martedì 12 aprile 2016

TRE MILIONI DI FRANCHI IN PIASTRE D’ORO A GARIBALDI PER COMPRARSI IL SUD, ce lo raccontano i massoni.

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Fonte: https://venetostoria.com/page/

I MASSONI SVELANO COME FURONO FINANZIATI I MILLE se ce lo spiegano loro, cosa c’era sotto, c’è da dar retta alla fonte…

Adesso, ecco la sconcertante rivelazione. Viene dal convegno “La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria”, organizzato a Torino nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, con l’appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono stati pubblicati gli Atti, a cura dell’editrice ufficiosa dei massoni. Una fonte sicura dunque, visto il culto dei “fratelli” per quel Garibaldi che fu loro Gran Capo.
Un breve intervento —poco più di due paginette, ma esplosive— a firma di uno studioso, Giulio Di Vita, porta il titolo “Finanziamento della spedizione dei Mille”.
Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore della ricerca: «Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene solitamente riferito è un modesto versamento —circa 25.000 lire— fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all’atto dell’imbarco da Quarto».
E invece, lavorando in archivi inglesi, l’insospettabile Di Vita ha scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata l’enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè (chiarisce lo studioso) «molti milioni di dollari di oggi». Il versamento avvenne in piastre d’oro turche: una moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo.
A che servì quell’autentico tesoro? Sentiamo il nostro ricercatore: «È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall’oro». Anche perché ai finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi, palesi) frutto di collette tra tutti i “democratici” di Europa e America, del Nord come del Sud.
Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici voci: come, ad esempio, che la resa di Palermo (inspiegabile sul piano militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma con le “piastre d’oro” versate al generale napoletano, Ferdinando Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si può forse valutare meglio un’impresa come quella dei Mille che mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari iniziali.
Ma c’è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui viaggiava, l’”Ercole”, affondò per una esplosione nelle caldaie e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma l’inchiesta fu sollecitamente insabbiata. Le cose possono ora chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell’Intendenza, amministrava i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione sull’impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un atto doloso.
Si cominciava bene, dunque, con quella “Nuova Italia” che i garibaldini dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di corruzioni e di attentati. Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille erano a conoscenza?
In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell’isola).
Come riconosce il «fratello» Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era quello già ben noto: aiutare Garibaldi per “colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico“. Le monarchiche isole pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche l’Italia, «tenebroso antro papista», fosse liberata dal cattolicesimo.
 

Come i romani manifestarono i loro sentimenti all’arrivo delle truppe italiane

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La gioia dei Romani liberati

I Romani si chiusero in casa e sbarrarono porte e finestre, appendendo drappi neri alle finestre in segno di lutto. Alcuni portoni di case nobiliari non riaprirono i loro battenti che nel 1929, all’indomani della “Conciliazione”.
Cinquemila facinorosi, autoproclamatisi “esuli
romani”, erano al seguito dell’esercito ed entrarono subito in città, inneggiando a Vittorio Emanuele e all’unità d’Italia, mentre nel pomeriggio treni speciali portarono a Roma nuova gente a far gazzarra, al punto che “La Nazione”, giornale liberale di Firenze, poté scrivere: “Roma è stata consegnata come res nullius a tutti i promotori di disordini e di agitazioni, a tutti gli approfittatori politici di professione, a coloro che amano pescare nel torbido, ai bighelloni di cento città italiane. Si potrebbe pensare che il governo voglia fare di Roma il ricettacolo della feccia di tutta Italia”. I disordini continuarono per giorni in Roma finalmente “liberata”.

tratto da: Il Popolo, (settimanale della diocesi di Tortona), 6.10.2005

N.B. l’attacco allo stato pontificio iniziò l’11 settembre, giorno infausto ora come allora.

sabato 9 aprile 2016

[TOLKIENIANA] Aragorn, la forza del sangue di un Re

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Di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/
 
