martedì 21 giugno 2016

FATTI (E MISFATTI) ALL’OMBRA DEL TRICOLORE NEL 1797 L’ECCIDIO DI MUSSOLENTE DI BASSANO

stemma di Mussolente
stemma di Mussolente
Le notizie di stragi compiute dai «liberatori» francesi duecento anni fa iniziano a filtrare e s’incrina così il muro di silenzio, anzi la drastica torsione valutativa imposta dai libri di scuola sulla prolungata presenza nella Penisola — dal 1792, tempo della guerra tra Francia repubblicana e monarchia sabauda, al 1814 quando gli austro-russi dilagano nella valle Padana dopo la caduta di Napoleone I — delle truppe napoleoniche. Nel Mezzogiorno questa riscoperta si caratterizza come meno sporadica — il numero di episodi che riaffiorano è elevato — e più massiccia — il numero delle vittime e l’efferatezza degli episodi. Su quanto accaduto nella parte settentrionale del paese, viceversa, pare non sia accaduto nulla di questo genere. Tuttavia anche qui, anche se a goccia a goccia, qualcosa comincia a emergere.
Ne fa fede un piccolo — ma quando c’è di mezzo un eccidio si può parlare di piccolo o grande? — episodio che è stato scoperto in Veneto da uno storico locale nel ricostruire i lineamenti storici dell’occupazione militare francese della provincia trevigiana nel 1797, negli ultimi mesi della Repubblica di Venezia.
Il 2 febbraio di quell’anno, a Mussolente, villaggio che conta oggi poco più di settemila abitanti, a sei chilometri da Bassano del Grappa, cinque poveri contadini — Andrea Polo, Sguardo Polo, Francesco Guadagnin, Giuseppe Fontana, Baldissera Orso — sono fucilati «sul posto» da un reparto francese dell’armata del generale André Masséna, in ritirata dalla Valsugana — dopo il ciclo di battaglie del gennaio precedente, passate alla storia con il nome di Rivoli Veronese —, perché hanno tentato di difendere il raccolto, le bestie, i viveri di cui i rapaci soldati d’Oltralpe volevano appropriarsi con la forza. Un episodio passato del tutto nel dimenticatoio e solo oggi, grazie alla solerzia della preziosa storiografia locale — quella, magari, come in questo caso, formata da storici, de facto anche se non nelle doti spesso di prim’ordine, «della domenica» — riemerso alla luce e che ci interpella.
la villa che ospitava il comando francese, in cui furono trucidati i poveretti
la villa che ospitava il comando francese, in cui furono trucidati i poveretti
Dunque, una strage gratuita, un atto di brutalità finalizzato a terrorizzare le popolazioni contadine italiane — di cui peraltro Bonaparte ebbe sempre, e a ragione, paura — di allora e ad asseverare il presunto diritto delle truppe «liberatrici» di estorcere a loro piacimento beni ai loro proprietari terrieri e ai loro poveri intendenti in loco — si badi bene: appartenenti a uno Stato dichiaratosi neutrale, con cui di conseguenza la Francia non era in regime di belligeranza.
