domenica 24 maggio 2015

24 maggio 1915: bastardi senza gloria*


Dedicato a tutti i morti a causa dell'Italia unita...


"Una fellonia, quale la storia non conosce l'eguale , venne perpetrata dal regno d'Italia verso i suoi due alleati. Dopo un'alleanza di più di trent'anni , durante la quale essa poté aumentare il proprio possesso territoriale e assorgere ad insperata prosperità , l'Italia ci abbandonò nell'ora del pericolo e passò a bandiere spiegate al campo dei nostri nemici"

Francesco Giuseppe I d'Austria, nel manifesto titolato "Ai miei popoli!", 23 maggio 1915. 


Introduzione

L'Italia nata dalla Rivoluzione risorgimentale, nel 1914.


La storia che ci viene raccontata a scuola dice che la decisione di entrare in guerra al fianco dei paesi occidentali sia stata l'inevitabile prodotto di una scelta di civiltà , libertà e democrazia ,  contro gli Imperi Centrali, "retrivi ruderi del Medioevo". La scelta sarebbe stata fatta a furor di popolo sulla base di un diffuso sentimento per completare il cammino risorgimentale e per riscattare il paese da un passato non sempre esaltante.
Di vero in tutto questo c'è solo che allo scoppio della guerra il Regno d'Italia non gode di fama di grande affidabilità. I governanti del nuovo e malconcio Stato hanno nomea di gente infida e superficiale , dedita a comportamenti piuttosto disinvolti nei rapporti esterni. Von Clausewitz aveva scritto che se i Savoia (prototipo del politico italiano) finiscono una guerra dalla stessa parte in cui l'hanno cominciata può significare solo che hanno cambiato partito un numero pari di volte. La pessima fama ha origine nelle vicende risorgimentali, zeppe di menzogne, giri di alleanze fatte e disfatte e di ogni altra sorta furbizia levantina: guerre contro paesi neutrali o amici senza neppure formali dichiarazioni, battaglie vinte con la corruzione, plebisciti truccati per giustificare annessioni eseguite con la forza. A tutto questo e alla scarsa efficienza militare si accompagnano pretese smisurate: le guerre risorgimentali sono vinte da altri (le tre esse di Solferino, Sadowa e Sedan sono brutalmente significative) ma si pretendono i vantaggi che spettano a chi le guerre le combatte duramente e le vince. La Lombardia viene "girata" ai Savoia dalla Francia , cui l'Austria l'ha consegnata per non doversi rapportare con l'infida avversaria  sconfitta sui campi di battaglia. Le Due Sicilie vengono conquistate con sotterfugi, menzogne , mazzette e doppiezza diplomatica (per esempio, si fa finta  di disconoscere Garibaldi salvo appropriarsi del suo "bottino"). Il Veneto è conquistato grazie alle armi prussiane, ancora una volta con la mediazione francese , senza merito ne onore. Roma è occupata approfittando della sconfitta del Secondo Impero Francese passato dal ruolo di amico protettore a quello di avversario da colpire in un momento di difficoltà.
La diplomazia italiana è un susseguirsi di ipocrisie , falsità, doppiogiochismo e ribalderia, ma è nella vicenda delle alleanze e delle manovre che portano alla Grande Guerra che essa compie il suo capolavoro di doppiezza , intrighi e "furberie".


La Triplice Alleanza e l'Italia  

Una stampa italiana celebra l'accordo
sottolineandone la formula difensiva:
 “L'Alleanza tripla è la pace"