Come può un uomo dimostrare il suo valore? Da cosa conosciamo la sua virtù? Seguendo la philosophia perennis risponderemmo: dalle sue azioni, in virtù del postulato metafisico «agere sequitur esse». Una verità espressa da San Francesco d’Assisi con queste semplici parole: “tanto sai quanto fai” per insegnare che il valore, il prezzo di un uomo si valuta in base alla sua virtù, al bene che egli compie e si sforza di compiere in un combattimento virile e diuturno.
Parlare di Aragorn vuol dire, a mio avviso, parlare del “Tutto”, ossia avventurarsi nelle profondità della spirituale fatica della vita cristiana fino alle più alte vette del Mistero del Verbo Incarnato; dalla essenziale humilitas – costituzione fondante e irriducibile – della humanitas all’insondabile e ineffabile altezza del Cristo; dalla debolezza dell’umano volere allo sconfinato potere della Grazia. Ci vorrebbe, a mio avviso, un trattato di teologia mistico-ascetica per trarre i molteplici significati che questo personaggio racchiude e riflette come un prisma ottico. Per questo motivo ho ritenuto più opportuno procedere “a braccio” non per presunzione ma, al contrario, proprio per mancanza di mezzi ma anche, e soprattutto, perché prediligo una trattazione appassionata, personale, intima e vera ad una, seppur precisa, apaticamente “scientifica”. In proposito devo dire che gli scritti di Newman hanno influenzato in maniera non poco decisiva la presente impostazione. Preferisco, non me ne vogliano gli esperti tolkieniani, muovermi sul piano del cuore e del sentimento e non su quello freddamente accademico e, per così dire, della “lettera morta”. In fondo, la modalità più efficace e fruttuosa di conoscere, ritengo sia quella di amare l’oggetto della conoscenza più che la conoscenza in se stessa e per se stessa secondo quanto dice con semplice e penetrante profondità, sant’Alfonso Maria de’Liguori: «Chi più ama Dio, più lo conosce. “Amor notitia est”, diceva san Gregorio. E sant’Agostino: “Amare videre est”». Non credo che Tolkien approverebbe il modo di fare di quei cristiani che imparassero tutta la toponomastica e le genealogie della Terra di Mezzo a memoria e poi trascurassero di vivere nella propria vita il coraggio di Boromir, l’umiltà di Sam, la prudenza di Gandalf o l’abnegazione di Frodo. I circoli tolkieniani dove si conoscono a memoria tutte le locande della Terra di Mezzo o i nomi di tutti i personaggi del Silmarillion ma si ignora ed anzi, si combatte la Fede Cattolica sono un’offesa al loro autore. Studiare, analizzare, classificare l’opera di Tolkien prescindendo dalla sua fede intima, semplice e profonda come le radici che non gelano, è come, salvando le dovute differenze, analizzare la Sacra Scrittura da atei-razionalisti: non si potrebbe mai penetrare l’essenza sottesa a quelle parole ordinate in forma di racconto. È un po’ quello che succede a coloro che, ammirando la bellezza della Crocifissione di Giotto o ascoltando lo Stabat Mater di Pergolesi, restano colpiti dai colori e dalle forme, dall’espressività palpabile dei personaggi, dalla musicalità e dall’ordine delle note che sprigionano un pathos che tocca le corde più profonde dell’anima ma non scendono più in profondità a chiedersi quale ne sia la causa, da dove sgorghi quella bellezza così a noi intima quanto sconosciuta. Soltanto se conoscessimo la fede che guidò quelle mani e quell’orecchio capiremmo quanto di divino e sovrumano c’è in quelle opere tanto da renderle immortali, fisse, quasi eterne e di certo non ascriveremmo la loro bellezza soltanto alle capacità tecniche dell’artista.
Se esiste un qualche modo a questo mondo di onorare l’umile e straordinaria opera di John Ronald Reuel Tolkien, credo sia quello di mostrare la superiorità della morale cristiana sull’agire – quantunque il più elevato – naturale umano. “Che ti serve – domanda il beato Tommaso da Kempis – saper discutere profondamente della Trinità, se non sei umile, e perciò alla Trinità tu dispiaci? Invero, non sono le profonde dissertazioni che fanno santo e giusto l’uomo; ma è la vita virtuosa che lo rende caro a Dio”. Non è, infatti, il grado di conoscenza dei dettagli che ci permette di conoscere il tutto, ma l’amore che si ha per il Tutto e, in esso, di tutti i suoi dettagli, anche di quelli che si ignorano, per il solo motivo che appartengono a Lui. Dio non potremmo mai comprenderlo neanche in Paradiso nella visione beatifica, neanche gli angeli lo potranno, eppure quanto più lo si ama tanto più lo si penetra, tanto più lo si gusta tanto più lo si conosce e, conoscendolo lo si ama ancor più in un circolo ascendente di contemplazione amorosa che nessuna penna umana è capace di descrivere.
In ultima istanza, per conoscere adeguatamente e apprezzare profondamente Tolkien bisognerebbe amare ciò che lui amava, sperare ciò che lui sperava, pregare come lui pregava, in altre parole, mettersi alla ricerca della Fonte della Vita. Quella Plenitudo Gratiarum, Maria sempre Vergine, la cui devozione Tolkien nutrì con la semplicità e spontaneità di un figlio; Pienezza di Grazia, dicevo, da cui si schiuse quasi un raggio di quella Bellezza tanto antica e tanto nuova che costituisce quell’aura calda e discreta che circonfonde l’epopea della Terra di Mezzo.
Ma sarà meglio terminare qui la, pur doverosa, premessa ed attraversare decisamente il fiume Brandivino per avventurarci nelle Terre Selvagge, non senza aver prima attraversato la terra di Buck e la Vecchia Foresta con la sola guida della Divina Provvidenza: non si sa mai una scorciatoia per i funghi, imboccata “per caso”, quali inaspettati incontri possa favorire…
Grampasso, un ramingo del nord, incappucciato, mezzo avvolto dalla semioscurità della locanda del Puledro Impennato in un crepuscolo avanzato, quasi notte, freddo e piovoso mentre ombre oscure si avvicinano silenziose da Est. Fuma la sua lunga pipa, gli occhi coperti ma ben attenti, celati dal cappuccio impolverato da un lungo viaggio scrutano la sala e gli avventori in cerca di qualcuno. Il suo aspetto a primo impatto non ispira fiducia, tutt’altro, sembrerebbe quasi un malvivente o comunque uno straniero poco amichevole. “Si alzò in piedi e parve all’improvviso diventare altissimo. Nei suoi occhi ardeva una luce penetrante e autoritaria. Scostando la cappa, mise la mano sull’elsa di una spada che pendeva al suo fianco dissimulata dalle pieghe del manto…abbassando verso di loro [gli hobbit] un viso improvvisamente addolcito da un luminoso sorriso. «Io sono Aragorn figlio di Arathorn; se con la vita o con la morte vi posso salvare, lo farò»”. Sia sufficiente questa breve descrizione per immaginarci il tipo che ci troveremmo innanzi se fossimo noi a doverci incontrare con Gandalf a Brea per muoverci, insieme con lui, verso Granburrone. Un simile personaggio corrisponde più o meno ad un guardiano, un cercatore selvaggio, un «wild rover» più abituato a vivere in mezzo agli animali della selva che con gli uomini, nella solitudine anziché nel villaggio, in pellegrinaggio piuttosto che nella stabilità di un focolare. L’immagine che ne emerge è quella di un anacoreta, di un guerriero solitario che dopo aver appreso dalla sua comunità d’origine, i Dùnedain, a combattere da monaco cenobita può diventare un guerriero eremita nel mondo, come l’Abba Gandalf e gli altri Istari. A questo proposito mi piace inquadrare i raminghi del nord secondo quanto la Regola di San Benedetto attribuisce agli eremiti; essi sarebbero «coloro che non sono mossi dall’entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, dove con l’aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell’eremo, sono ormai capaci, con l’aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni» (Regula c. I, vv.3-5).
Per una larga parte del racconto, Aragorn è conosciuto più come Grampasso che come l’erede di Isildur eppure questo ramingo del nord, avvolto in umili vesti, è colui che indossa il diadema del Re. Egli è colui che è destinato a prendere possesso del trono di Gondor e ristabilire la legittima monarchia sul più antico regno degli uomini della Terra di Mezzo. I sovrintendenti, dovranno cedere il passo a Grampasso, dovranno consegnare la sua eredità, dovranno restituire il talento loro affidato perché il Re di Gondor ristabilisca ogni cosa nell’ordine e nella giustizia di un tempo. Un pellegrino guerriero rivendica ciò che è suo, uno che ha passato la sua vita senza avere dove posare il capo, dovrà fissare la sua dimora e renderla stabile per sempre. Invisibile protettore delle genti, il ramingo e fuggiasco che ha speso la sua vita a difendere i confini della Contea e a combattere guerre per cui nessuno dimostrerà mai gratitudine deve ora farsi innanzi per fronteggiare il Male a viso aperto, non tanto per se stesso quanto per il bene degli altri. Nel personaggio di Aragorn vediamo via via che la trama si va definendo uno sviluppo del suo ruolo, un crescendo anche psicologico che lo conduce verso una maggior presa di coscienza della propria identità, potremmo dire, della propria “vocazione regale”.