Mi domando: quanti altri sfregi del genere le nostre popolazioni hanno dovuto subire in quegli anni? Si è parlato nei mesi scorsi di un «armadio della vergogna», in relazione alla scoperta di un archivio in cui sono stati — per alcuni colpevolmente, per altri doverosamente — sepolti per decenni i dossier penali relativi a stragi compiute da soldati italiani nei Paesi occupati, in specie nei Balcani, rimase quindi impunite. Quantidossier dovrebbe contenere un «armadio della vergogna» dedicato a queste stragi, che vedono coinvolti i nostri antenati, ma non per questo sono state meno reali e dolorose? Non si può non osservare che, se di alcuni eccidi compiuti nel secondo conflitto mondiale — da tedeschi, truppe italiane, milizie fasciste o partigiani — quanto meno esiste undossier, magari sepolto dalla polvere, perché qualcuno si è almeno mostrato interessato a punirne i colpevoli, degli eccidi del periodo napoleonico la memoria si è letteralmente dissolta.
Ma — continuo a domandare — in che misura l’imbarbarimento della guerra, dovuto al coinvolgimento dei civili che i francesi «emancipati» attuano, non creerà un precedente, che autorizzerà anche altri eserciti a imitare i «novatori» di Oltralpe? Una liberazione al tal prezzo è una liberazione moralmente accettabile da un popolo — e la grande stagione dell’Insorgenza è lì testimoniarne il rifiuto — e da chi ne deve rappresentare in esplicito i valori, cioè i poteri pubblici? O, almeno, è lecito parlare ancora in termini encomiastici, se non elegiaci, di un ventennio di rapporti tra Francia rivoluzionaria e napoleonica e Italia, che si configura in termini di un assoggettamento totale e di una violenza ancora tutte da narrare, perpetrate dalla consorella transalpina contro i popoli della Penisola? E, da ultimo, è segnale di equità di giudizio dilatare in maniera abnorme, solo perché più recenti e di segno ideologico più gradito, la memoria delle stragi compiute in Italia dalle truppe hitleriane, quasi sempre rappresaglie, dopo l’8 settembre 1943? Perché non parlare invece di due — di tante — occupazioni, entrambe drammatiche e foriere di gravi lesioni e ricadute fatali sulla condizione morale della nazione italiana?
Si discute oggi tanto di memoria condivisa: non so se sia un traguardo raggiungibile, anche perché manca una definizione «condivisa» di che cosa sia tale memoria… Di certo, però, il primo passo in questo senso che occorre fare è sul piano dei fatti, non mutilando la memoria. Bisogna quindi ammettere che l’Italia ha subito sanguinose rappresaglie da parte degli sconfitti dell’ultima guerra mondiale, ma ha anche patito tanti scempi inflittile da troppi «liberatori», e fra questi non si possono non annoverare i rivoluzionari francesi e Napoleone.
Solo in questo orizzonte davanti sarà possibile riconquistare una parte di verità sulla storia d’Italia e, quindi, acquisire una più matura consapevolezza di chi siamo e di dove andiamo come popolo.
* * *
Do di seguito le pezze d’appoggio della mia argomentazione, di cui sono debitore al signor Millo Bozzolan di Seren del Grappa (Belluno), il quale, a sua volta ha avuto notizia dei fatti dal dott. Giorgio Zoccoletto, rinomato storico veneto, autore, fra l’altro, di 1797. L’occupazione napoleonica del territorio trevigiano (Antilia, Treviso 1997). Si tratta (a) di una lettera informativa inviata da Bozzolan al quotidiano Il Gazzettino di Venezia; (b) del testo della denuncia fatta dal capo della comunità di Mussolente al pretore di Asolo (Treviso), nonché (c) della comunicazione di costui al podestà di Asolo Zustinian Badoer (entrambi i documenti si trovano in Archivio Di Stato Di Venezia, Senato Militar Terra Ferma, filza 38).
 
