venerdì 6 aprile 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 27°):Atteggiamento del clero napoletano nei confronti di Garibaldi i garibaldini si appropriano dei beni dei Borboni


Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.





Ho detto di sopra come Garibaldi fidava nel medico Bertani suo segretario particolare, e come costui sciorinava decreti senza proporli a' ministri responsabili. Il Ministero per riparare all'assolutismo del Dittatore, distese un regolamento da porre un argine agli arbitrii di costui. Ma il liberalissimo Garibaldi non l'approvò! anzi nominò altri governatori in cambio di quelli proposti dal Ministero. I rivoluzionarii per vezzo predicano contro l'assolutismo quando essi non sono al potere, appena il ghermiscono divengono più despoti di qualunque sovrano assoluto.
Al Cesarismo di Garibaldi si opponevano le forti lagnanze de' ministri, ond'Egli sembrò per un momento piegarsi ad operare secondo i principii che intendea rappresentare. Fu deciso in consiglio che ogni atto dittatoriale si discutesse dal ministro responsabile. Nonptertanto quel giorno stesso, il Dittatore pubblicava decisioni e decreti senza averli consultati, né fatto firmare da' ministri!
Il ministero capì che Garibaldi avea preso gusto a farla da Re assoluto, e comandò le sue dimissioni. Il 26 settembre tutti i ministri, (ad eccezione di Conforti che avea fatto lo spacconaccio contro i Borboni assenti) scrissero al Dittatore dicendogli: «voi siete venuto acclamato fra noi; ma badate, che dietro i vostri passi non resti solco di lagrime e di dolori.» Fu questa una gran profezia....! Garibaldi annoiato dalla pretensioni ministeriali, accettò le dimissioni dei ministri, e creò un nuovo ministero pieghevole a lui di schiena, che lo facesse regnare e governare dispoticamente.
Lasciò il Conforti alla polizia, essendosi costui mostrato d'indole corriva al dispotismo dittatoriale. Giura andò a' lavori pubblici, il fedele collega di Vacca, di Barone, e di Vitagliano, cioè Scrugli, alla marina. Scura alla giustizia, de Sanctis all'istruzione pubblica, Cosenz restò alla guerra. I direttori Giacchi e de Cesare rimasero a' loro posti, e furono poi tolti il 9 ottobre.
Il povero D. Liborio Romano, dopo novantadue giorni ne' quali fece da ministro sotto due governi che faceano a calci, rimase un Cèsar declassé; ma si consolò avendo ottenuto da Garibaldi una dichiarazione di aver ben meritato della patria, che fece affliggere alle mura della città. Il Ministro di Francesco II, D. Liborio Romano, si onorò di avere il benservito da Garibaldi!
Ed ora il fratello di D. Liborio, scrive ed osa stampare essere stato costui un tipo di galantuomo, un onesto e fedele Ministro di Francesco II! Ma è inutile; la storia non si falsa né per intrighi di setta, né per dispotismo di tiranni. D. Liborio Romano fu il più volgare traditore del Re e del Regno di Napoli: il suo posto è assegnato tra i cinque uomini fatali che vendettero la dinastia ed il trono secolare delle due Sicilie: la memoria di lui sarà dagli onesti esecrata e maledetta!
Garibaldi, con quel nuovo Ministero secondo il suo cuore, e secondo il cuore di Bertani,
che era il vero Re delle Due Sicilie, non fu più importunato quando schiccherava ordinanze e decreti. Si diedero cariche ed uffizii a gente ignota al paese, ignorante di tutto, e con poteri illimitati. Questi nuovi venuti al banchetto rivoluzionario, approfittarono della loro posizione, pensarono a' propri affari. Vuotarono, già s'intende, le casse pubbliche, posero nuove tasse, vendettero impieghi di subalterni, approvarono conti pigliandosi il pourboire.Del resto servirono bene la rivoluzione: sciolsero Municipii e Guardie nazionali, esiliarono, incarcerarono, e fucilarono senza giudizii, amici e nemici. Non vi fu illegalità ed efferatezza che non perpetrarono cotesti nuovi proconsoli: neppure si vergognarono di far tagliare le labbra con la forbice ad alcune donne, perché aveano gridato Viva Francesco II!Le reazioni di que' tempi erano compresse con modi crudelissimi, dappoichè avendo la rivoluzione proclamata sovrana la volontà popolare, le reazioni erano una protesta indiscutibile. Garibaldi però accomodava tutto, dichiarando che quelle reazioni non costituivano la volontà popolare, ma erano un effetto dell'ignoranza in cui i Borboni aveano tenuta la popolazione delle Due Sicilie.