È significativo che la nobiltà in Tolkien sia legata non solo alla bontà del cuore, cosa che prende forma nelle figure di Frodo e Sam, ma anche al sangue ossia al casato e alla stirpe carnale, e ne vedremo il perché. Il sangue reale come un patrimonio mai interrotto si trasmette di padre in figlio nelle alterne vicende del mondo. Le genealogie sono estremamente importanti per Tolkien: Aragorn si conosce in quanto figlio di Arathorn discendente di Isildur. La Tradizione mai interrotta, seppur occultata, è la garanzia dell’autorità legittima dell’erede al trono, il valore del suo sangue risiede nella sua antichità ossia nella sua diretta dipendenza dall’origine regale. Ma esso, nel corso del tempo, è stato certamente offuscato se non addirittura obliato dalla quasi totalità dei popoli che brancolano senza guida nella confusione e nella gretta empietà che tutto conduce all’autodistruzione, favorendo l’avanzata delle nere armate delle tenebre. In questo ceppo sanguigno che attraversa la storia si comprende come il Re sia tale anzitutto per diritto di natura, non c’è nessun’altro che possa vantare per sé il trono di Gondor che, altrimenti, sarebbe destinato a restare vuoto. Una possibilità questa che farebbe gola a molti custodi del tempio di Gondor e, oggigiorno, ai custodi del tempio di Cristo che è la Chiesa i quali, piuttosto che cedere la regalità a Colui che solo ne ha il diritto preferiscono volgersi al Palantìr per chiedere a “qualcun altro” quel potere agognato che, non li renderebbe veramente dei re ma delle patetiche e maligne caricature regali. Costoro non si curano dell’eredità, diremmo noi del gregge, loro affidata, non pensando che un giorno il Gran Re tornerà sulle nubi del cielo con il vessillo della Croce spiegato come nella raffigurazione scultorea che domina su Roma dalla facciata di San Giovanni in Laterano. Essi vivono per l’oggi, chiudendosi come disperati barricati dentro la sala del trono per impedire che il Re, il Vero Re, il Re della Gloria alzando le porte antiche la riconquisti, e li scacci fuori nelle tenebre esteriori. È questa la tentazione di Boromir e il peccato di Denethor che conduce inevitabilmente quest’ultimo alla pazzia e alla morte: chi non è come Dio ma brucia dal desiderio sciagurato di esserlo finisce col bruciare tra le fiamme dell’immane caos della notte eterna, e tale sarà, di fatti, l’ingloriosa fine di Denethor, sovrintendente-pastore di Gondor.
Abbiamo già compreso forse dove una tale simbologia voglia condurci: alla cristologia implicita di Aragorn, ma questo era facilmente prevedibile. Egli è il Gran Re che rivendica a sé il trono, avanza brandendo la Spada che anticamente aveva ferito e umiliato il Nemico delle anime. La spada spezzata segno di una stirpe stroncata a causa della colpa di colui che avrebbe dovuto superare la prova della tentazione sul Monte Fato e che, fallendo, trascinò con sé nella rovina tutta la sua discendenza. Ma un germoglio, un virgulto, una gemma di quella stirpe doveva essere il nuovo inizio. Da quell’albero secco di Minas Tirith il fiore della Grazia sboccia piccolo e discreto, mentre la civitas hominis va in fiamme. L’umanità ferita, come una spada rifusa nel crogiuolo e ricomposta più forte e splendente, viene ricostruita con il fuoco e la grazia, e brandita dall’unico capace di renderla letale per l’Oscuro Signore. Non è un caso che l’eroe per eccellenza dell’epopea della Terra di Mezzo sia un uomo e non un elfo, non cioè una creatura quasi angelica, disincarnata, a noi aliena ma è un uomo il cui sangue è al contempo umano ed elfico, mortale e immortale, un rimando, forse implicito, all’unione ipostatica del Verbo Incarnato il quale “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Di fatto, notiamo un aspetto determinante e singolare nella psicologia di Aragorn: egli non vuole il trono. È questo un peso che lui deve portare, al pari di Frodo, malgrado se stesso. Non agogna il potere né il dover assumersi il peso e l’ingratitudine di popoli meschini che non lo vogliono come Re. Codesto sarà il secondo “fardello” del racconto, non esplicitato ma chiaro, latente eppur determinante. È questo il destino dell’erede di Isildur, la Divina Provvidenza lo ha disposto in maniera mirabile ed egli, da vero cristiano, da autentico cavaliere di Cristo, lo accetta, lo abbraccia come Nostro Signore Gesù Cristo nell’agonia del Getsemani. Il Gran Re, vero Dio e vero Uomo supplica il Padre di allontanare da sé il calice della Passione a motivo dell’ingratitudine e la perdizione di molti uomini che non profitteranno della sua Redenzione e, per i quali, quel Sangue Reale, preziosissimo quanto necessario al Sacrificio sarà versato in vano, anzi, per la loro rovina.
L’umanità di Aragorn si mescola alla sua origine, per così dire, “divina” in una complessità psicologica al contempo tormentata e nobile; un personalità introspettiva simile a quella di Agostino d’Ippona cui competé l’onere, suo malgrado, dell’episcopato, strappato alla solitudine della contemplazione perché si prendesse cura dei suoi sudditi. Afflitto dal peso che su di lui è ricaduto, il Re Ramingo procede guidato da un’invisibile forza che tutto dispone, anche il male, per il maggior bene dei giusti.
Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquæ et vini mysterium, eius divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostræ fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster”. Una tale commistione di acqua e di vino, di humus et divus, costituisce la ricapitolazione della creazione e della redenzione perfettamente concluse e sintetizzate nell’unica Persona al contempo umana e divina del Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, la cui doppia natura soltanto poteva procurare a noi la salvezza; in quanto Dio ci ha meritato una salvezza eterna ed efficace, in quanto Uomo ha ricostituito in giustizia la razza umana perché fosse resa atta a ricevere tale salvezza e riabilitata a prendere parte alla divinità come e più che non al Principio.
Ma c’è un’altra nota molto bella e significativa che distingue la figura di Aragorn, ossia quella definizione che nel libro suona quasi come una profezia secondo cui “le mani del re sono mani di guaritore”. Il fatto che un re cristiano, consacrato con un rito d’incoronazione che costituiva un sacramentale era, nell’evo cristiano, considerato come la condizione per cui il re, in virtù della sua regalità, possedesse poteri taumaturgici, ossia di guarigione e di esorcismo. E questo si è dimostrato vero non poche volte nelle vite di re santi, di regine e principesse sante. Certo la regalità non agiva ex opere operato come un sacramento ma, appunto, come un sacramentale cioè ex opere operantis. Una tale concezione la ritroviamo in Aragorn, figura e immagine di Cristo Re “il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38). Un aspetto questo che ritengo la versione cinematografica abbia reso abbastanza fedelmente ed efficacemente, ossia la capacità di Aragorn di guarire le ferite del maligno e dei suoi emissari oscuri in quanto eletto e consacrato re già dal suo sangue. La facoltà che egli possiede di guarire le ferite inferte dall’Oscuro Signore, utilizzando per giunta l’atelas, non a caso «foglia di re», è un segno chiaro della sua unzione regale da cui si può cominciare a riconoscere in lui l’erede di Isildur, un po’ come Nostro Signore attraverso il suo potere di guaritore ed esorcista svela progressivamente la sua natura divina.
La regalità assoluta di Aragorn si mostra però non solo sul regno dei vivi ma anche su quello dei morti. Perché nel Suo nome ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; il suo sangue è il lascia passare per il regno dei morti, la via del Dimholt, il sentiero sotto la Montagna, un regno di sofferenza e di attesa, quasi un purgatorio dove coloro che non saldarono i conti a tempo dovuto, finché erano in vita, ora devono pagare fino all’ultimo spicciolo la loro infedeltà e vigliaccheria. In una discesa anastatica al limbo, il Rex omnium hominum promette a quelle ombre tristi e prigioniere libertà e pace, il riposo delle anime loro ma solo dopo che avranno contribuito al bene dei vivi. Una sorta di trasposizione fantasiosa della comunione dei santi in cui le anime sante e sofferenti del purgatorio le quali, nulla potendo più per se stesse, possono però molto per i vivi e, tramite la riconoscenza e carità di questi, abbreviare la loro permanenza sotto la dantesca montagna che conduce attraverso un’ascesa catartica alle prime sfere dell’Empireo. Un circolo di carità che unisce i vari strati dell’essere e i differenti livelli della vita in tempore et in aeternitatis, tenuti insieme dal solo sangue del Re dei vivi e dei morti, al cui giudizio né gli uni né gli altri potranno sottrarsi: “et iterum venturus est cum gloria iudicare vìvos et mòrtuos”.
E come non parlare, infine, di quell’amore tra il Nostro Re e quella donna immortale, figlia di una stirpe non umana, superiore e sacra, cioè separata, che porta il malinconico nome elfico di «Undòmiel», la Stella del Vespro. Nessun nome è casuale in Tolkien e il fatto che questa figlia di elfi sia chiamata «Stella del Vespro», richiama alla mente una luce che comincia a splendere nella notte mentre il suo chiarore si confonde col crepuscolo del sole ormai quasi scomparso dietro la linea dell’orizzonte. La razza degli elfi è al tramonto, il loro scopo in questo mondo è terminato ed ora questi primogeniti dei Valar lasciano il posto agli uomini, ma non abbandonano il mondo senza lasciare traccia del loro passaggio. Lasciano all’umanità nientedimeno che una luce del loro popolo, una gemma preziosa si offre spontaneamente: resta per amore di un uomo, per amore del Re rinunciando ai privilegi della sua razza, una personificazione dell’amor cortese che esprime, allo stesso tempo, anche il Mistero dell’Incarnazione nell’Emmanuele, il «Dio con noi». Arwen ed Aragorn in definitiva rappresentano un’unità indissolubile, un connubio ossia una commistione umano-divina che prolunga nel mondo la grazia degli elfi, la bellezza, la saggezza, la luce e quell’immortalità dei figli di Dio che costituisce il segno dell’origine e del destino di beatitudine eterna non più riservato ai soli elfi, che escono di scena, ma ora, grazie ad Aragorn e al suo matrimonio con Arwen, anche agli uomini.
Prepariamoci, dunque, al Ritorno del Re perché Egli avanza seppur nascosto qual ramingo, giusto samaritano, disprezzato dagli uomini e desiderato dalle genti, si avvicina e non tarderà. Porta con sé il premio, ma lo precedono i quattro cavalieri dell’Apocalisse, Fame, Morte, Guerra e Pestilenza. Soltanto dopo l’estrema battaglia alle soglie del Nero Cancello al termine di questa nostra breve vita, se avremo perseverato con Cristo, meriteremo di essere accolti nel sala del Trono ed ammessi, quali commensali, al banchetto dei cavalieri che hanno condiviso con il Re la fatica della lotta, il dolore delle privazioni insieme al piacere della sua compagnia, che allora non sarà più la Compagnia dell’Anello ma il festante coro dei beati nella cui gloriosa compagnia non dovremo più vergognarci.
O Rex omnium cordium, non tardare, Maranathà!

