Di Isacco Tacconi (http://www.radiospada.org/)
Vorrei dedicare questa nuova trattazione sui personaggi tolkieniani ad una figura a me particolarmente cara: Boromir di Gondor.
La “simpatia”, nel senso etimologico del termine di «con passione» (dal greco «syn – patìa» = sentire insieme), che questo personaggio mi ha sempre suscitato deriva dalla sua radicale e drammatica umanità. Fra tutti i personaggi della Compagnia che si offrono di accompagnare Frodo nella sua missione “redentrice”, Boromir è, a parer mio, il più “umano”. Non a caso è l’unico vero rappresentante del mondo degli uomini. Non lo stesso per Aragorn il quale è, in un certo senso, al di sopra dell’uomo, è più che un uomo. Ma lasciamo il discorso sull’Erede di Nùmenor per una prossima trattazione, dedichiamoci piuttosto all’“uomo” Boromir.
Figlio del sovrintendente di Gondor, Boromir ha un destino segnato dalla frustrazione e dalla delusione: egli infatti non è l’erede al trono di Gondor perché il padre non è il Re. Ciò a cui Boromir al massimo può ambire è divenire anche lui sovrintendente di Gondor, ma mai il Re e sa bene che quell’onore non spetta a lui. Boromir si trova a dover combattere, soffrire e difendere un regno e un trono che non gli appartengono, è il semplice figlio del custode del trono. Triste quindi il suo fato contrassegnato dalla fatica e dal dolore eppure al contempo bellissimo e onorevole il ruolo di combattente e di guida che deve svolgere.
Egli è il “servo buono e fedele” della parabola evangelica che deve vegliare e custodire la casa dai nemici, continuare a servire il padrone anche se il padrone di casa è assente attendendolo con pazienza e perseveranza. Boromir è un altro meraviglioso paradigma tolkeniano dell’“uomo” e meglio ancora del cristiano, il quale non ha la sua gloria in questo mondo ossia non può sedersi già qui sul Trono regale ma lo deve servire e difendere fedelmente in attesa del “Ritorno del Gran Re”, soltanto allora, se avrà perseverato fino alla fine, potrà sentirsi dire dal Re: «euge serve bone et fidelis quia super pauca fuisti fidelis supra multa te constituam intra in gaudium domini tui» (Mt 25,23).
In lui non troviamo la purezza quasi angelica di Legolas, né la dignità regale di Aragorn, né l’umiltà di Frodo né la saggezza di Gandalf. Egli è un uomo e in quanto tale porta in sé sia l’altezza che la bassezza, la contraddizione e la nobiltà d’animo, la buona volontà e la debolezza della carne, la virtù e il vizio. Boromir non è il cavaliere senza macchia e senza paura, egli è un cavaliere che sperimenta su di sé il potere della tentazione e la tentazione del potere e, in essa, cade. Ognuno di noi potrebbe facilmente ritrovarsi in quella sincera adesione al bene che spinse Boromir ad offrirsi generosamente al servizio del Signore e, al contempo, nel fallimento di chi nel tentativo di fare il bene e nella sequela di Cristo cade nel peccato: chi è senza peccato scagli la prima pietra (oppure provi a portare l’Anello).
Ma a differenza di Gollum e di Denethor, ossia di qualsiasi peccatore ostinato, Boromir non si abbandona alla disperazione né persevera nel male anzi riconosce il proprio peccato. «Che cosa ho fatto?» si chiede esterrefatto e addolorato non appena prende coscienza di aver tentato di sottrarre l’Anello a Frodo. L’umiliazione che deve subire anche dinanzi agli altri membri della Compagnia è cocente, nessuno di loro infatti ha ceduto alla tentazione mentre lui, il figlio di Denethor, è stato il debole della Compagnia. Ma la sua debolezza non poteva essere più meravigliosa e salutare. La debolezza umana infatti, come insegnano gli autori spirituali, è il trono su cui si siede l’Onnipotenza e la Misericordia divina. Essa è la via perché si manifesti in noi la Potenza di Dio. Inoltre, Boromir dimostra un sincero pentimento e una vera conversione, perché resta a combattere, si rialza, accetta il proprio fallimento e cerca di rimediare, come? Riscattandosi con l’estremo sacrificio di sé. Nel tradimento, Boromir, non dimostra solo di essere un uomo vero mostrando la sua debolezza ma di essere uno vero uomo, un autentico «vir» che dimostra, appunto, virilità. Si lascia toccare dalla Grazia per reagire dinanzi allo sgomento per il proprio peccato, superando la seconda e ben peggiore tentazione del Maligno: lo scoraggiamento che conduce alla disperazione. Boromir è un esempio di santità perché si converte. Tutti i santi, o quasi, incominciano la loro vita di santità, che potrebbe durare anche pochi istanti (come il buon Ladrone san Dismas) con una radicale conversione dei costumi, con la quale abbandonano l’uomo vecchio per rivestirsi di Cristo. Molti martiri furono santi soltanto per quell’ultimo gesto estremo che gli valse il riscatto di tutta la vita oltreché il premio dell’eternità giacché «la carità copre una moltitudine di peccati», e «non c’è carità più grande di questa: dare la vita per i propri amici».