Secondo questo strano redentore e legislatore, era veramente volontà popolare quando si acclamava a lui solamente, od alcuno dei suoi creati!
Ad onta delle punizioni terribili che s'infliggevano a' reazionarii, molti paesi si rivoltarono contro il governo garibaldesco: Montemiletto, Ariano, Aversa, Marcianise, Canosa, Bitonto, Resina, Scafati, Isernia, e tanti altri paesi e borgate furono il teatro di sangue e di violente repressioni.
Garibaldi facea punire duramente quelle popolazioni in rivolta, perché que' moti era l'effetto dell'ignoranza in cui i Borboni aveano tenuto la popolazione delle Due Sicilie!..Il Dittatore mentre ordinava repressione, ed esemplari castighi contro i reazionarii, rimunerava i rivoluzionarii e i felloni col danaro de' contribuenti. Diede pensioni a vedove e figli di galeotti, sublimati all'onor del martirio.
Assegnò venti ducati mensili alla vedova del galeotto Laporta, ed altri venti a quella di un certo Caprio; sei a quella di un certo nominato Cappuccino, ucciso nella reazione di Montemiletto; trenta a quella di Romeo, e quattromila ducati per dote alle figlie di costui. Assegnò sessanta ducati mensili ad una figlia adulterina di Pesacane, gravandoli sul Gran Libro. Si promosse ne' gradi della milizia un morto in Milazzo, per accrescere la pensione alla madre. E tante e tante altre pensioni si diedero a simile gente che sarebbe noioso rammentarle tutte.
Quella perciò che fece molta impressione fu la pensione di trenta ducati mensili data alla madre del regicida Agesilao Milano, e la dote di due mila ducati alle sorelle di costui. Il decreto dicea:
«Sacra è al paese la memoria di Agesilao Milano, che con eroismo incomparabile si immolava sull'altare della patria per liberarla dal tiranno.»
E dopo quest'apoteosi che canonizzava il regicidio, non pochi de' sovrani d'Europa proseguirono a proteggere Garibaldi e la rivoluzione..!
Lo stato di Napoli in que' giorni era orribile. Si carceravano Vescovi, Generali, Aristocratici e Magistrati, tra gli altri il venerando Francesco Morelli; e si dava la libertà a' ladri che carceravano alla lor volta i giudici. E tutto questo avveniva sotto l'egida della libertà. Libertà vera di spoliatori ed assassini!.... A nostro credere una sola giustizia fece la rivoluzione, menò a S. Elmo il generale Ghio, il traditore di Soveria-Mannelli. La setta si ricordò essere stato il Ghio quello che avea in parte distrutti ed in parte arrestati i rivoluzionarii sbarcati a Sapri nel 1858. Si ricordò essere stato il Ghio quello che presedeva all'uccisione di Pesacane capo di quella audace spedizione, nelle quale fu arrestato Nicotera, che poi con altri, ebbero tutti la grazia da Ferdinando II.
Non valse al Ghio il fresco servizio di aver consegnato a Garibaldi dodicimila uomini in Sovaria-Mannelli: Bertani l'accusò che avea fucilati trenta patriotti; (ciò non è vero, e gli fece un processo formale). Ghio, da comandante della Piazza di Napoli, fu carcerato in S. Elmo, e sottomesso ad un processo terribile. Quando poi si stabilì in Napoli il governo Sardo, si soppressero le accuse, e Ghio fu liberato dalla prigionia.