Gli schieramenti che si confrontano all'inizio della guerra  si sono formati a cavallo del secolo attorno a due sistemi di alleanze: la Dreibund  o Triplice Alleanza (spesso semplicemente "Triplice") e l'Intesa (o Entente, spesso edulcorata in Entente cordiale).
La Triplice Alleanza nasce a Vienna il 20 maggio 1882 come accordo politico-diplomatico ma anche come patto di mutua difesa basato su precise convenzioni operative militari fra Germania , Italia e Impero asburgico, su iniziativa di Bismarck  principalmente in funzione anti-francese: i tedeschi vogliono contrastare la politica di Parigi di egemonia continentale costruita sulle relazioni con la Russia , l'Austria teme ingerenze sui Balcani e l'Italia vuole rompere l'accerchiamento soprattutto dopo l'occupazione francese della Tunisia. In realtà l'Italia insegue suoi disegni imperialistici e in quel momento privilegia un espansione nel Mediterraneo e in Africa piuttosto che verso l'Adriatico. Inoltre per l'Italia l'accordo serve come una sorta di assicurazione stipulata dalla monarchia contro i movimenti repubblicani di ispirazione francese e per contenere ogni tentativo austriaco di ricostituzione del legittimo potere temporale dei papi: è quindi una polizza contro la disgregazione della precaria unità da poco costruita.
Bismarck vuole l'Italia nell'alleanza per costringere la Francia a presidiare il confine alpino e "alleggerire" quello sul Reno , e per smorzare le destabilizzanti tensioni austro-italiane.
L'accordo , sottoscritto per l'Italia da Francesco Crispi, prevede l'intervento militare delle altre due potenze in aiuto di quella che viene attaccata e la benevola neutralità nel caso sia uno di loro a scatenare una guerra giustificata. L'Italia trae beneficio in prestigio e spezza l'isolamento  derivato dal contrasto con la Francia , e ottiene una sorta di "esenzione" dall'intervenire in un eventuale confronto con la Gran Bretagna , ufficialmente a causa della strapotenza navale inglese nel Mediterraneo che porrebbe a repentaglio la sua sicurezza ma, in realtà, in coerenza con il cordone ombelicale che lega i Savoia e gli unitaristi italiani a Londra.
Oltre che assicurare italiani e tedeschi contro la politica aggressiva francese , l'accordo mette in sordina per un pò anche le farneticazioni irredentiste anti-austriache.
Il trattato viene regolarmente rinnovato cinque anni dopo , il 20 febbraio del 1887. Al testo sono aggiunti due patti bilaterali con la Germania - sempre molto benevola nei confronti dell'Italia - in qualche modo "impone". Il primo - fra l'Austria e Italia - prevede che ogni vantaggio ottenuto nei Balcani da una delle due potenze faccia scattare un compenso per l'altro per mantenere intatti i rapporti di forza.  Gli italiani pensano a ritocchi alla frontiera orientale e gli austriaci a compensi in Albania. Il secondo - fra Italia e Germania - impegna i tedeschi a combattere i francesi anche nel caso di un conflitto limitato al Mediterraneo e a garantire all'Italia la conquista di Nizza , Corsica e Tunisi.
Il 12 dicembre 1887 viene firmata una intesa italo-austro-britannica (Accordo Mediterraneo) in funzione anti-russa.  Lo stesso anno la Germania firma un accordo difensivo segreto (Trattato di Controassicurazione) con la Russia che ha come scopo anche quello di contenere l'espansionismo sia russo che austriaco nei Balcani.
Antonio Starabba, marchese di Rudinì


Il 28 gennaio 1888 Italia e Germania firmano un protocollo operativo che prevede l'invio di truppe italiane sul Reno (sei Corpi d'Armata e tre divisioni di cavalleria) contro i francesi.
Nello stesso anno l'Italia aderisce a una alleanza stipulata tra Austria e Romania.
Il 6 maggio 1891 avviene il terzo rinnovamento della Triplice, con un anno di anticipo sulla scadenza per richiesta italiana. Nel nuovo testo sono inseriti in maniera organica gli accordi bilaterali per renderli stabili. In particolare quello italo-austriaco sulle compensazioni diventa l'Articolo 7 del trattato. Viene aggiunto anche un Articolo 9 che impegna la Germania a sostenere l'Italia nei suoi interessi in Tripolitania, Cirenaica e Tunisia. Di Rudinì (filo-francese e al governo) cerca  addirittura di inserire il Marocco nelle pretese italiane ma i tedeschi , che hanno loro stessi aspirazioni sull'area , rifiutano questo allargamento.
Il rinnovo della Triplice avviene regolarmente nel 1896 senza alcuna modifica: l'Italia è impegolata in Etiopia e ha bisogno di amici.
Nel frattempo Roma si riavvicina alla Francia stipulando nel 1898 un accordo segreto che prevede la mano libera dei francesi in m^Marocco (a onta delle mire dei tedeschi) contro la totale accettazione delle aspirazioni italiane sulla Libia.
Il quinto rinnovo della Triplice avviene il 28 giugno del 1902 senza modifiche e con la formale accettazione austriaca della libertà d'azione italiana in Libia, che è frutto delle continue richieste italiane cui gli alleati finiscono per cedere, infastiditi e sfiniti.
Neppure questo soddisfa del tutto Roma, che stipula lo stesso anno un altro accordo segreto con la Francia col quale si dice impegnata a rispettare gli accordi triplicisti solo nel caso sia la Francia ad attaccare la Germania: in realtà non si fa che ribadire una posizione ampiamente statuita dai patti sottoscritti con i tedeschi ma si vuole creare una occasione di ulteriore apertura di dialogo con Parigi.