giovedì 7 aprile 2016

martedì 5 aprile 2016

VIDEO: Il Diluvio Universale spiegato da uno scienziato | Dr. Walter Brown


ISIS e Massoneria

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di Cinzia Palmacci - Fonte: http://www.radiospada.org/
 
Utilizzando un po’ di dietrologia, al riguardo risulta molto interessante la resunta descrizione della Terza Guerra Mondiale che si dice sarebbe stata fatta nel presunto carteggio (sulla cui autenticità comunque non ci sono prove), tra Albert Pike, noto massone, e Giuseppe Mazzini.
“La Terza Guerra Mondiale dovrà essere fomentata approfittando delle divergenze suscitate dagli agenti degli Illuminati fra sionismo politico e dirigenti del mondo islamico. La guerra dovrà essere orientata in modo che Islam (mondo arabo e quello musulmano) e sionismo politico (incluso lo Stato d’Israele) si distruggano a vicenda, mentre nello stesso tempo le nazioni rimanenti, una volta di più divise e contrapposte fra loro, saranno in tal frangente forzate a combattersi fra loro fino al completo esaurimento fisico, mentale, spirituale ed economico “.Il 15 agosto 1871 Pike disse a Mazzini che alla fine della Terza Guerra Mondiale coloro che aspirano al Governo Mondiale provocheranno il più grande cataclisma sociale mai visto. Si citano qui le parole scritte dallo stesso Pike nella lettera che si dice catalogata presso la biblioteca del British Museum di Londra:
“Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle nazioni, l’effetto dell’ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria. Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l’adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell’ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!” Insomma, la massoneria vuole distruggere il cristianesimo quindi l’ISIS fa al caso suo.
David Icke, giornalista autore di numerosi volumi sulla teoria della cospirazione globale, spiega che la Terza Guerra Mondiale rappresenterebbe l’unica via per la costituzione di “uno stato globale con un governo mondiale e un esercito mondiale. L’Isis – prosegue Icke – è venuto fuori dal nulla ed è incredibilmente ben armato, incredibilmente finanziato” con addirittura “2 miliardi di dollari a sua disposizione e stanno entrando nelle città irachene e ne stanno assumendo il potere. Si sono stabiliti in luoghi chiave di frontiera tra Siria e Giordania. Il piano consisteva nel creare un conflitto massiccio di “dividi e vincerai” tra i musulmani sciiti e sunniti. Tutti si stanno mantenendo a distanza per permettere che l’Isis consolidi la sua posizione in questa regione ed allora, se arriverà al punto di iniziare a minacciare Israele, schiacceranno il bottone, dunque i nordamericani e la Nato entreranno in azione perchè si sono impegnati a difendere la sicurezza di Israele.”
“L’idea – continua Icke – è di fare in modo che la Terza Guerra Mondiale coinvolga la Russia e la Cina. Quello che sta succedendo in Medio Oriente, in Siria, in Libia non è casuale. L’Isis non è casuale, fa parte di un piano a lungo raggio per assumere il controllo del mondo creando un caos enorme affinchè loro possano offrire un ordine dopo il caos, il loro ordine, il loro Nuovo Ordine Mondiale”. Bisogna connettere le tessere del puzzle: andare in Afghanistan è stato il primo passo, giustificato dalle menzogne dell’11 settembre e di chi c’era veramente dietro, in seguito sono andati in Iraq e questo ha creato le condizioni affinché Isis possa ora prenderne il pieno controllo. Loro vogliono andare in Africa e per questo stanno provocando terrorismo in tutta l’Africa. 
402056 13: Former Northern Alliance soldiers ride a vehicle March 8, 2002 towards the town of Gardez, in Afghanistan. Between 700 to 1,000 soldiers with approximately twenty tanks are moving from Kabul to the capitol of Paktia province. The soldiers are heading to the front line to join the U.S.-led coalition battling against al Qaeda and Taliban forces in the Shah-e-Kot mountain range of eastern Afghanistan. (Photo by Paula Bronstein/Getty Images)
Dunque l’Isis non sarebbe un nemico per gli Usa? No, o meglio, non lo è più. Isis utilizza strategie e mezzi simili a quelli praticati da Al Qaida, altra organizzazione che combatte per e promuove l’odio contro la superpotenza occidentale. Qatar e Arabia Unita hanno fornito aiuti economici e militari, ai quali si sono uniti quelli di Stati Uniti e Gran Bretagna.
  • Il ruolo della Turchia e le prove a carico
La Turchia è stata più volte accusata di esercitare un ruolo “doppiogiochista” nella lotta contro l’Isis e ciò è stato sostenuto specialmente da parte dei guerriglieri curdi e della Russia, notoriamente aventi pessimi rapporti con Ankara. Recentemente, alle ipotesi avanzate da curdi e russi si sono aggiunte quelle avanzate dal re della Giordania Abd Allah II. Secondo quanto è stato riportato da Middle East Eye, in un meeting segreto tra il re giordano e i membri del Congresso Usa dell’11 gennaio il re giordano avrebbe dichiarato che la Turchia starebbe dietro l’avanzata dell’islamismo radicale in Medio Oriente e la proliferazione del terrorismo islamista in Europa.
Come riportato in un articolo su “Wall Street Italia”, re Abdullah ha dichiarato che :
” Il fatto che i terroristi si stiano recando in Europa fa parte della politica della Turchia”, anche perché il presidente turco Tayyip Erdogan ritiene che “la soluzione per la regione (del Medio Oriente) sia quella dell’Islam radicale“. Di fatto, la “Turchia cerca una soluzione religiosa per la Siria, mentre noi siamo a favore di elementi moderati nel sud e la Giordania ha fatto pressioni su una terza opzione, che non permetterebbe l’adozione di una opzione religiosa “.
Inoltre, a una domanda di un membro del Congresso Usa che gli chiedeva se l’Isis starebbe esportando petrolio in Turchia, il re giordano ha risposto affermativamente e durante l’incontro ha anche sostenuto che gli jihadisti sarebbero stati “creati in Turchia”, per poi essere “rilasciati” in Europa.
Sullo sfondo circolano indiscrezioni su un asse sempre più solido tra la Giordania e la Russia di Vladimir Putin: sarebbe stato tra l’altro proprio il re a informare Putin sul traffico del petrolio dell’Isis acquistato dalla Turchia, in un incontro privato. Non solo: a gennaio, Giordania e Russia avrebbero siglato un patto per lo scambio di informazioni di intelligence sullo Stato Islamico. Così si è espresso il re Abdullah nell’incontro con i membri del Congresso americano:
“Il fatto che i terroristi si stiano recando in Europa fa parte della politica della Turchia”, anche perchè il presidente turco Tayyip Erdogan ritiene che “la soluzione per la regione (del Medio Oriente) sia quella dell’Islam radicale“. Di fatto, la “Turchia cerca una soluzione religiosa per la Siria, mentre noi siamo a favore di elementi moderati nel sud e la Giordania ha fatto pressioni su una terza opzione, che non permetterebbe l’adozione di una opzione religiosa”.
  • Altre prove storiche e teologiche della complicità turca
Molti rimangono confusi su chi conquistò Roma perché credono che l’Impero Romano cadde in declino piuttosto che essere conquistato da un impero successivo. Quello che molti non considerano è che l’Impero Romano aveva due gambe, la gamba Occidentale e quella Orientale e questo è anche raffigurato nelle gambe della statua della visione di Daniele in Daniele 2: 32-33:
”La testa di questa statua era d’oro puro; il suo petto e le sue braccia erano d’argento; il suo ventre e le sue cosce di bronzo; le sue gambe, di ferro; i suoi piedi, in parte di ferro e in parte d’argilla.”
Mentre la gamba occidentale è andata in declino nel corso del tempo, la gamba orientale ha continuato ad esistere per altri mille anni. Pensate a Costantinopoli, piuttosto che a Roma. Così, mentre possiamo vedere Roma come centro dell’Impero Romano, nell’ultimo periodo di questo impero, la capitale fu trasferita a Costantinopoli, a Est, che ora è la moderna Istanbul in Turchia. Questo periodo dell’Impero Romano è spesso definito come l’Impero Bizantino, quindi il motivo per cui vi è una certa confusione su come l’Impero Romano fu conquistato. È sicuro tuttavia che l’Impero Bizantino era l’Impero Romano. Si chiama con questo nome per identificare questa fase dell’Impero Romano. Gli storici non considerano l’Impero Romano d’Oriente come un impero diverso dall’Impero Romano quando la sua capitale era Roma. L’Est non ha conquistato l’Occidente, invece lo stesso impero ha trasferito la sua capitale da Roma a Constantinopoli. Sia l’Impero Romano d’Oriente che la terminologia ‘Bizantino’ sono termini creati dopo la fine del regno. I suoi cittadini hanno continuato a fare riferimento al loro impero come l’Impero Romano.
Allora, chi ha conquistato il Romano (Bizantino) Impero? È stato l’Impero Ottomano, che era in realtà il primo Califfato Islamico. Così il settimo impero di cui parla Giovanni è già stato compiuto, era l’IMPERO OTTOMANO. Conosciuto come un Califfato, inizialmente ha preso il controllo della regione e si dice che abbia raggiunto lo status di Impero, quando conquistò la capitale romana di Costantinopoli. Successivamente divenne la capitale dell’Impero Ottomano ed è stata rinominata ‘Istanbul’. L’Impero Ottomano ha governato per circa 500 anni su un enorme fascia di terra intorno al Mar Mediterraneo. La sua capitale era Istanbul in Turchia, che si chiamava Costantinopoli durante il regno dell’Impero Romano d’Oriente. Questi due punti sono importanti perché la Scrittura stessa ci dice realmente che la Turchia è la posizione per la sede dell’antiCristo e la Bestia che si pone fuori dal Grande Mare, che è il Mediterraneo. In primo luogo date un’occhiata a Apocalisse 13:2:
”La bestia che io vidi era simile a un leopardo, i suoi piedi erano come quelli dell’orso e la bocca come quella del leone. Il dragone le diede la sua potenza, il suo trono e una grande autorità.”
Possiamo vedere che il Drago (che è Satana) ha dato il suo trono alla bestia. Allora, dove si trova il trono di Satana? Date un’occhiata a Apocalisse 2:12:
”E all’angelo della chiesa in Pergamo scrivi: queste cose dice colui che ha la spada affilata a due tagli. Io conosco le tue opere e dove tu abiti, …là dove Satana ha il suo trono; tuttavia tu rimani fedele al mio nome e non hai rinnegato la fede in me neppure nei giorni in cui il mio fedele testimone Antipa fu ucciso tra di voi, là dove abita Satana.” Allora, dove è Pergamo? È in Turchia, lo stesso paese in cui si trovavano entrambe le capitali dell’Impero Romano e Impero Ottomano. Non è un caso quindi che sia il tardo Impero Romano che l’Impero Ottomano hanno le loro capitali nella stessa nazione, come la posizione del trono di Satana.
L’ Impero Ottomano/Islamico ha subìto una ferita mortale sulla scia della Prima Guerra Mondiale, ciò significa che ha cessato di esistere come un impero. Questo significa anche che l’intera Bestia è effettivamente morta perché tutte le precedenti teste della bestia esistevano in successione. Così la Bestia è ufficialmente scomparsa quando l’Impero Ottomano cadde. Oggi, però, sembra che stiamo assistendo alla rinascita di un Impero Islamico o Califfato. Tutto questo si allinea perfettamente con la Bestia che deve venire, che leggiamo nel Libro della Rivelazione.
NUOVO IMPERO OTTOMANO PROIEZIONE DI ISIS
Apocalisse 17: 8 ”La bestia che hai vista era, e non è; essa deve salire dall’abisso e andare in perdizione.” Inoltre, si legge in Apocalisse 17:11:
”E la bestia che era, e non è, è anch’essa un ottavo re, viene dai sette, e se ne va in perdizione.” Questo sembra descrivere perfettamente l’ascesa di un futuro Califfato Islamico. L’Impero Islamico è stato il settimo (Impero Ottomano), e l’ottavo viene dal settimo. Era una volta e sarà di nuovo. Inoltre leggiamo nella Scrittura una cosa molto importante, che questa Bestia sarà completamente distrutta da una pietra che ha colpito la statua in Daniele 2. Questa pietra è il Regno di Dio e si diffonderà in tutta la Terra in maniera permanente (ricordatelo sempre vi aiuterà nella fede).
  • Le persecuzioni dei cristiani degli “ultimi tempi”
Potete immaginare la decapitazione degli italiani, dei romani o dei cristiani da parte del Vaticano durante la tribolazione degli ultimi giorni? Ad essere sinceri, il Vaticano avrebbe forse potuto farlo in passato. Oggi sono esclusivamente i musulmani che decapitano i cristiani e altri. Decapitazioni e persino crocifissioni vengono eseguite oggi dai radicali della religione islamica. Le decapitazioni sono un tema ricorrente nel corso dei 1400 anni di storia islamica. Il primo biografo di Maometto ha registrato la decapitazione di 700 uomini della tribù ebraica Banu Qurayza a Medina per ordine di Maometto nel 768 CE (‘Abd al-Malik Ibn Hisham, La vita di Maometto.) Allora, perché l’Islam ha una storia di decapitazioni ? Basta guardare nel loro libro sacro. Corano 47: 4 “Quando incontrate i miscredenti, colpiteli al collo.” Corano 8:12 “Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi!”
Mentre l’Escatologia tradizionale insegna che un Microchip collegato a un computer o un certo tipo di codice a barre saranno immessi su / nella mano o sulla fronte, negli ultimi giorni, i musulmani portano già sulla loro fronte e sul braccio destro il segno che è, “Nel nome di Allah”. Ricordate che il Marchio della Bestia non è solo un numero, ma è anche UN NOME E UN SEGNO / SIMBOLO. Vedi Apocalisse 13: 16-17.
”Inoltre obbligò tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, a farsi mettere un marchio sulla mano destra o sulla fronte. Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio, cioè il nome della bestia o il numero che corrisponde al suo nome”.
ALLAH ARABICO
Che cosa significa esattamente quando la Scrittura dice: ‘NOME’? E può il credo dell’Islam davvero essere il marchio, il numero e il nome. La Scrittura usa la parola ‘nome’ spesso ad identificare una persona come si potrebbe immaginare, ma la Scrittura utilizza anche quella parola per descrivere l’essenza o il carattere di una persona o cosa. Proprio come dice il Vecchio Testamento del Messia a venire, che il suo nome sarà.. chiamato ‘Emmanuele’ (Dio è con noi) che non è stato effettivamente chiamato con questo nome, anzi il suo significato o credo è stato usato per descrivere la venuta del Messia. Allo stesso modo il credo o il nome dell’Islam è scritto sulla fronte di questi musulmani. Il termine Bismillah “Nel nome di Allah” in arabo assomiglia fortemente a 666 (χξς) in Greco. Non è difficile immaginare un leader o profeta islamico costringere le persone a portare in futuro sulla loro fronte il simbolo o il nome di Allah, il loro marchio, e escludere dalla società e impedire ogni acquisto e vendita a chi non si identifica con la loro fedeltà in questo modo. Negando in tal modo servizi e cose basilari come il cibo, riparo, cure mediche e medicine. Le persone dovrebbero o indossare questo marchio o rifiutarlo e affrontare difficoltà mortali.
 
  • Considerazioni finali sulla visione escatologica
Per riassumere questa visione escatologica qui sono alcuni fatti da considerare. Lo spirito dell’antiCristo presenta una serie di caratteristiche, un essere che nega il Padre e il Figlio. Perché l’Islam insegna che Dio non ha figli, negano chiaramente e apertamente che Dio è un Padre e che ha un Figlio. I Califfati islamici non sono solo entità politiche, ma sono anche religiosi con le proprie leggi e tempi. L’Impero Ottomano è stato il successivo impero dopo l’Impero Romano. Conquistò l’Impero Romano. Ci è stato detto che il loro sarà un ottavo regno che viene dal settimo (Apocalisse 17:11).
Roma era chiaramente il sesto regno. È stato quello che era in esistenza, quando Giovanni ha dato la profezia (Apocalisse 17: 9-10).
Gli storici non considerano l’Impero Romano d’Oriente come un impero diverso dall’Impero Occidentale. L’est non ha conquistato l’Occidente. La capitale si trasferisce da Roma a Costantinopoli. Tale periodo del regno è chiamato il periodo Bizantino. Sia l’Impero Romano d’Oriente che il termine ‘Impero Bizantino’ sono termini storiografici creati dopo la fine del regno. I suoi cittadini hanno continuato a fare riferimento al loro impero come l’Impero Romano. Daniele vede la Bestia sorgere fuori dal Grande Mare. Questo è il nome per il Mar Mediterraneo nella Scrittura, così i regni della Bestia si trovano intorno a quel mare. L’Islam ha guadagnato terreno in parte perché il cristianesimo era caduto nell’idolatria e il santo culto nei falsi insegnamenti. La Bibbia e il Corano insegnano il contrario uno dell’altro. Sembra che uno sia l’avversario dell’altro. L’Apocalisse ci dice che il trono di Satana era in Turchia, il paese stesso dove l’Impero Ottomano aveva la sede del suo governo.
 