Oscar Sanguinetti

Fonte: https://venetostoria.com/

domenica 19 giugno 2016

I fatti di Carzano (1917)

Fonte: Vota Franz Josef

Riportiamo qui da un'altra pagina (avendone avuto il permesso), per tutti i nostri lettori che non hanno avuto la possibilità di leggere nuovi scampoli di verità, che lentamente emergono dall'oblio. Probabilmente gli invasori, nonostante l'evidenza, non la smetteranno di gloriarsi, diranno che sono state azioni deprecabili ma necessarie, troveranno ogni scusa, ma tutto ciò non smuoverà i fatti di un millimetro.
Per circonstanziare l'evento, sappiate che Carzano è un piccolo paese vicino a Borgo Valsugana, situato proprio poco prima del restringimento della valle, non lontano dal confine col Veneto. Nel settembre del '17 il settore era relativamente calmo e difendevano la linea reparti di bosniaci assieme a compagnie dei k.k. freiwilligen Schützenregiment dell'alta Austria, più altri reparti di cui non ricordiamo l'appartenenza. Vi è da ricordare inoltre che l'imperatore si trovava in visita nel settore di Levico. Per chi fosse interessato all'evento, consigliamo un libro tradotto e pubblicato negli anni '90 (in qualche biblioteca si può ancora trovare) dalla cassa rurale di Scurelle e Castelnuovo, dal titolo "Storia dell'imperial regio reggimento degli Schützen volontari dell'Alta Austria nella guerra 1915-1918". trovate il link in fondo al post.
"Oggi sfatiamo con questo scritto il mito del sogno di Carzano, raccontando la nuda e vergognosa storia di questo fatto d'armi pontificato per anni ma che dovrebbe solo far arrossire di vergogna il comando del regio esercito italico.
La storiografia ufficiale sino ad oggi diceva che:
La notte del 18 settembre 1917, data fissata per l'operazione, all'1e30 minuti i congiurati di Ljudevit Pivko (sloveno)aprirono la strada agli Italiani che, salendo da Scurelle, trovarono varchi aperti nei reticolati, ai quali era stata tolta la corrente elettrica; le linee telefoniche e telegrafiche erano state interrotte e, soprattutto, i soldati nemici addormentati con l'oppio fornito dagli Italiani e aggiunto nel rancio della sera dai collaboratori di Pivko.
Le truppe d'assalto italiane 40.000 uomini, dotate di un equipaggiamento pesante (coperta, telo, tenda, razioni, viveri per più giorni, armamento pesante) furono guidate, inspiegabilmente, attraverso un camminamento largo 80 centimetri anziché sulla strada larga 4 metri.
Le operazioni subirono un forte rallentamento e solo i bersaglieri del 72º Battaglione, inviati per primi oltre il confine, raggiunsero il paese.
Il maggiore Pettorelli Lalatta, che si trovava già a Carzano, accortosi del disguido, percorse il tragitto a ritroso e, soltanto a Spera, trovò un buon contingente di soldati, fermi, sdraiati a terra per l'impossibilità di proseguire nel camminamento largo solo 80 cm ed intasato di feriti.
Fallì così il piano meticolosamente studiato da Pivko e Lalatta.
Per lunghi anni, per pudore, sia gli austriaci (scossi dal tradimento subito), sia gli italiani (dimostratisi incapaci nello sfruttare un'occasione unica), hanno preferito far cadere, su questa importante e significativa pagina di storia militare, un velo di silenzio.
Da 4 o 5 anni il museo della prima guerra mondiale di Borgo Valsugana è in possesso del diario del capitano Valerio Cossa dell'ottavo reggimento d'artiglieria italiano, che nel mese di settembre del 1917 comandava una batteria di pezzi da 149 in batteria sulla piana del Tesino,Scorrendo; la lettura delle pagine del diario si arriva alla mattina del 18 settembre, dove noi troviamo il 72° regg. bersaglieri attestato nelle adiacenze della chiesa di Carzano , già sollecitato più volte dal comando italiano per la ripresa di una rapida avanzata ma impossibilitato nell'eseguire detto ordine dai rinforzi austriaci giunti dopo la sorpresa iniziale e che nel frattempo inizia la ritirata per ritornare nelle proprie linee; qui leggiamo che la batteria del capitano Cossa riceve l'ordine di effettuare dalle ore 12,35 alle ore 13.00 un tiro di PUNIZIONE sulla chiesa di Carzano dove erano attestati i bersaglieri italiani battendola con tiro a granata. Si tenga presente che la zona della chiesa di Carzano era in posizione defilata ed irraggiungibile da parte dell'artiglieria austriaca, posizionata sul fondo della Valsugana, perché in angolo morto mentre era perfettamente visibile da parte dei 149 italiani della piana del Tesino che in quella mezz'ora fecero strage orrenda di bersaglieri italiani. Faccio notare che ogni pagina del diario del capitano Cossa è firmata pertanto è certa l'originalità del documento.
Ora mi domando: in primis come mai il museo di Borgo Valsugana non abbia reso pubblico e non abbia fatto la dovuta pubblicità ad un documento cosi importante, che finalmente fa emergere la cruda e vergognosa verità sui fatti di Carzano sino ad oggi mistificati da irreali e false ricostruzioni.
Per secondo poi trovo patetica la ricostruzione bugiarda fatta sino ad oggi di questi importanti fatti dove si nota un vergognoso tradimento da parte di un'ufficiale austriaco(fatto reale) e si tiene nascosta la notizia di come il comando italiano abbia volutamente assassinato un gran numero di propri bersaglieri solo perché non eseguivano un assurdo ed irrealizzabile ordine dell'alto comando(fatto sino ad oggi nascosto e taciuto).
Per ultimo mi dispiace immensamente per il Sig Tommaso Bordoni Jr che da questo scritto scoprirà purtroppo che il proprio nonno, morto a Carzano come bersagliere il 18 settembre del 1917, non mori come lui pensava da eroe per la gloria italica ma morì barbaramente assassinato dal proprio comando militare assieme a moltissimi altri bersaglieri che li a Carzano non ebbero nessuna colpa se non quella di essere soldati italiani.
Mi scuso per aver condensato in così poche righe un fatto cosi importante che meriterebbe la stesura di un intero capitolo di un libro di storia militare.
Allego alcune fotocopie del diario del capitano Valerio Cossa dell'ottavo reggimento d'artiglieria italiano, la fotografia del povero bersagliere Tommaso Bordoni, alcuni scritti del nipote ed alcune nostre cartoline austriache della prima guerra mondiale."