Cavour, conoscendo che Garibaldi era mal circondato, e particolarmente da' repubblicani, i quali lo facevano regnare e governare or da Nerone, or da Eliogabalo, giudicò che non avrebbe potuto tirare a lungo, per la qual cosa non volea tardar più oltre a porre le mani sul Regno di Napoli, con la pronta ed incondizionata annessione al Piemonte. Garibaldi, che avea preso gusto a fare da Re autocrata, dicea che avrebbe fatta l'annessione al Piemonte non appena conquistata Roma e Venezia. Cavour, uomo politico, e che sapea meglio degli altri quanto valevano le fanfaronate del Dittatore delle Due Sicilie, comprese benissimo che costui non avrebbe conquistate quelle province, dovendo fare una grossa guerra contro la Francia, e contro l'Austria; quindi facea di tutto per far rinsavire Garibaldi, e persuaderlo che la sola àncora di salvezza era la pronta annessione delle Due Sicilie al Regno Sardo.
Intanto i partiti erano divisi; chi volea l'annessione condizionata dopo la conquista di Roma e Venezia, chi la volea senza alcuna condizione e subito. Questi ultimi era quelli che aveano carpiti impieghi lucrosi, e sfogate tante vendette; or, temeano di perdere tutto e cimentare anche la pelle: quindi metteano loro paura le pazzie di Garibaldi, mentre una pronta annessione al Piemonte avrebbe loro assicurata la pagnotta e la vita. Per la qual cosa, il partito cavourriano e garibaldino si guardavano in cagnesco, e si regalavano a vicenda improperii e contumelie vergognosissime.
In Sicilia erano le stesse lotte. De Pretis, Prodittatore di Garibaldi, nel fatto era per Cavour, e poichè volea far subito l'annessione al Piemonte, dovette romperla con Crispi, il quale fu fischiato, costretto a fuggire dall'Isola, e recarsi a Napoli, ove in compenso della sua opposizione a' cavourriani, gli si diede il Ministero degli esteri; ma egli si sarebbe contentato di fare meglio il Ministro delle finanze in Palermo. Semplicissima velleità!...
Garibaldi irritato per le mene de' cavourriani, il 10 Settembre mandò a Palermo una sua Proclamazione concia di frasi che spesso ci regala nelle sue laconiche letterine.
Con quella Proclamazione protestava amore a' Siciliani, e conchiudeva così: «A' vili che s'ascondeano quando combattevate sulle barricate per l'Italia, rispondete che proclamerò l'annessione dall'alto del Quirinale, quando l'Italia, visti i suoi figli in una famiglia, potrà accoglierli in seno tutti liberi e benedirli.»
Amen. Avea ragione Cavour!
Garibaldi supponea che il Landi di Calatafimi, e tutto lo stuolo maledetto de' Generali e Ministri napoletani traditori che gli fecero codazzo, li avrebbe incontra ti ad ogni piè sospinto. Che peccato! neppure Aspromonte e Mentana lo convinse ro poi in contrario. Ma no, che sulla Loira da' suoi fu presa una bandiera a quelli scortichini di Prussianie basta!
Il de Pretis, il 12 settembre lasciò la Sicilia e si recò a Napoli, ove gli fu fatta cattiva accoglienza dal Dittatore.
Fervendo in Palermo sempre più la lotta tra i due partiti avversi, furono imprigionati trentadue individui de' più arditi; e crescendo il tumulto il Ministero dell'Isola si dimise.
Il 14 settembre, Garibaldi per mostrare di cedere a qualche cosa, decretò che lo Statuto piemontese fosse esteso al Regno delle Due Sicilie. Potea riconoscere quello dato da Ferdinando II, e confermato poi nel 1860 da Francesco II, che era più liberale di quello del Piemonte. Ma quello avea ilpeccato d'origine!..Il 15 di quel mese giunse a Napoli Giuseppe Mazzini, l'apostolo dell'idea, e consigliò Garibaldi a tener duro contro gli annessionisti e contro Cavour. Il Dittatore, sempre ibrido tra monarchico e repubblicano, infiammato dalle parole del patriarca rivoluzionario, scrisse una lettera ad un certo Brusca di Genova e gli dicea:
«Mi dite che Cavour faccia credere di essere in buone relazioni con me; ma sebbene io sia disposto a sacrificare le mie simpatie sull'altare della patria, pure vi fo certo che non potrò mai riconciliarmi con uomini che hanno venduta una provincia italiana.» E Cavour potea rispondere: «giusto perché io vendetti una provincia italiana, oggi tu ti trovi Dittatore delle Due Sicilie e fai lo spacconaccio!»