  • Erdogan e la massoneria
I servizi segreti turchi dietro alla strage di Bruxelles? A lanciare direttamente la pista di Ankara, coinvolgendo nientemeno che il presidente Erdogan, sono i “nemici” storici della Turchia, i curdi, in questo caso affiancati da un paese come la Russia, anch’essa entrata in rotta di collisione coi turchi dopo l’abbattimento di un bombardiere Sukhoi impegnato nell’unica efficace campagna militare finora condotta in Siria contro l’Isis. Un impegno, quello russo, che ha preso in contropiede l’Occidente e ha oltretutto permesso di giungere alla denuncia, documentata, del supporto turco allo Stato Islamico attraverso basi logistiche alla frontiera e soprattutto il contrabbando di petrolio. La Turchia sul banco degli imputati ora anche per le bombe esplose a Bruxelles? La notizia la fornisce il 24 marzo Nahed Al Husaini, corrispondente da Damasco del sito statunitense di contro-informazione “Veterans Today”: intercettazioni russe avrebbero portato alla cattura, da parte dei miliziani curdi, di un responsabile dell’intelligence di Ankara. L’uomo avrebbe confessato che gli attentati di Bruxelles sarebbero stati progettati a Raqqah su ordine di Erdogan.
«Le forze popolari curde che combattono in Siria hanno oggi [24 marzo] catturato un alto funzionario dei servizi segreti turchi che, “sottoposto ad interrogatorio”, ha coinvolto il presidente Erdogan», scrive “Veterans Today”. «A Veterans Today – aggiunge Nahed Al Husaini – è stato dato accesso alle confessioni registrate che hanno rivelato il ruolo del Mit (Milli Istihbarat Teskilati, l’intelligence turca) nelle esplosioni di Bruxelles ed i piani per effettuare ulteriori attacchi in Europa. Il “funzionario sospetto” ha confessato il suo ruolo nella pianificazione – a Raqqah – dell’attacco di Bruxelles, in collaborazione con l’Isis». L’informazione che ha portato alla cattura del funzionario, scrive “Veterans Today”, deriva da un’intercettazione effettuata dai russi: le forze di Mosca non sarebbero state direttamente coinvolte nell’operazione, ma si presume che unità di “Spetsnaz”, i corpi speciali russi, potrebbero essere state messe a disposizione dei curdi, come supporto. Secondo le affermazioni estorte al funzionario catturato, i servizi segreti turchi gestirebbero un centro di pianificazione operativa collocato in un complesso sotterraneo di Raqqah, la “capitale” del Califfato in Siria. «Il centro, costruito al di sotto di un impianto di atletica, contiene scorte di armi chimiche e biologiche, tra le quali il gas sarin, il virus per l’influenza suina e tonnellate di materiali per la produzione di altri tipi di gas», scrive ancora Nahed Al Husaini. «Gli Stati Uniti, coordinandosi con l’unità siriana “Tigre”, colpirono quel complesso nell’ottobre del 2014, nell’ambito di una di quella mezza dozzina di operazioni altamente segrete effettuate congiuntamente. L’operazione portò alla cattura di alcuni ufficiali del Qatar, dell’Arabia Saudita e della Turchia».
Haissam-Bou-Said
“Veterans Today” dichiara di aver ricevuto un resoconto dell’interrogatorio da Haissam Bou Said, segretario generale del Desi, Dipartimento sicurezza e informazioni per l’Europa, secondo cui «dietro agli orribili attentati suicidi c’è proprio il Mit». Sempre secondo questa fonte, «alcune cellule terroristiche turche erano state impiantate anni fa in Europa, in collaborazione con un’infrastruttura del crimine organizzato attiva nel traffico degli esseri umani e della droga, al lavoro con gruppi israeliani e sauditi per effettuare attacchi terroristici “false flag”», cioè “sotto falsa bandiera”, secondo il copione (italiano) della “strategia della tensione”. Il presidente turco Erdogan, sempre secondo la fonte di “Veterans Today”, avrebbe introdotto le cellule terroristiche addestrate dal Mit «nascondendole all’interno del flusso di profughi, attentamente orchestrato, per poi indirizzarle presso le comunità della criminalità turca, con sede in Germania, Belgio e Olanda». Per l’intelligence Usa, «da oltre un decennio la http://www.libreidee.org/2016/03/lo-007-confessa-la-turchia-dietro-la-strage-di-bruxelles/1680428aw001_erdogan/criminalità organizzata turca è concentrata a Monaco di Baviera, che è il “ground zero” per gli attacchi terroristici che dovrebbero colpire gli Stati Uniti alla vigilia delle prossime elezioni presidenziali». Da anni, il presidente turco è al centro di crescenti polemiche, anche per via del giro di vite autoritario sulla stampa nazionale, che ha portato giornalisti in carcere. Ma non è tutto: nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi scrive che lo stesso Erdogan è affiliato alla superloggia segreta “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush. Si tratta di un club super-massonico internazionale definiti “del sangue e della vendetta”, di cui farebbero parte anche Tony Blair, inventore del falso storico delle “armi di distruzione di massa” di Saddam, e il francese Sarkozy, protagonista della guerra in Libia contro Gheddafi. La “Hathor Pentalpha” avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel maxi-attentato dell’11 Settembre, per poi lasciare la propria “firma” anche nell’Isis, acronimo che richiama la dea egizia Iside, chiamata anche Hathor.
  • Vogliamo la verità su Serena Shim
Conoscete la storia di Serena Shim? Non credo, infatti i media ufficiali non hanno mai avuto il “permesso” di parlare di lei e delle sue indagini “scottanti”. Serena Shim era una giornalista trentenne americana di origini libanesi, lavorava per Press Tv Istanbul: ufficialmente è morta in un drammatico incidente stradale, ha lasciato marito e due figli. Un incidente quantomeno sospetto, stava rientrando in albergo in Turchia, al confine con la Siria quando la sua auto si è scontrata con un mezzo pesante. Serena aveva saputo che l’intelligence turca la considerava una spia e si era confidata con i colleghi, la giornalista aveva denunciato l’ambigua posizione turca rispetto alla questione Isis nella zona di Kobane e temeva di essere arrestata. Serena Shim aveva raccontato in diretta tv di aver visto truppe di miliziani Isis trasportati su camion dell’Onu, raccontava fatti con chiaro riferimento al ruolo della Turchia nel conflitto in Siria e alla “collaborazione di Ankara con i terroristi”. Cosa sia realmente accaduto ancora non è dato sapere, le autorità turche, insieme a quelle occidentali hanno steso una cortina di silenzio sulla morte di Serena Shim. Press TV ha diffuso un messaggio della giornalista, dove questa aveva espresso, pochi giorni prima di morire, il timore di essere arrestata dai servizi segreti turchi, che l’avevano accusata di essere una spia, in quanto sosteneva che il governo di Ankara avesse legami con lo Stato islamico.
Aveva parlato dell’infiltrazione di guerriglieri in Siria attraverso la frontiera turca e in diretta televisiva aveva affermato di avere le immagini di questi miliziani che entravano in territorio siriano, nascosti nei camion di organizzazioni umanitarie e del programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite.
Il direttore delle informazioni di Press TV, Hamid Reza Emadi, ha sempre respinto la teoria dell’incidente d’auto : “Pensiamo che il governo turco debba essere considerato responsabile di fronte alla comunità internazionale. Si deve far luce su quanto è davvero accaduto.”
Un appello che mi sento di condividere e diffondere. In Italia si continua, giustamente, a parlare di Regeni e dei marò, ma nessuno ha mai osato riconoscere un giusto tributo a questa giornalista coraggiosa e alle sue indagini che possono dare un contributo decisivo a capire meglio come si muove il nemico.  Il suo impegno andava oltre il dovere professionale.
 
Fonti:
shoebat.com/2012/04/18/where-is-america-in-bible-prophecy/
wallstreetitalia.com/giordania-contro-turchia-esporta-terroristi-in-europa-asse-con-russia/
veteranstoday.com
informare.over-blog.it

Darwinismo e Dottrina Cattolica

darwinismo-neurale
 
 
Pur non accogliendo integralmente lo spirito del testo e determinati riferimento al “magistero” postconciliare, non possiamo ignorare l’interesse di queste righe – pubblicate su Studi Cattolici n. 622, dicembre 2012, a cura di Paolo De Lisi – che volentieri indirizziamo al nostro pubblico. Grassettature nostre. [RS]
 