venerdì 17 giugno 2016

“La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia” (Rocco Chinnici)

Fonte: https://venetostoria.com/

Materiale raccolto da Fabio Calzavara

Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta
Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta
Mafia
Con tale espressione si è soliti indicare l’associazione criminale di stampo terroristico  presente in Sicilia dagli inizi del XIX secolo e trasformatasi nella seconda metà del XX secolo in una organizzazione internazionale.
Essa adotta comportamenti basati su un modello di economia statale ma parallela e sotterranea. Denominata anche “Cosa nostra”, trae profitti da numerosi tipi di attività criminali. I capimafia (spesso in latitanza) comunicano principalmente in modo scritto, con i pizzini, poiché non sempre sono in grado di comunicare di persona a tutti i loro sottoposti, i capifamiglia, i picciotti. (1).
La prima volta che compare ufficialmente tale vocabolo, accostato al senso tuttora in uso diorganizzazione malavitosa o malavita organizzata, è nel 1865 in un rapporto fatto dal capo procuratore di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. Con riferimento allo stesso periodo, wikipedia inglese riporta: “Offshoots of the Mafia emerged in the United States, during the late 19th century, following waves of Italian emigration” (Aspetti di Mafia comparvero negli Stati Uniti, verso la fine del XIX secolo, a seguito delle ondate migratorie italiane)
radici antiche per un albero che si sviluppa con l'unità d'Italia
radici antiche per un albero che si sviluppa con l’unità d’Italia
Secondo Diego Gambetta (2) il vocabolo originario sarebbe stato l’arabo (mahyas = spavalderia, vanto aggressivo) o (marfud = reietto) da cui proverrebbe il termine mafiusu, nel 1853 da Vincenzo Mortillaro nel suo Nuovo dizionario siciliano-italiano alla voce Mafia: “Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra”. (3).
In effetti non mancano teorie in merito all’introduzione del vocabolo nell’Isola ricondotta all’unificazione del “Regno d’Italia” e alla missione segreta di Mazzini in Sicilia avvenuta l’anno prima (1860) dell’Unità d’Italia. (4) Secondo tale ipotesi (ripresa poi dall’economista e sociologo Giuseppe Palomba), «MAFIA» non sarebbe altro che l’acronimo delle parole: «Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti». Fino a che punto sia fondato questo studio è incerto, rimane però da considerare il significato antropologico non privo di valore riguardo a un’organizzazione segreta a specchi capovolti che sarebbe nata nell’isola con finalità più o meno carbonare. (5)
Infatti è ormai appurato che nel 1860 la Mafia siciliana, in accordo con i Poteri forti massonici inglesi e savoiardi, aiutò Garibaldi nella “liberazione” dell’isola e partecipò alla conseguente spartizione dei posti di potere successivi all’unificazione col Regno d’Italia. Quasi un secolo dopo, nel 1943, facilitò lo sbarco americano nell’isola per battere il regime fascista, da sempre nemico dell’autonomia siciliana e quindi del controllo mafioso del suo territorio. (6)
Mafia, per antonomasia e senza qualificazioni, si riferisce comunque a quella organizzazione che ha avuto origine nell’isola come insieme di piccole associazioni sviluppate in ambito agreste. (7)
Dopo l’annessione al neonato Regno d’Italia tali aggregazioni, rette dalla legge dell’omertà e dalla commistione politica. consolidarono un’immensa potenza in Sicilia e riemersero dopo la seconda guerra mondiale. (8)
“Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia(Rocco Chinnici, giudice assassinato il 29.07.1983).
  1. G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo 1889;
  2. Diego Gambetta, The Sicilian Mafia;
  3. Vincenzo Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Tipografia del Giornale letterario, Palermo 1853;
  4. Charles W. Heckethorn, Secret Societies of All Ages and Countries, London, G. Redway, 1897;
  5. Sociologia dello sviluppo – L’unificazione del Regno d’Italia, G. Palomba, Giannini, Napoli, 1962, pp. 203-204;
  6. Santi Correnti, Breve storia della Sicilia;
  7. Pasquale Natella, La parola “Mafia”, Firenze, Leo S. Olschki Ed., 2002 (Biblioteca dell’”Archivium Romanicum”, Ser. 2, Linguistica, 53);
  8. Dizionario enciclopedico italiano, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma;

giovedì 16 giugno 2016

Milano austriaca, la lunga stagione felice. Fateci ancora sognare!