Bernhard von Bulow
Il cancelliere tedesco Bernhard von Bulow conia l'espressione "giri di valzer" a proposito dei continui cambiamenti della politica italiana.
Nel 1904 Austria e Russia firmano un accordo segreto per conservare lo status quo nei Balcani. La marina italiana prepara strampalati piani di sbarco in Dalmazia.
Nell'estate del 1907 la Triplice è rinnovata senza modifiche fino al giugno 1914.
Si verifica intanto un fatto che avrà conseguenze sull'avvenire dell'alleanza: nell'ottobre 1908 l'Austria annette la Bosnia-Herzegovina con favore popolare.
Secondo Roma, questo dovrebbe far scattare quanto previsto dall'articolo 7  e cioè una compensazione territoriale all'Italia. L'Italia, data la natura dell'annessione non viene consultata né compensata: i suoi malumori vengono contenuti dalle rassicurazioni tedesche sulle mire libiche.
L'anno successivo l'Italia stipula un accordo segreto con la Russia a Racconigi per avere mano libera sulla Libia e per impegnarsi al mantenimento dello status quo nei Balcani con l'obbligo di sistemare le questioni territoriali in base al sovversivo principio di nazionalità "con esclusione di ogni dominazione straniera".
Nel 1911 scoppia la guerra italo-turca: secondo Roma, l'occupazione italiana della Libia bilancia l'annessione austriaca della Bosnia e non fa perciò scattare la clausola dei compensi. Intanto, con la cosiddetta crisi di Agadir, peggiorano i rapporti tra Germania, Francia e Inghilterra.

Giovanni Giolitti

Il rinnovo del Trattato avviene il 5 dicembre 1912, nuovamente anticipato. E' aggiunto un protocollo che riconosce la sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica. Il rinnovo è caldamente sollecitato dal presidente del consiglio Giovanni Giolitti perché lo ritiene il modo più sicuro di avere un rapporto non conflittuale con l'Austria. Infatti scrive: "(...) i due Paesi dovevano essere o alleati o nemici decisi; ed un nostro rifiuto di rinnovare l'alleanza sarebbe apparso come un proposito da parte dell'Italia di mettersi difronte all'Austria in una posizione di ostilità dichiarata; ed in tal caso c'era ogni ragione di temere che l'elemento militare austriaco (...) non avrebbe mancato di profittare del pretesto del nostro rifiuto, per dare seguito ai suoi propositi ostili verso l'Italia".
Nonostante i patti, risulta evidente che l'amicizia fra Italia e Austria è frutto di convenienze e non è priva di dissapori. La situazione è di una grande affettuosa amicizia dei tedeschi nei confronti dell'Italia, di una naturale intesa tra i due Imperi e di sopportazione fra italiani e austriaci.
Francesco Ferdinando d'Austria-Este


Vienna non ha mai digerito l'occupazione italiana di Massaua, sulla costa eritrea, del 1885, avvenuta con la complicità inglese, ed è contraria ad interventi italiani contro la Turchia che potrebbero mutare gli assetti balcanici a favore della Russia. Dal 1912 riprendono le provocazioni dei fanatici irredentisti in nome di Trento e Trieste. D'Annunzio comincia la sua campagna di italianizzazione dell'Adriatico, "lago italiano". Le discrepanze aumentano, al punto che si forma a Vienna una corrente politica guidata dal feldmaresciallo Franz Conrad von Hotzendorf  e dall'erede al trono Francesco Ferdinando (spinto anche da contenzioso familiare: Francesco Ferdinando Carlo Luigi Giuseppe d'Austria-Este è una sorta di concentrato di anti-unitarietà italiana; ha ereditato il cognome da Francesco V di Modena, morto nel 1875 senza discendenza, che l'ho nominò suo erede.), che ritiene l'Italia pericolosa e inaffidabile, e chiede un'azione militare preventiva. Il governo però frena gli istinti degli anti-italiani e rispetta scrupolosamente i patti sottoscritti (la correttezza di Francesco Giuseppe non sarà ben ripagata).
Francesco Giuseppe I d'Austria (1914)
Nel giugno del 1913 Italia e Austria sottoscrivono una convenzione che prevede i dettagli della collaborazione delle loro marine da guerra contro quella francese.
Il 18 dicembre 1913 si riuniscono i vertici militari italiani e il capo di Stato Maggiore, generale Alberto Pollio, illustra i dettagli della collaborazione con i tedeschi per l'invio di un'armata in Germania in caso di conflitto con la Francia, come previsto dagli accordi del 1888. Nel verbale "riservatissimo" redatto nell'occasione si legge: "l'invio di forze italiane sul Reno è una convenienza e una necessità non solo militare ma anche politica".
Più che di "giri di valzer"si tratta di un turbinio di ipocrisie, tradimenti, accordi segreti e pericolosi pasticci italiani.
Collegati alla Triplice sono anche la Turchia e la Bulgaria.
Quasi parallelamente, fra il 1891 ed il 1907 Francia, Russia e Gran Bretagna consolidarono una Triplice Intesa (Entente) alla quale erano più vicini la Serbia, il Belgio e il Giappone. In posizioni più equidistanti ci sono la Grecia, la Romania, l'Olanda, i Paesi Scandinavi e gli Stati Uniti.