Il riscatto finale di Boromir, a mio avviso, vale più di tutte le prodezze di Aragorn o di tutte le angeliche meraviglie degli elfi. L’infedeltà di Boromir è più utile a me di quanto non lo sia la fedeltà silenziosa e anonima di Legolas. Azzardo un paragone con quanto dice San Gregorio Magno sull’incredulità di San Tommaso Apostolo. Dice il grande Papa benedettino che: “valse più la miscredenza di San Tommaso per confermare la Fede della Chiesa, piuttosto che la docilità di tutti gli altri Discepoli”. Anche san Tommaso poi, come Boromir, darà la vita per il Re. La sua debolezza sarà l’occasione disposta dalla Provvidenza per realizzare i suoi piani salvifici. È grazie a quella colluttazione con Boromir che Frodo deciderà finalmente di intraprendere la Via della Croce da solo, perché sa che a lui soltanto è stato affidato il pesante fardello del peccato e che quell’estremo sacrificio spetta a lui solo. Ciò non toglie che gli altri membri della Compagnia daranno prova della loro fedeltà. Lo stesso Boromir morirà “sulla breccia” per difendere i piccoli hobbit.
In questa vicenda mi pare di scorgere una commovente analogia tra Boromir e la figura di San Pietro. Anche il Principe degli Apostoli, infatti, si offrirà generosamente di seguire il Divin Maestro fino alla morte, salvo poi cadere dopo poche ore, nel peccato più vile: il tradimento. Ma anche la vicenda di San Pietro, al contempo meravigliosamente drammatica e toccante, non termina in una tragedia come per il traditore impenitente Iscariota. Al contrario, San Pietro piangerà lacrime di vera compunzione, di dolore sincero, di amore penitente e riscatterà quel peccato ignominioso con la morte infame di Croce ad imitazione del Maestro. Unico fra i discepoli a condividere la morte di Croce di Nostro Signore Gesù Cristo, San Pietro darà prova di fedeltà e vera imitazione rifiutandosi di riprodurre in sé il Segno della Salvezza: chiederà di essere crocifisso a testa in giù tanto era il sentimento della sua indegnità rispetto al Figlio di Dio Crocifisso.
Un’altra analogia fra Boromir e San Pietro, e in lui tutti i suoi successori al soglio pontificio, è il fatto che anche il Papa è soltanto il “custode del Trono” non è il Re. Il Papa, cioè, non è il sovrano di Gondor, ne è il custode, non è l’Erede, è il servo posto a capo della servitù. Sempre san Gregorio Magno dirà che il Papa è il «Servus Servorum Dei», è un vero e proprio “Sovrintendente” non già il Re atteso. Egli deve custodire il Regno di Gondor che è la Chiesa, difenderlo dai nemici della Fede, combattere per i suoi sudditi, i fedeli cattolici, in attesa del ritorno del Re che finalmente verrà a porre fine al male del mondo e con esso ad ogni cosa.
Ciò significa che nonostante il tradimento del Sovrintendente di Gondor, il vecchio e corrotto Denethor, lasciatosi corrompere dallo spirito del mondo e assisosi indebitamente sul Trono che non gli spetta, ritornerà il Vero Re e ristabilirà ogni cosa. Ritornerà ne siamo certi «e questo – come dice Gandalf – è un pensiero molto incoraggiante». In tempi come quelli che ci troviamo a vivere in cui i “sovrintendenti” hanno voluto guardare nel Palantìr, aprendosi imprudentemente al dialogo con il mondo che è sotto il potere di Satana e rimanendone ammaliati non possiamo più aspettare il loro intervento o confidare nella loro guida, perché essi hanno smarrito la ragione e con essa la fede: dobbiamo radunare le forze e conservare il seme della fede e della speranza.
Resistere e dare la vita “sulla breccia” come Boromir, come San Pietro, come San Tommaso questo possiamo e dobbiamo fare. Soltanto nella perseveranza, umile, tenace, fiduciosa e penitente potremmo dire al termine della nostra vita ad imitazione di San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».
Ci è data la possibilità, oggi, di fare la nostra bella professione di fede insieme a Boromir dicendo al Cristo che viene, Egli che è il primogenito fra molti fratelli, Egli che è il Comandante che ci guida in battaglia, Egli che è il Re dell’Universo: «Io ti avrei seguito Fratello mio, mio Capitano, mio Re…» fino alla morte.
Viva Boromir e Viva Cristo Re!