Fonte: http://www.lindipendenzanuova.com/

di ROMANO BRACALINI – Il regno di Maria Teresa d’Austria è ricordato in Lombardia come un esempio di rigore amministrativo e un’epoca di grandi riforme..Dopo il degrado spagnolo,lo Stato prende forma politica moderna. Con la guerra di successione e la pace di Utrecht, l’Austria subentra alla Spagna nei domini italiani. Siamo nella prima metà del Settecento. Una donna piccola e grassottella, che non ha nulla del sovrano raffigurato dall’oleografia, è destinata più d’ogni altro a cambiare il volto della città e a interpretarne le ansie di rinnovamento; è anche la prima donna sul trono degli Asburgo.
Maria Teresa d’Austria risiede a Vienna ma considera Milano la perla dei nuovi territori aggregati all’Impero. Concepisce per la Lombardia un vasto piano riformatore. Libertà di commercio, sviluppo dell’industria e dell’agricoltura, ma il suo capolavoro è il catasto, l’ordinamento e la compilazione dei beni prodotti. Rinnova il costume degradato e corrotto dal formalismo spagnolo, sopprime i privilegi feudali e il diritto di asilo, che concedeva il ricovero degli assassini nelle chiese; ripulisce le strade dando dignità al lavoro e riducendo gli eccessi della pubblica carità; abolisce l’inquisizione e la censura ecclesiastica, riduce il latifondo e favorisce la piccola proprietà.
In quarant’anni di regno Maria Teresa impresse il segno nelle opere che rappresentano il suo monumento più duraturo.
Allo Studio di Pavia, rinnovato, chiamò i più gradi talenti dell’epoca: Alessandro Volta, Lorenzo Mascheroni, Lazzaro Spallanzani. Incrementò l’istruzione pubblica con la scuola elementare obbligatoria e gratuita: caso unico nella penisola. Vennero poi le grandi istituzioni vanto della città: il Teatro alla Scala, inaugurato nel  1778; il palazzo Ducale, poi Reale, anch’esso, come la Scala, opera del Piermarini; la Biblioteca Braidense, con 24 mila volumi; ed ecco alla Villa Reale la prima forma di giardino pubblico.
Nulla doveva risultare inutile e tutto di pubblica utilità. Al governo di Milano Maria Teresa aveva voluto l’uomo giusto, il conte Firmian, protettore della musica e delle arti. Milano divenne un crocevia: venne il giovane Mozart ricevuto con gli onori dal governatore. Milano era una città ricca e felice. Più che la parsimonia asburgica ricordava il lusso francese. Alla morte di Maria Teresa, avvenuta nel 1780, salì al trono il figlio Giuseppe II che continuò l’opera riformatrice della madre. Poi la bufera rivoluzionaria che portò Napoleone a Milano. Alla sua definitiva caduta, nel 1815, tornò l’Austria e la Lombardia fu unita agli antichi territori veneziani nel nuovo Regno Lombardo-Veneto con Milano capitale.
Al nuovo territorio venne concessa una larga autonomia secondo la tradizione Teresiana. Vigeva la doppia monetazione, la lira milanese d’argento e il fiorino austriaco, il golden di carta. E l’arguzia milanese aveva trovato il modo di ridere della lira austriaca, la svanzica, da venti in tedesco, che avendo l’impronta dell’aquila bicipite era chiamata Checc, gallina. Per ammissione dei vecchi milanesi il sistema delle monete e delle misure era complicatissimo. Si cominciava col quattrin o ghell: c’era il trii quattrin, il bòr era una soldo, al ses e on quattrin corrispondeva il quattrin di svanzica. Nomi che servivano all’umore popolare per dare i sopranomi più divertenti. Un abatino si chiamava on ghicc, quasi valesse due centesimi. La lira da venti soldi, ricordo dell’Ambrogino, col sant’Ambrogio dallo staffile, non esisteva più soppiantata dalla lira austriaca, ma il popolo continuava a contare e contrattare nel suo nome.
Quanto alle misure, c’era la pertica, la brenta e la trentina, non c’erano più le moggie e i quartaj, sparite la vecchia pinta, il boccale e la zaina. Col carnevale ambrosiano si esercitava la satira del potere con le maschere allegoriche che sfilavano in Contrada Orientale, l’attuale corso Venezia, e l’Austria lasciava correre. In ottobre arrivavano in piazza Castello i carri con le botti di vino nuovo. Si toglieva la spina e si lasciava bere a on sold al fiaa. Di trippe incoronate e cervellate si trova menzione anche nell’Aretino. La cervellata era così squisita che i magistrati del comune, temendo ne venisse guastata la ricetta, ordinavano che fossero adoperati solo gli ingredienti prescritti e si poteva vendere solo in presenza dall’autorità comunale.
I milanesi avevano sempre avuto fama di ghiottoni. E a proposito delle differenze Dossi diceva: lombardi lupi e fiorentini mangia fagioli, lecca piatti e tovaglioli. Il popolo andava a comprare cinq ghei di basletta, gli scarti di salumeria o delle mense dei ricchi detti repubblica, cinq ghei di repubblica. Repubblica era sinonimo di confusione. Dopo il ’61, arrivata l’Italia, gli operai cominciarono a scendere il sciopero stanchi del pane di mistura e una canzone popolare diceva.
Canta,lavora e mucchela
Coi to do checc al dì.
Quaranta centesimi  al giorno. Era tutto ciò che passava l’arcigna monarchia di Savoia. Sotto l’Italia Milano verrà presa a cannonate. Il ricordo dell’Austria non passava.
 