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Il fisico padre Paolo De Lisi, sacerdote missionario di Maria, espone le te­si di fondo della teoria evoluzionista di Darwin e del neodarwinismo, a partire dalla «selezione naturale», accompagnandola con le af­fermazioni più recenti di scienziati di varie branche della biologia che, con­tro l’opinione comune che ritiene ormai assodate e vere le concezioni dar­winiane, ne evidenziano i punti deboli e superati, intendendo l’evoluzione come dovuta a fattori interni agli organismi più che ambientali. L’autore richiama poi il fatto che anche la Chiesa condanna il darwinismo, ma non l’idea di evoluzione, che sul piano scientifico, conclude lo studio, resta pe­raltro una mera ipotesi probabile.
Dai documenti del Magistero risulta chiaro questo principio: esclusi alcuni punti inaccettabili – che niente hanno a che fare con la vera scienza – non c’è contraddizione tra la dottrina della creazione e le tesi evolutive, purché rettamente insegnate. Attualmente, rileva De Lisi, i reperti fossili non con­sentono di stabilire se l’evoluzione della specie umana sia monogenetica o poligenetica (da una sola coppia o da un gruppo di individui), sicché non viene meno il valore di verità della dottrina tradizionale cattolica del pec­cato originale commesso dal primo uomo e trasmesso ai discendenti per propagazione genetica. Del resto, l’analisi del genoma umano e del Dna mitocondriale ha offerto indizi scientifici a favore del monogenismo.
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Nell’anno 2009 ricorreva il 200° anno dalla nascita di Charles Darwin ( 1809-1882) e il 150° anno dalla pubblicazione della sua famosa opera Sull’Origine delle Specie (1859). Du­rante questo «Anno di Darwin» ci furono numerose celebrazioni e convegni in tutto il mondo. Uno di questi – a cui partecipai di persona – fu il meeting «Evolution Rome 2009» tenuto presso la Gregoria­na, presenti i più famosi scienziati evoluzionisti del mondo. Ciò dimostra che la Chiesa non ha nessun pregiudizio nei confronti delle teorie evolutive. Le idee di Darwin, essendo insegnate nelle scuole di ogni ordine e grado, sono note più o meno a tut­ti. Per comodità del lettore riassumo i punti essen­ziali: 1) tutte le specie viventi derivano, per trasformazione lenta e progressiva durata milioni di anni, da uno o pochi organismi ancestrali (concetto di evoluzione delle specie); 2) La causa di questa «evoluzione» è principalmente la selezione natura le che favorisce gli individui migliori e più adattati all’ambiente ecologico ed elimina quelli peggiori, determinando così, in modo lento e progressivo, l’avanzamento verso specie sempre più complesse e perfezionate. Questo processo, governato solo da leggi naturali, avviene in modo casuale e senza al­cuna finalità. Questa visione brutale e irrazionale del mondo vivente è sintetizzata dalla chiusa del li­bro: «Dalla guerra della natura, dalla carestia e dal­la morte, nasce la cosa più alta che si possa imma­ginare: la produzione degli animali più elevati» (C. Darwin, L’Origine delle specie, Newton Compton, Roma 2010, p. 428).
Alcuni anni dopo (1871) Darwin pubblicò, a coro­namento della sua dottrina, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale. Nella prima sezione del libro egli pone le basi di quella visione materialistica del­l’uomo che ha caratterizzato larga parte della cultu­ra evoluzionista fino ai nostri giorni: «Nondimeno, la differenza mentale tra l’uomo e gli animali supe­riori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere: abbiamo visto che i sensi, le intui­zioni, la curiosità, l’imitazione, la ragione ecc, di cui l’uomo si vanta, si possono trovare in una con­dizione incipiente, o anche talora ben sviluppata, negli animali inferiori» (C. Darwin, L’origine del­l’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma, p. 110). Insomma, l’uomo non sarebbe altro che una scimmia un po’ più evoluta, e sarebbe pri­vo di qualsiasi principio spirituale. Per provare che l’uomo discende da forme inferiori porta l’esempio degli indigeni della Terra del Fuoco (cap. XXI) che nel Diario del suo viaggio aveva già definito con disprezzo «selvaggi barbari» la cui differenza dal­l’uomo civile è «maggiore di quella che corre tra gli animali domestici e quelli selvatici» (cfr C. Darwin, The Voyage of thè Beagle: Journal of Researches into thè Naturai History and Geology of thè Coun-tries Visited During thè Voyage of HMS Beagle Round thè World, Under thè Comrnand of Captain FìtzRoy, RN, (1845), Wordsworth Classics reprint, London 1997, pp 198-199). Sostiene poi che le don­ne sono meno intelligenti degli uomini, perciò me­no evolute (L’origine dell’uomo, cit, pp. 424 e 447). Non vorrebbe inoltre alcuna attività assisten­ziale perché queste, preservando gli elementi più deboli, permetterebbero che si riproducano gli indi­vidui peggiori della società (ivi, p. 116). Vorrebbe anche vietare il matrimonio fra persone con difetti ereditari (ivi).
Nascita e crespuscolo del neodarwinismo
Figlio primogenito della dottrina dì Darwin è il neo­darwinismo detto anche teoria sintetica o sintesi moderna. Elaborato negli anni Trenta dai biologi Theodosius Dobzhandsdy, Ernst Mayr, George G. Simpson, J. Huxley e altri, questa teoria apparente­mente nuova cerca di conciliare le idee di Darwin con la genetica mendeliana. Mendel dimostrò che i caratteri ereditari sono trasmessi attraverso unità (i geni) che si mantengono inalterate e si conservano singolarmente a ogni generazione, perciò la regola non è la variabilità, ma la stabilità delle specie. Dar­win, al contrario, riteneva che le specie si modifi­cassero nel tempo in modo quasi continuo (Origine delle specie, cap. II). La teoria sintetica ipotizzò al­lora che alcune mutazioni casuali nella struttura biochimica dei geni, causando piccole variazioni negli organismi, avrebbero determinato, in modo graduale e dopo milioni di anni, la trasformazione di una specie in un’altra più progredita. La selezio­ne naturale operata dall’ambiente avrebbe agito da filtro per mandare avanti le specie più adattate e mi­gliorate ed eliminare le altre. La «sintesi» è una teo­ria complessa e sofisticata, ma essenzialmente riduttiva: tutto si spiega – secondo i suoi seguaci – con l’azione dei geni; l’impianto darwiniano resta comunque conservato.
Il neodarwinismo ha dominato in biologia per più di quarant’anni ed è stato insegnato (e lo è tuttora!) in tutte le scuole. Solo dopo gli anni ’70 cominciò il suo declino, ma sono ancora molti che lo difendono ostinatamente (i cosiddetti «ultradarwinisti»). Esponenti di spicco di questa scuola sono stati Jac­ques Monod e Richard Dawkins. Al di là di tutto l’incenso profuso a Darwin dalla cultura «politicamente corretta», oggi un numero sempre crescente di scienziati ci tiene a distinguere molto bene tra «evoluzione» e «darwinismo» (so­prattutto neodarwinismo). Per esempio, Yves Coppens, uno dei più importanti paleontologi viventi ha affermato (2010): «L’evoluzione è molto più com­plessa e diversificata di quanto Darwin pensasse […]. L’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione». Più di 800 scienziati (l’elenco è riportato nel sito www.dissentfromdarwin.org) hanno sottoscritto pubblicamente la seguente dichiarazione: «Siamo scettici circa la pretesa che le mutazioni casuali e la selezione naturale possano dar conto della comples­sità della vita. Un attento esame dell’evidenza della teoria darwiniana dovrebbe essere incoraggiato». M. Piattelli Palmarini e J. Fodor, in un noto saggio (Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010) hanno scritto fra l’altro: «Darwin si sbagliava, non è la selezione naturale il meccanismo che governa l’evolversi delle specie. Nessuno oggi può dire di sapere con certezza come l’evoluzione operi, anche se non c’è dubbio che ciò avvenga». La mappatura di interi genomi, compreso quello umano (2000) e studi approfonditi sulle mutazioni nel Dna hanno evidenziato infatti che la selezione naturale, cardine del darwinismo, non produce al­cuna reale evoluzione. Per esempio, R.E. Lenski da più di vent’anni sta studiando l’evolversi di una stessa coltura di batteri escherichia coli. Ebbene, dopo più di 40.000 generazioni e nonostante fosse­ro avvenute più di un miliardo di mutazioni geneti­che, il batterio non si è affatto evoluto, non sono apparsi nuovi caratteri né è aumentata la sua comples­sità, neanche in abbozzo, neanche aumentando di un fattore 100 i tassi evolutivi (cfr «Nature», 461, 29 October 2009, pp. 1243-1247; «Proc. Nati. Acad. Sci. Usa», 19 Jul. 1994). Studi convergenti di biologia molecolare, di genetica, di paleontologia, di embriologia e altro, hanno evidenziato che è molto più probabile che l’evoluzione sia dovuta a fattori endogeni agli organismi, mentre i processi adattativi e selettivi svolgerebbero un ruolo del tut­to secondario. Sembra sempre più evidente che l’o­rigine delle specie coinvolga processi simili a quel­li che determinano lo sviluppo embrionale (teoria Evo-Devo [evolution & development]) come se ci fosse un programma di autocostruzione governato da una complessa rete di fattori genetici e di fattori epigenetici (modificazioni chimiche dei geni, che danno luogo a strutture viventi differenti nonostan­te il Dna genetico sottostante sia identico). Perciò l’idea neodarwinista per cui l’evoluzione sarebbe dovuta a mutazioni casuali del Dna, non è più sostenibile (Eva Jablonka e altri, 1989, 2006). È inol­tre ormai provata l’esistenza di «vincoli» interni (M. Sarà, 1998) messi già in evidenza da J. Gould più di vent’anni fa, a causa dei quali l’evoluzione può prendere solo alcune direzioni e non altre: dun­que non può procedere a caso, ma deve rispondere a princìpi di «costrizione» (contraints). I fenomeni in gioco sono in definitiva talmente complessi che alcuni teorici propongono di studiare l’evoluzione con il modello delle reti informatiche e la computer science (E. Fox Keller, 2001); altri, contro il ridu­zionismo darwiniano, la studiano con la moderna teoria dei sistemi complessi (S. Kauffman, 1993, 2004, 2008) applicata oggi in molti campi della fi­sica, dell’ingegneria e dell’economia. Si fa strada l’idea che ci sarebbe stato, nell’evoluzione, un qual­cosa come un complesso «programma» inscritto nella natura che avrebbe governato — tenendo conto anche di numerose variabili ambientali – la com­parsa e lo sviluppo della vita sulla Terra. Messo Darwin in cantina, si è cominciato finalmente ad af­frontare scientificamente un altro problema che né lui né i suoi seguaci di oggi hanno mai risolto: il problema delle «forme». Perché i viventi hanno la forma che hanno? Si sta aprendo ora un settore di studi per capire perché gli esseri viventi si struttu­rano secondo precise leggi matematiche che, anco­ra una volta, escludono qualunque evoluzione do­vuta al caso e alla selezione naturale (Saunders, 1980, 1992, Kaufmann, 1993).
La posizione della Chiesa
