israele, egli e tutta la discendenza della sua stirpe’ – Così avvenne per la moabita Rut, che era ‘una donna virtuosa’”.
    È possibile, dunque, ammettere eccezioni, secondo le concrete circostanze. Tali eccezioni, tuttavia, non sono arbitrarie, hanno bensì sempre in vista il bene comune della nazione. Il generale Achior, per esempio, rischiando la propria vita, era intervenuto presso Oloferne in favore degli ebrei, guadagnandosi in questo modo la loro eterna gratitudine, nonostante la sua origine ammonita.
    Ecco alcuni principi in tema di immigrazione enunciati da S. Tommaso d’Aquino, sette secoli orsono. Dai suoi insegnamenti si desume con chiarezza che qualsiasi analisi sull’immigrazione deve essere guidata da due idee-chiave: l’integrità della nazione e il suo bene comune.
    L’immigrazione deve avere sempre come scopo l’integrazione, non la disintegrazione o la segregazione, cioè la creazione di piccole “nazioni” contrastanti all’interno del Paese. Oltre a godere dei benefici offertigli dalla sua nuova Patria, l’immigrante deve assumerne anche gli oneri, cioè la piena responsabilità per il bene comune, partecipando alla vita politica, economica, sociale, culturale e religiosa. Diventando un cittadino, l’immigrante passa a essere membro di una vasta famiglia, con un’anima comune, con una storia e un futuro comune, e non soltanto una sorta di azionista in un’azienda, al quale interessano appena il profitto e i benefici.
    Poi S. Tommaso insegna che l’immigrazione deve avere sempre in mente il bene comune: essa non può sopraffare o distruggere la nazione.
    Ciò spiega perché tanti europei provano una sensazione di sconforto e di apprensione di fronte alle massicce e sproporzionate immigrazioni di questi ultimi anni. Un tale flusso di stranieri, provenienti da culture molto lontane e perfino ostili, introduce situazioni che distruggono gli elementi di unità psicologica e culturale della nazione, distruggendo perciò la stessa capacità della società di assorbire organicamente nuovi elementi. In questo caso, si sta chiaramente attentando contro il bene comune.
    Aspetto secondario ma molto importante: quello economico. In mezzo alla più grave crisi economica degli ultimi decenni, l’Europa si può permettere di prendere in carico milioni di immigrati senza ledere il bene comune dei suoi cittadini?
    L’immigrazione organica e proporzionata è sempre stata un fattore di sanità e di forza per la società, introducendovi nuova vita e nuovi talenti. Quando, però, diventa sproporzionata e incontrollata, mettendo in pericolo le fondamenta della società e dello Stato, allora diventa pregiudizievole per il bene comune.
    Ciò sopratutto quando si tratta di immigrazione, al meno potenzialmente, ostile, secondo le categorie proposte da S. Tommaso.
    Farebbe bene l’Europa a seguire i saggi insegnamenti del Dottor Angelico. Un Paese deve usare giustizia e carità nel trattare gli immigranti. Soprattutto, però, deve salvaguardare la concordia e il bene comune, senza i quali un Paese non può durare a lungo. Questo per non parlare della Fede cristiana, il più profondo elemento fondante della nostra civiltà.
    di John Horvat