mercoledì 15 giugno 2016

Alcuni crimini "italiani" nel 1915.


Lucinico prima della guerra.
Nel 1915 il Romano Cargnel, quindicenne di Lucinico, guarda i soldati italiani che transitano sulla strada statale. Un soldato, giunto vicino a lui, gli spara una fucilata a bruciapelo ferendolo mortalmente.

Francesco Perco e altri tre uomini raccolgono il corpo e lo portano in un’abitazione nell’inutile tentativo di prestargli soccorso. I quattro soccorritori vengono arrestati e condannati a morte. Tre di loro vengono fucilati presso Cjascjelut di Mossa senza processo dopo ...essere stati costretti a scavarsi la fossa da soli.

L’unico processato dal tribunale militare è il Perco, che viene anch’egli condannato a morte.
Testimonianza dell’avvocato Stecchina di Mossa (poi Sindaco di Gorizia) raccolta dal Maestro Augusto Geat: “Rientravo in ritardo da un servizio allorché incontrai il padre di Don Eugenio Bregant, sacerdote di Lucinico, che ammanettato procedeva verso Capriva fra due Carabinieri. Gli domandai il motivo per il quale era stato arrestato ed egli mi riferì:

"Stavo zappando nell orto allorché mi sentii chiamare. Alzai lo sguardo verso la strada e vidi costoro, due Carabinieri, uno dei quali mi faceva cenno di avvicinarglisi. Quando li ebbi raggiunti, mi ammanettarono”.
“Io sono in ritardo –disse lo Stecchina- ma subito dopo verrò a trovarti e cercherò di risolvere la tua situazione”.

Infatti il Dottor Stecchina andò per tempo, come promesso, al comando dei Carabinieri che era dietro al vecchio municipio di Capriva. Appena giunto, chiese di parlare col prigioniero.

“Che prigioniero?” fu la risposta.
“Quello ch’è stato portato qui stamane!”
“Non c’è mica più” ripose l’interpellato.
“E dov’è?”
“L’ha ucciso un graduato!”

Fonte: Vota Franz Josef

 

martedì 14 giugno 2016

SERBI IDDIO L’AUSTRIACO REGNO!

 
La notizia arriva a Vienna nel pomeriggio, con un’edizione straordinaria del Tagblatt.
L’Arciduca Ferdinando ucciso con la moglie a Sarajevo.

La voce corre rapida, in breve tutta la città sa della sciagura. Ammutolita dall’orrore, si paralizza. Nei caffè la gente si alza dai tavolini e si incammina verso casa, a testa bassa, i negozi abbassano le saracinesche, e tutti sottovoce ripetono la stessa domanda.