Quando Giovanni Paolo II affermò che «l’evoluzio­ne non è più una mera ipotesi» (Messaggio alla Pontificia Accademia delle scienze, 22 ottobre 1996), molti giornali scrissero che «finalmente» la Chiesa si era riconciliata con Darwin (per es., Cor­riere della sera, 24 ottobre 1996: «II Papa riabilita l’evoluzionismo»; Repubblica: «Wojtyla a Darwin: qua la mano»). In realtà, il Papa non parlò mai di Darwin e non aveva bisogno di riabilitare chicches­sia. Anzi condannò apertamente quelle «teorie del­l’evoluzione che, in funzione delle filosofie che le ispirano, considerano lo spirito come emergente dalle forze della materia viva o come un semplice epifenomeno di questa materia; sono incompatibili con la verità dell’uomo. Esse sono inoltre incapaci di fondare la dignità della persona». La Chiesa non ha mai avuto bisogno di intervenire espressamente contro il darwinismo: infatti la struttura fondamen­talmente atea di quella dottrina è in sé stessa incon­ciliabile con la fede. Non c’è alcun bisogno di «ri­conciliarsi» con Darwin.
Per quanto riguarda invece l’ipotesi dell’evoluzione generalmente intesa, la Chiesa si è sempre espressa con prudenza e rispetto. Dai documenti del Magi­stero (ufficiale e non) risulta chiaro questo princi­pio: esclusi alcuni punti inaccettabili – che niente hanno a che fare con la vera scienza non c’è con­traddizione tra la dottrina della creazione e le tesi evolutive, purché rettamente insegnate (Giovanni Paolo II). Un articolo del card. Christoph Schònborn, pubblicato sul N. Y. Times del 7 giugno 2005 (http://www.nytimes.com/2005/07/07/opinion/07sc honborn.html) spiega l’esatta interpretazione dei vari interventi pontifici, dimostrando che il darwi­nismo è in sé inconciliabile con la dottrina cattolica perché «le teorie scientifiche che cercano di spazzar via l’apparire del disegno come effetto di “caso e necessità” non sono per niente scientifiche ma, co­me Giovanni Paolo II ha messo in luce, un’abdica­zione dell’umana intelligenza». L’articolo fece il gi­ro del mondo e il cardinale fu accusato da molti (an­che da cattolici!) di creazionismo o di difensore dell’lntelligent Design. L’intervento del card. Schònborn sul N. Y. Times fu però elogiato pubblicamente dallo stesso Benedetto XVI nel convegno su «Crea­zione ed Evoluzione» tenuto a Castel Gandolfo nel settembre 2006.
Monogenismo e monofiletismo
È necessario distinguere tra monogenismo e mono­filetismo. Col primo termine si intende l’origine di tutto il genere umano da un’unica coppia di proge­nitori umani, mentre col secondo si intende l’origi­ne della specie umana da un singolo gruppo di es­seri umani o da un gruppo di creature inferiori che raggiungono quasi simultaneamente il livello uma­no. // monofiletismo è compatibile di per sé sia col monogenismo sia con il poligenismo. Attualmente i reperti fossili non consentono di stabilire se l’evo­luzione della specie umana è monofiletica o polifiletica e forse non lo sarà mai, data l’enorme difficoltà di classificare i reperti stessi. Nel cap. VII de L’Origine dell’uomo Darwin, discutendo dell’origi­ne delle razze umane, sosteneva che queste non so­no specie diverse, ma che hanno origine da un’uni­ca specie umana ancestrale e usa – impropriamente – il termine monogenismo (invece di monofiletismo) per esprimere questo concetto. Non si occupa però della questione se quest’unica specie umana primitiva sia costituita da un’unica coppia di proge­nitori o da più coppie (cfr C. Darwin, L’Origine dell’uomo, cit., pp. 145-147). Il suo discorso è comun­que impreciso, anche se sembra che egli propenda per il monogenismo.
Il fatto che per Darwin la selezione naturale agisca a livello di singoli individui rende ipoteticamente possibile che l’evoluzione della specie umana abbia avuto come punto di arrivo una singola coppia pro­genitrice. Infatti nella lotta per l’esistenza avrebbe potuto – teoricamente – prevalere una sola coppia. Al contrario di Darwin, per il neodarwinismo la se­lezione naturale agisce solo a livello di popolazioni, caratterizzate queste dall’insieme del patrimonio ge­netico complessivo di ciascuna specie, comprese tut­te le varianti (alleli). Di conseguenza, alla fine del processo evolutivo si otterrebbe non qualche indivi­duo perfezionato, ma l’intera, specifica popolazione. Applicando questi concetti alla specie umana ne de­riva che si sarebbe necessariamente evoluto un inte­ro gruppo, più o meno vasto, di individui umani, por­tatori di quel dato patrimonio genetico, favorito, que­st’ultimo, dalla selezione naturale. Il poligenismo – inteso come origine del genere umano da più coppie umane progenitrici — è perciò una conseguenza logi­ca e necessaria della moderna sintesi neodarwiniana.
Monogenismo, poligenismo e peccato originale
Tra gli anni ’40 e ’50 il neodarwinismo raggiunse un grande consenso nella comunità scientifica e fu ampiamente divulgato, al punto che tante persone, non molto addentro alle cose, pensarono – erronea­mente – che si trattasse di una teoria provata. Que­sta opinione influenzò più tardi anche non pochi ac­cademici cattolici e non fa meraviglia che fosse sta­ta presa in considerazione dalla parte più progressi­sta dei teologi del tempo. Nacque allora il tentativo di mettere in discussione la dottrina cattolica tradi­zionale sull’origine dell’umanità e sul peccato ori­ginale per pretenderne la conciliazione con le nuo­ve ipotesi evoluzioniste.
Così, nonostante la chiara condanna del poligeni­smo da parte di Pio XII nell’enciclica Humani Ge­neris (1950), alcuni teologi ed esegeti, tra gli anni ’60 e ’70, cominciarono a sgretolare la dottrina cattolica sull’origine monogenica dell’umanità, e conseguentemente sul peccato originale, proponendo un’interpretazione della Genesi e dei dogmi del Concilio tridentino tale da svuotarne il senso tradizionale, pur mantenendone l’apparenza formale. Tralascio, perché il discorso sarebbe lungo, le idee che su questo punto aveva Teilhard de Chardin per soffermarmi su alcuni dei teologi recenti. Per esempio, Karl Rahner sosteneva esplicitamente: «Non sembra possibile dimostrare in maniera certa e probante che solo un’umanità originante monogenista (quindi un singolo e una coppia) può essere soggetto di quella prima colpa all’inizio dell’umanità… Anche in una umanità originante sorta poligenicamente è possibile pensare che un suo membro singolo o tutti insieme siano stati il soggetto che per primo ha peccato, determinando così quella situazione di non salvezza per tutta l’umanità originata. Mi sembra che per poter affermare questo, però, sia necessario pensare all’umanità originante come un’unità storico carnale anche sul piano della storia della salvezza. Questo presupposto sembra possibile anche in un contesto poligenetico» (Peccato Originale e Evoluzione, in «Concilium», III, 1967, pp. 86 s.). La questione dell’unità del genere umano fu proiettata «al futuro» vedendola più come una chiamata all’unità in Cristo che come uno stato originario passato. Ci si appellava al Concilio Vaticano II che aveva definito la Chiesa come sacramento di unità di tutto il genere umano, cioè segno e strumento della salvezza da raggiungere. Il peccato perciò cominciò a essere visto come un impedimento alla realizzazione di un progetto salvifico che tendeva all’unità fra tutti gli uomini. Ansfridus Hulsbosch proponeva il dubbio «se l’affinità, attraverso la discendenza a livello umano dell’evoluzione, sia veramente il fattore più importante di unità». E osservava che «nell’ordine salvifico cristiano, così come si realizza sulla terra, l’unità è basata su un principio più alto… Non contano più né razza né sesso, decisiva è l’appartenenza a Cristo. Questo nuovo principio di unità ha potuto realizzarsi perché l’uomo vi era già disposto per natura… La dignità di immagine di Dio viene conferita a ogni uomo dal suo Creatore e non dal suo progenitore, e la reciproca unione spirituale tra gli uomini, che ne risulta, supera di gran lunga l’unità che deriva dalla comune discendenza» (Storia della creazione, storia della salvezza: creazione, peccato e redenzione in una prospettiva evoluzionistica del mondo, Vallecchi, Firenze 1967, p. 52). Acquisito questo principio, non era molto difficile presentare la dottrina del peccato originale come indipendente dalla situazione biologica originaria. C. Baumgartner, alla domanda se all’origine del peccato umano vi siano una o più coppie, un solo o più peccati, rispondeva nel 1969: «Queste questioni… non riguardano più la sostanza della fede direttamente. Se le cose stanno così, il monogenismo e il poligenismo sarebbero problemi relativi alle scien­ze naturali e quindi di loro competenza esclusiva. La fede nel peccato originale e nel peccato delle origini ne sarebbe completamente indipendente» (cfr Carlo Molari, La teologia cattolica di fronte all’evoluzionismo darwinista ieri e oggi, in Gianfran­co Ghiara (ed.), // darwinismo nel pensiero scienti­fico contemporaneo, Guida, Napoli 1984, pp. 96-98). I gesuiti M. Flick e Z. Alszeghy che negli anni ’50 avevano sempre difeso il monogenismo (cfr i loro classici manuali di teologia), nel 1966 (cfr Il peccato originale in prospettiva evoluzionistica — «Extractum Gregorianum», Voi. 47, 1966* Parte 2) assunsero sul poligenismo una posizione più possi­bilista, finché, dopo gli anni ’70, si allinearono so­stanzialmente alle posizioni di Rahner: «II memora­bile articolo di K. Rahner, con la sua analisi del de­creto tridentino, che in un primo tempo ci è sem­brato basarsi su distinzioni troppo soggettive, ha fi­nito per convincerci» (Flick e Alszeghy, in Carlo Molari, op. cit, p. 96, nota 259). Purtroppo non si trattò di voci isolate; le nuove tesi teologiche influenzarono seminari e università cattoliche al punto tale che nel 1966 Paolo VI dovette ribadire con fermezza la dottrina tradizionale. Ecco alcuni passaggi del discorso del Pontefice: «È evi­dente, perciò, che vi sembreranno inconciliabili con la genuina dottrina cattolica le spiegazioni che del peccato originale danno alcuni autori moderni, i quali, partendo dal presupposto, che non è stato di­mostrato, del poligenismo, negano, più o meno chiaramente, che il peccato, donde è derivata tanta colluvie di mali nell’umanità, sia stato anzitutto la disobbedienza di Adamo “primo uomo”, figura di quello futuro (Conc. Vat. II, Const. Gaudium e spes, n. 22; cfr anche n. 13) commessa all’inizio della storia. Per conseguenza, tali spiegazioni neppur s’accordano con l’insegnamento della Sacra Scrit­tura, della Sacra Tradizione e del Magistero della Chiesa, secondo il quale il peccato del primo uomo è trasmesso a tutti i suoi discendenti non per via d’i­mitazione ma di propagazione, “inest unicuique proprium “, ed è “mors animae “, cioè privazione e non semplice carenza di santità e di giustizia anche nei bambini appena nati (cfr Conc. Trid., sess. V, can. 2-3). Ma anche la teoria dell’‘evoluzionismo non vi sembrerà accettabile qualora non si accordi decisamente con la creazione immediata di tutte e singole le anime umane da Dio, e non ritenga deci­siva l’importanza che per le sorti dell’umanità ha avuto la disobbedienza di Adamo, protoparente uni­versale (cfr Conc. Trid., sess. V, can. 2). La quale disubbidienza non dovrà pensarsi come se non avesse fatto perdere ad Adamo la santità e giustizia in cui fu costituito (cfr Conc. Trid., sess. V, can. 1)» (Discorso ai partecipanti al Simposio sul mistero del peccato originale, Nemi 11 luglio 1966).