Garibaldi sempre più infiammato da Mazzini, il 17, corre a Palermo per impedire l'annessione al Piemonte: alberga nella Reggia, crea Prodittatore Mordini, oggi Prefetto di Napoli, rimprovera acremente i Ministri, vieta loro di rispondere, e li congeda. Rifece il ministero, Parisi all'interno, Pisani alle finanze, Corvaia all'istruzione pubblica, Fauchè alla Marina, Scrofani alla giustizia, il Prete Ugdulena a' culti. Insomma un ministero di tutti i colori.
Poi si mostra al balcone e fa uno de' suoi soliti sermoncini, dicendo ch'egli non volea l'annessione, perché intempestiva, e perché l'avrebbe sottomesso alla diplomazia; e come dovea ancora liberare altri fratelli dalle catene della schiavitù, e conchiuse: «il migliore amico dell'Italia e di Vittorio Emmanuele sono io.» Quest'ultima protesta era necessaria per trovarsi bene in tutti i possibili eventi.
La presenza di Mazzini in Napoli esaltava il partito repubblicano, e in que' giorni sembrava imminente la proclamazione della repubblica. Garibaldi tentennava tra Mazzini e il Piemonte, a quello l'antica amicizia, i ricordi di solidarietà de' giorni
felici e nefasti della repubblica romana del 1849, a questo il bisogno di essere sostenuto. I cavourriani, e tutta la caterva de' pagnottisti piemontizzati, erano atterriti della presenza di Mazzini e dell'imminente repubblica. Fecero indirizzi al Re del Piemonte che presto venisse a Napoli, un altro a Garibaldi che facesse presto l'annessione al Regno Sardo.
Il Dittatore, vedendo comparire quegl'indirizzi stampati, infuriò e rimproverò Pisani ed Afflitto.
Spaventa che alzò la voce a favore dell'annessione, fu minacciato d'esilio.
La Guardia nazionale, la parte faziosa, temendo che i regï da un momento all'altro investissero Napoli, volea espulso Mazzini, e la proclamazione del Regno d'Italia per essere difesa dalla truppa piemontese.
In effetti, mandò a Torino una deputazione di dodici uffiziali, ed a capo degli stessi il Leopardi, per pregare Cavour acciò costui mandasse subito a Napoli un corpo di esercito.
Il nuovo Sindaco della Città ed il Municipio, che aveano la stessa paura della Guardia nazionale, il 24 settembre andarono dal Dittatore a Caserta, e lo pregarono di cacciare Mazzini, e che s'infrenassero i repubblicani. Garibaldi sempre in bilico tra monarchia e repubblica, rispose con frasi degne di un generale moscovita, o turco, dicendo: farò fucilare chiunque si dice repubblicano.Io a questo punto son costretto ammirare Mazzini, perché almeno costui tenne sempre alta la sua bandiera: potrei dire lo stesso di Garibaldi allora ed oggi che siede da deputato nella barracca di Montecitorio in Roma?
Il Dittatore avea altri affari più serii a cui pensare che non erano le lotte repubblicane e cavourriane. Egli sapea che dietro il Volturno l'esercito napolitano si organizzava: egli avea sperimentato il valore, e la tenacità alla patria bandiera di quell'esercito, ed avea la convinzione di averlo in parte vinto con l'aiuto e co' tradimenti de' proprii Capi. Scontento che i regï nol seguissero, e che traditi e disarmati si erano ancora una volta riuniti sotto le bandiere del proprio Sovrano, volle di nuovo tentare la fedeltà di quei prodi.
Il 9 Settembre pubblicò uno scritto nel quale dicea: «Se non isdegnate Garibaldi a compagno, egli ambisce pugnare a lato vostro i nemici della patria: tregua alle nostre discordie.» Era questa l'umiltà della volpe; e le discordie chi le avea importate nel Regno?