L’Arciduca Ferdinando? Perché?

Francesco Ferdinando era la speranza di tutti coloro che ancora credevano che si potesse opporre al grande caos un’ordinata vita civile. (Karl Kraus)

Erede della corona imperiale, aveva un grande progetto politico. Un progetto che probabilmente avrebbe salvato l’Austria e aperto una via di rinnovamento per l’Europa. In quegli anni, però, Austria ed Europa avevano molti nemici, e Francesco Ferdinando venne ucciso. Prima di poter attuare il suo progetto e in tempo utile ad accendere quel fuoco di guerra che avrebbe annientato l’Austria e indebolito irrimediabilmente tutta l’Europa.
Ciò che l’erede al trono –un poco impaziente – attendeva di poter realizzare era l’autonomia dei vari gruppi etnici presenti nel territorio imperiale. Il suo progetto era lungimirante: equiparazione delle nazionalità, trasformazione dell’Austria-Ungheria in una sorta di confederazione che appagasse tutte le spinte autonomiste. Per Ferdinando era questa l’unica garanzia di una pace duratura. Intorno a lui, al Belvedere, si riunirono grandi personalità dell’Impero in una sorta di governo parallelo, nel quale tutte le etnie erano rappresentate.
Aurel Popovici, che tra i tanti consiglieri era forse quello che esercita sull’Arciduca maggiore influenza, aveva elaborato un dettagliato progetto di riforma federale dell’Impero e scritto un’opera che avrebbe fatto scalpore, Gli Stati Uniti della Grande Austria.
Centralismo e nazionalismo erano in quegli anni gli argomenti prediletti della propaganda liberale. Invece Ferdinando era convinto che centralismo e nazionalismo soffocasser i popoli. L’Impero è pluralità, periferia, vivacità e rispetto delle tradizioni. Il centralismo e il nazionalismo al contrario portano all’omologazione. Il futuro è il federalismo, l’autonomia dei popoli sotto la grande ala dell’aquila imperiale. Che li tiene uniti, li protegge, ma li lascia liberi di esprimersi nelle loro peculiarità.
L’impero, oggi giudicato come superato, inutile relitto della storia, a ben guardare altro non è che l’Europa come oggi la vorremmo.
La società tollerante e rispettosa del diverso che viene oggi invocata, esisteva. Era l’Europa dei popoli, forte, ricca di cultura e tradizioni. Rispettosa delle autonomie, senza confini imposti. Esisteva, e la si è voluta cancellare. Distruggendo l’impero si è distrutta la possibilità di un’Europa multiculturale eppure autenticamente europea, multietnica eppure armonica. Si è persa l’idea di una comune appartenenza. E senza una comune appartenenza, la diversità sfocia inevitabilmente nel conflitto. L’Impero era tollerante e sovranazionale. Finito quello, è finita l’Europa. Al posto di una spontanea e vivace multiculturalità, si è creato un surrogato artificioso fatto di diversità imposte, di tradizioni e culture cancellate o ostentate, di convivenze infelici. Dove non può esserci ordine perché non c’è più senso di appartenenza. Morto l’universalismo imperiale che per secoli ha fatto grande l’Europa, è morta anche l’Europa. Ora c’è il suo fantasma. L’Europa finta delle nazioni, delle identità perdute e dei popoli omologati.
Francesco Ferdinando, colui che solo poteva rinvigorire l’Impero e l’Europa col suo modernissimo progetto federale, viene ucciso il 28 giugno 1914.
L’assassino fu lo studente serbo Gavrilo Princip, figlio diciannovenne di un postino. I suoi complici erano tutti giovani. Giovani e sprovveduti come lui. Un manipolo di incompetenti guidato da menti perverse. La morte dell’Arciduca sarà il pretesto per lo scoppio della Grande Guerra. E il trattato di Versailles che cancellerà l’Impero sarà secondo François Fejtö «l’errore più grande della storia europea».