Giovanni Paolo II, citando espressamente quell’in­tervento di Paolo VI, confermò nel 1986 la dottrina tradizionale della Chiesa (cfr Udienza Generale, 1° ottobre 1986). Benedetto XVI, a sua volta, l’ha ri­confermata nel 2008: «Ma come uomini di oggi dob­biamo domandarci: che cosa è questo peccato origi­nale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evolu­zione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la que­stione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento». E ribadisce, con una profonda analisi teologica e psicologica, la classica dottrina paolina (cfr Udienza generale, 3 dicembre 2008). Il pensiero della Chiesa su questi temi non è dunque mai cambiato. Sorprende perciò il ragionamento di Gianfranco Ravasi nell’introduzione al volumetto Il Libro della Genesi (1-11) (Città Nuova, 1991): «In questa nuova interpretazione dei primi capitoli del­la Genesi si è sviluppata una rielaborazione della comprensione del dogma tradizionale del peccato originale. […] Secondarie diventano in questa luce le questioni scientifiche dell’evoluzionismo e del poligenismo riguardanti le origini (unica o molte­plice) dell’uomo sulla faccia della terra e il suo pro­gressivo evolversi biologico-culturale. Certo, il te­sto arcaico della Genesi appella sicuramente al mo­dello scientifico del suo tempo che era fissista e monogenista (un solo ceppo d’origine e una fisiolo­gia già propria e definita dell’uomo). Ma lo scopo di Genesi 1-3 non è primariamente scientifico». D’accordo sul fatto che lo scopo della Genesi non è primariamente scientifico, ma il dogma del peccato originale, fondato sulla Scrittura, è legato indissolu­bilmente al monogenismo, che non può essere perciò una «questione secondaria». La dottrina del peccato originale non è una bazzecola: se viene messa in dub­bio, crolla anche tutta la dottrina della redenzione e alla fine «si rende vana la croce di Cristo» (1 Cor 1, 17). Come disse l’allora card. Ratzinger nel libro-in­tervista Rapporto sulla fede: «L’incapacità di capire e presentare il “peccato originale” è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale at­tuali» (Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 79).
Il Dna mitocondriale sostiene il monogenismo
Siamo dunque di nuovo di fronte a un conflitto fra scienza e fede? Siccome la verità è una sola, se c’è conflitto vuoi dire che o è falsa la dottrina di fede o è falsa l’ipotesi scientifica. Siccome crediamo nell’infallibilità dei dogmi di fede, è lecito dubitare della validità dell’ipotesi scientifica. Tuttavia, è scorretto giudicare un concetto scientifico con ar­gomenti teologici (Galileo insegna); occorre valu­tarlo rigorosamente con i metodi della scienza. Non si possono dimostrare sperimentalmente in modo diretto né il monogenismo né il poligenismo (come del resto neanche l’evoluzionismo). Esistono almeno dati scientifici e osservazioni che possono dare degli importanti indizi a favore dell’una o dell’altra ipotesi? Abbiamo osservato che già Darwin, con i dati a disposizione al suo tempo, propendeva per il monogenismo. E oggi? A favore del monogenismo ci sono alcuni fatti fon­damentali. La decifrazione del genoma umano (2000) ha dimostrato che il 99,9% del Dna è lo stes­so per tutti gli esseri umani, quindi una differenza dello 0,1% nella composizione del Dna è sufficien­te per dar luogo alla variabilità delle popolazioni. Confrontando il genoma di tutte le popolazioni, la maggior parte dei geni risulta essere in comune, e alcuni geni sono altamente conservati, mentre altri, pochissimi, variano in maniera più rilevante deter­minando le varie razze. Questo non dimostra apo­ditticamente il monogenismo, ma è un forte indizio a favore di un’origine unitaria di tutto il genere umano.
Un altro fatto importante deriva dagli studi sul Dna mitocondriale. «Nel 1987, Cann, Stoneking e Wilson hanno ipotizzato, sulla base di comparazioni del Dna mitocondriale (mtDna), ereditato quasi esclusiva­mente per via materna, che tutti gli uomini oggi vi­venti derivino da un’unica donna africana [infatti le comparazioni del DNA, e altre ragioni, indichereb­bero l’Africa quale origine del genere umano, ndr\ (la cosiddetta “madre Eva”), che sarebbe vissuta ca. 200.000 anni radiometrici fa» (R. Junker & S. Scherer, Evoluzione un trattato critico, Gribaudi 2007). I calcoli per determinare quando sarebbe vissuta questa «Eva» sono molto incerti: sembra si possa collocare al massimo verso gli 800.000-500.000800.000-500.000 an­ni fa, ma è possibile un’epoca più recente: molti pensano 150.000 anni fa.
Gli studi sull’mtDna mostrano che l’«Eva mitocon­driale», da cui discenderebbe tutta l’umanità attuale, è da identificare con un unico individuo. Solo i suoi mitocondri, infatti, avrebbero discendenti nelle cel­lule degli esseri umani viventi. «Eva» sarebbe perciò l’unica femmina della sua generazione dalla quale tutte le persone viventi dis­cendono attraverso le loro linee materne (per una trattazione dettagliata si veda lo studio di Bryan Sykes, The Seven Daughters of Ève: The Science That Reveals Our Genetic Ancestry, W.W. Norton, New York 2001).
La conseguenza è, dunque, che non si da alcun con­flitto tra scienza e fede su questi argomenti, nessun «caso Galileo».
Animazione e evoluzione da specie pre-umane
In questa discussione ci sarebbe da parlare anche del problema dell’animazione. Ammesso per ipote­si che il corpo umano sia derivato dall’evoluzione di una qualche specie pre-umana, quando il Creato­re ha infuso l’anima su questo corpo diventando al­la fine pienamente umano? Se l’anima è «forma» del corpo, come si può concepire un corpo umano senza anima? Questi problemi ovviamente trascen­dono i metodi della scienza. La questione è estre­mamente complessa e tocca alla filosofia e alla teo­logia trovare qualche risposta convincente. Se ac­cettiamo una qualche forma di evoluzione della specie umana, forse dovremo invocare la categoria del mistero.
Su questa linea si muove anche Benedetto XVI: «Proprio partendo da qui si dovrebbe avanzare una diagnosi sulla forma dell’antropogenesi: il fango è divenuto uomo nel momento in cui un ente per la prima volta, anche se ancora in forma alquanto oscura, è stato in grado di formare l’idea di Dio. Il primo Tu che – per quanto balbettando – venne ri­volto da bocca d’uomo a Dio, designa il momento in cui lo spirito è comparso nel mondo. Qui si è var­cato il Rubicone dell’antropogenesi. Perché non so­no l’uso delle armi o del fuoco; non sono dei nuovi metodi crudèli o attività utili a costituire l’uomo; ma la sua capacità di stare accanto a Dio. Questo sostiene la dottrina della creazione particolare dell’uomo; soprattutto in questo sta il centro della fede nella creazione. E questo è anche il motivo per cui è impossibile che il momento dell’antropogene­si possa venire fissato dalla paleontologia. L’antropogenesi è il sorgere dello spirito che non si può dissotterrare con la vanga. La teoria dell’evolu­zione non sopprime la fede né la conferma. Essa pe­rò la sfida a comprendere più profondamente sé stessa e ad aiutare così l’uomo a capirsi e a diven­tare sempre più quello che egli è: l’essere che in eterno deve dare del Tu a Dio» (Intervento al Con­vegno su «Creazione ed Evoluzione», Castel Gandolfo, 2 settembre 2006).
L’evoluzione: una mera ipotesi probabile
In questo studio ho cercato di chiarire la differenza sostanziale tra evoluzione e darwinismo mostrando come serie ragioni scientifiche rendano ormai ne­cessario, per un concreto progresso della ricerca scientifica, mettere Darwin e i darwinisti in cantina. Rimane la questione dell’evoluzione. È questa un fatto? È una teoria? È solo un’ipotesi? Dalla valenza scientifica dell’evoluzione deriva an­che la considerazione che di essa si deve tenere in campo teologico.
Secondo l’evoluzionista Ludovico Galleni dell’U­niversità di Pisa, l’evoluzione è un fatto dimostra­to come è dimostrata l’esistenza dell’Impero ro­mano. Tuttavia, Galleni dimentica che una cosa è la ricerca storica e altra cosa è la ricerca scientifi­ca: siamo di fronte a due metodi di studio diversi. La storia parte dai documenti per ricavare i fatti, mentre l’evoluzione viene considerata aprioristi­camente un fatto per provare il quale si cerca di trovarne, a posteriori, una qualche documen­tazione. È l’esatto contrario. E la documentazione è talmente frammentaria e incompleta da rendere impossibile la prova definitiva che l’evoluzione sia un fatto realmente avvenuto. I dati sono al meno sufficienti a qualificare l’evoluzionismo come teoria scientifica? Già Popper – convinto evoluzionista – negava che l’evoluzione darwini­ana fosse una teoria scientifica. La ragione stava nel fatto che, essendo essa considerata vera a pri­ori, non era falsificabile (secondo il noto criterio popperiano di scientificità). Perciò Popper la con­siderava solo «un programma di ricerca metafisi­co» (cfr Karl R. Popper, Unended Quest, Revised edition, Open Court Publishers, La Salle, 111., 1976, pp. 168, 171-172).
E se non è propriamente una teoria scientifica come possiamo qualificare l’evoluzione? A mio parere si può affermare — con J. Ratzinger (cfr Harry Luck, Der zweite Mann im Vatikan [II numero due vatica­no], in «PUR Magazin», n. 22, 18-11-1996, pp. 14-15) che si tratta di un’ipotesi «importante» perché ha stimolato molti settori di ricerca per cui è qual­cosa di più che una semplice ipotesi di lavoro. Io la definirei perciò un’ipotesi probabile. Del resto, il criterio che lo stesso Giovanni Paolo II enunciò proprio discutendo dell’evoluzione è molto chiaro: «Qual è l’importanza di una simile teoria? Affron­tare questa questione, significa entrare nel campo dell’epistemologia. Una teoria è un’elaborazione metascientifica, distinta dai risultati dell’osserva­zione, ma a essi affine. Grazie a essa, un insieme di dati e di fatti indipendenti fra loro possono essere collegati e interpretati in una spiegazione unitiva. La teoria dimostra la sua validità nella misura in cui è suscettibile di verifica; è costantemente valutata a livello dei fatti; laddove non viene più dimostrata dai fatti, manifesta i suoi limiti e la sua inadegua­tezza. Deve allora essere ripensata» (Messaggio ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 22-10-1996). Alla fin fine, mi pare che distinguere tra un evolu­zionismo «cattolico» o «teista» e un evoluzionismo «ateo» o «materialista» lascia il tempo che trova. Se l’evoluzione è vera, è vera e basta; se è falsa, è fal­sa e basta, comunque la si voglia etichettare. Voglio concludere con quanto affermò il fisico Ni­cola Cabibbo, Presidente della Pontifìcia Accade­mia delle Scienze, scomparso nel 2010: «Non ri­esco veramente a entusiasmarmi del dibattito scien­za-fede. Il possibile imbarazzo teologico di oggi verso alcune idee della scienza sembrerà domani del tutto irrilevante: le teorie scientifiche di oggi sa­ranno forse rafforzate, e poi sopravànzate da teorie più complete e dettagliate. È quello che è successo alle teorie di Copernico, inglobate e completate da quelle di Newton e poi di Einstein. È così che la scienza procede, ed è bene abituarsi» (Il Sole-24 Ore, 5 gennaio 2009).
Verrebbe da dire che le teorie passano, mentre «Cri­sto è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8).