Il 12 dello stesso mese, avendo inteso che sulla sinistra del Volturno non erano soldati regï mandò Sirtori con una brigata ad occupare S. Maria poco lungi da Capua: indi mandò la brigata Eber, e poi quella di La Masa e di Winckler. Quella medesima sera, Garibaldi giunse a Caserta, e al solito, alloggiò nella Regia, avendo preso gusto a farla in tutto da Sovrano. Il 14 il polacco Milbitz, e l'ungarese Turr occuparono Maddaloni al sud-est di Caserta e quei paesi circonvicini. Mio Dio, quanti stranieri venivano a redimerci della schiavitù!
Le popolazioni di que' luoghi occupati dai garibaldini, abituati alla disciplina e vestiario della truppa nazionale borbonica, trasecolavano a vedere quella disordinata accozzaglia garibaldesca parlante tutti i dialetti d'Europa.
Quella gente prendea alloggi a forza, trasportando mobili da una casa all'altra contro la volontà de' proprietarii da' quali pretendeano vitto e tutto servizio. Molti garibaldini si vendeano le armi, insidiavano l'onestà, e qualcheduno rubava. A citare un esempio, il fedele vecchio Tenente Generale Pietro Vial che seguito avea il Re, s'ebbe tutto involato in Caserta, e da Roma reclamando ed invocando la protezione Francese, potè poi ricuperare una minima parte di quello che i redentori aveano creduto annettersi. Tutti si atteggiavano a liberatori, perché combatteano il legittimo Sovrano del Regno; quindi credevano che ogni cosa era loro dovuta, per riconoscenza e per diritto; e guai a chi si fosse negato!
I capi garibaldini pensavano poco alla guerra, perché credeano facile la vittoria senza fatiche e senza sangue; per essi il passato era certa guarentigia dell'avvenire. Pensavano a far buona vita, alloggiando nella sontuosa reggia di Caserta, o ne' migliori palazzi di quella Città; e poco si curavano della disciplina de' subalterni. Quei duci democratici sprezzatori de' re, prodigavano basse adulazioni al Dittatore per avere onori e gradi. Il garibaldino scrittore Rustow, da cui ricavo queste notizie, racconta nelle sue rimembranze d'Italia, che arrivò a tale la cortigianeria verso Garibaldi, che, siccome costui era astemio, molti beoni affettavano pure di non bere del vino. Lo stesso Rustow racconta che Garibaldi, nuovo Alboino Longobardo promettea feudi a' suoi seguaci capi di divisioni, e terre comunali a' componenti l'esercito garibaldino. Dice ancora, ch'egli era segnato il quindicesimo feudatario, ed avea scelto S. Leucio con le sua adiacenze. Ecco, io soggiungo, ove va a finire il liberalismo di questi redentori di popoli, di questi democratici strombazzatori di liberalismo, a' tempi feudali! tempi i più tristi che rammenta la storia dei popoli, quando non pochi feudatarii trattavano i propri sudditi peggio che bestie: non lasciandoli neppure padroni del proprio onore!
Del resto se Garibaldi avesse avuto il tempo di resuscitare la morta e sepolta feudalità, non sarebbe stato un fatto nuovo nella storia della democrazia, o un avvenimento senza esempio che ci avrebbero dato i rivoluzionarii. Sappiamo che la grande rivoluzione francese del 1789, dopochè distrusse la feudalità, la risuscitò a vantaggio dei feroci suoi agenti tanto nemici degli aristocratici. Que' fieri demagoghi che si faceano un vanto farsi chiamare Sansculottes (senza calzoni), dopo pochi anni, sotto il 1° impero si pavoneggiavano con gli abiti aristocratici, appellandosi duchi, principi, altezze, e re. E se Danton, Marat, e Robespierre non fossero stati uccisi, non avrebbero sdegnato i titoli di duchi e principi, come non li sdegnarono altri feroci demagoghi Sansculottes, tra gli altri l'exprete Fouchè fu duca, l'avv. Cambacères altezza, il figlio del paglietta di Pau Bernadotte, re di Svezia, ed il figlio del locandiere di Cahors Murat, granduca di Berg, e poi re di Napoli!

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).