Elena Bianchi Braglia

Grandi goriziani: Carl von Czoernig

Fonte: Vota Franz Josef


Carl von Czoernig
Nato in Boemia da umili origini divenne nobile, funzionario statale, statistico amministrativo (disciplina da lui fondata), consigliere personale dell'Imperatore e primo studioso internazionale del friulano.
Dopo la laurea iniziò la carriera statale a Trieste nel 1828 dove imparò l'italiano, tre anni dopo fu a Milano e nel '34 era segretario del Governatore Hartig. Nel 1841 pubblicò una delle sue opere più famose: "Tafeln der Statistik der österreichischen Monarchie" e fu chiamato a Vienna per dirigere il neo costituito Ufficio Centrale di Statistica Amministrativa.
Si interessò di traffici marittimi e ferroviari, di industria, di finanza, di etnologia e di linguistica: si deve a lui la straordinaria "Ethnographische Karte der österreichischen Monarchie" linkata oggi su Vota Franz.
Ammalatosi per l'intenso lavoro, a metà degli anni '50 gli fu prescritto di trasferisti a Gorizia, dove in pensione, prese casa in una villetta in Corso Francesco Giuseppe Primo n.ro 24 dove sarebbe morto nel 1889. Guarì molto rapidamente e scrisse diverse opere sulla città, tra le quali "Die Stadt Görz zunächst als climatischer Curort" che la rese nota come stazione invernale di cura e coniò anche il soprannome "La Nizza austriaca" che era il sottotitolo del libro testé citato.
Tralasciamo tutto il resto della sua enorme bibliografia per dare qualche cenno dei suoi studi sul friulano.
Fu il primo che individuò tale lingua come "sorella" dell'italiano e delle lingue ladine, intuendo lo sviluppo delle lingue neo romanze, facendo paralleli con quest'ultime che ormai conosceva alla perfezione.
Nel 1857 fu pubblicato il primo censimento, del quale era il "padre". Ecco i risultati etno linguistici per la Contea:
130.748 sloveni
47.841 friulani
15.134 italiani
2.150 tedeschi
403 israeliti
Negli anni '50 il KK Staadtsgymanisum di Gorizia classificava gli studenti in sloveni, friulani, italiani e tedeschi.
Il 17 novembre 1861 nella "Rivista Friulana" appariva una delle prime "rivendicazioni" della nazionalità:
"nei giornali triestini c'era l'annuncio pubblicitario di un fondaco di stoffe NAZIONALI FRIULANE in via del Corso 595 vis a vis del Tergesteo."
Ad Udine gli intellettuali erano disinteressati al friulano, Prospero Antonini rispose all'Abate Pirona il 6 aprile del 1868 ringraziandolo per la copia del suo dizionario friulano (il primo) ma facendo un panegirico sulla necessità che i friulani usassero "la lingua parlata in Toscana, ne'paesi ove predominano i dialetti".
Nel 1865 l'Antonini rivendicava la sovranità italiana per la Contea, basandosi sulla teoria che il friulano fosse un dialetto della lingua italiana. Secondo Camillo Medeot che fece ricerche e pubblicazioni: "Non si deve credere che il sentimento nazionale friulano fosse allora molto più sviluppato a Gorizia che a Udine, pertanto nel censimento del 1880, il riferimento all'etnia friulana venne tolto ed i friulanofoni furono inseriti nella nazionalità italiana.
Di ciò si rammaricò il figlio del Czoernig nel suo studio Die ethnologischen Verhältnisse des Österreichiscen Küstenalendes nach dem richtiggestelten Ergebnisse del Volkszälung vom 31 Dezember 1880 pubblicato a Trieste nel 1885.
Carl von Czoernig si interessava del friulano dal 1848 e scrisse alcune opere per farlo conoscere a livello internazionale. Era in contatto epistolare sia con l'Abate Pirona che con Piero Zorutti.
La sua prima opera è del 1853: Über Friaul, seine Geschichte, Sprache und Alterthümer.
Negli anni '60 Carl von Czoernig prese in giro Cesare Cantù, che era il capofila della corrente etnocida che voleva eliminare le lingue pre unitarie per sostituirle con l'italian-toscano.
Scrisse in una lettera che l'idolo degli intellettuali udinesi era poco più di un mentecatto poiché i vernacoli locali, essendo le basi delle lingue "alte" e delle lingue letterarie, non possono in alcun modo essere considerati da esse derivanti, ossia "dialetti". Sarebbe come se il nonno discendesse dal nipote e non viceversa.
Ma di Carl von Czoernig nessuno sa niente, forse qualcuno può ricordare una piazzetta con il suo nome a Gorizia, stabilita appena nel 1964. Invece l'etnocida Cesare Cantù ci viene fatto sembrare chissàchi, essendoci strade ad egli intitolate in ogni nostra città ed anche alcune scuole.