L'ambiguità italiana e i fatti dal 28 giugno 1914 al 16 marzo 1915


Tra il 28 giugno 1914 e il marzo 1915 avvengono fatti di cruciale importanza. Ci si accontenta qui di riportare in ordine cronologico tutti gli avvenimenti principali dal 28 giugno 1914 al 16 marzo 1915.

28 giugno
Viene ucciso a Sarajevo l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono imperiale.

1 luglio
Muore in circostanze piuttosto misteriose in un albergo di Torino il generale Pollio.

5 e 6 luglio
Si riuniscono a Potsdam i vertici politico-militari di Austria e Germania: l'Italia non è contemplata. La Germania lascia all'Austria ogni decisione promettendo di appoggiarla comunque: è il cosiddetto "assegno in bianco".

23 luglio
L'Austria presenta alla Serbia, complice dell'assassinio dell'arciduca, un ultimatum contenente alcune clausole che Belgrado - su istigazione russa e non solo - dichiara il 25 luglio inaccettabili.

24 luglio
San Giuliano critica le richieste austriache come "troppo onerose e offensive per la Serbia" e, di riflesso, per la Russia. Dice esplicitamente che, in caso di guerra aggressiva austriaca, l'Italia non si sente impegnata ad intervenire e tira in ballo le "compensazioni" previste dall'articolo 7 della Triplice. Il riferimento più o meno esplicito è al Tirolo.

26 luglio
La Gran Bretagna propone senza successo la convocazione di una conferenza internazionale per risolvere la "crisi di luglio".
Il capo di stato maggiore austriaco, Franz Conrad von Hotzendorf, e il ministro Leopold von Berchtold intervengono per la prima volta sul tema delle "compensazioni" criticando la pretesa italiana di "fare un affare" territoriale senza contropartita.

27 luglio
Luigi Cadorna assume l'incarico di capo di Stato Maggiore e, come primo atto, ribadisce al suo omologo tedesco Helmuth Johann Ludwig von Moltke la volontà di rispettare tutti gli impegni concordati con il suo predecessore. S'informa dal capo dei servizi trasporti se sia possibile inviare sul Reno altre truppe oltre a quelle promesse.

28 luglio
L'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.

31 luglio
San Giuliano dichiara agli ambasciatori "alleati" che non sussiste il casus foederis per intervenire, e al tempo stesso ha il coraggio di protestare per l'esclusione dell'Italia dalle trattative menzionando nuovamente il principio delle "compensazioni".
Lo stesso giorno Cadorna, che è all'oscuro delle decisioni politiche, invia a Vittorio Emanuele III una "memoria sintetica sulla radunata a nord-ovest e sul trasporto in Germania della maggior forza possibile" riferendo l'idea del generale Tancredi Saletta di trasportare le truppe passando per la Svizzera.

1 agosto
La Germania dichiara guerra alla Russia.
Conrad chiede a Cadorna in che modo l'Italia intenda collaborare allo sforzo bellico degli alleati; Cadorna non risponde.
Il generale Oskar von Chelius, ex addetto militare tedesco a Roma, comunica che la Germania offre all'Italia Nizza, Corsica, Savoia e Tunisia in cambio dell'entrata in guerra contro la Francia.

2 agosto
La Germania occupa il Lussemburgo.
L'ambasciatore italiano a Vienna, Giuseppe Avarna, fa sapere a San Giuliano che l'Imperatore non intende cedere il Tirolo e che piuttosto sarebbe addirittura disposto ad abdicare: già nel 1866 Francesco Giuseppe si era rifiutato di cedere il Veneto in cambio della neutralità italiana. Anche allora l'Italia era pronta a tradire un'alleanza in cambio di vantaggi territoriali.
Vittorio Emanuele III manda ai due imperatori alleati telegrammi di affettuosa amicizia. Il primo aiutante di campo del re , generale Ugo Brusati, comunica a Cadorna: "Sua Maestà approva i concetti di base dall'Eccellenza Vostra esposti". Il re sciaboletta approva piani di guerra che sa benissimo che non saranno mai messi in pratica.

3 agosto
La Germania dichiara guerra alla Francia.
Il governo proclama la neutralità dell'Italia. Cadorna chiede a Salandra se questo significhi che ci si debba concentrare a preparare azioni ostili all'Austria , Salandra approva.

4 agosto
 La Germania occupa il Belgio. Il Regno Unito dichiara guerra alla Germania.

5 agosto
Il Montenegro dichiara guerra all'Austria-Ungheria.
Scambio di impressioni fra Conrad e Moltke: " Appare superfluo rilevare la sfacciataggine con cui l'Italia si sforza, mediante sofismi machiavellici, di mascherare la sua infedeltà e la sua vigliaccheria. La fellonia dell'Italia sarà vendicata dalla storia. Dio le dia ora la vittoria per modo che più tardi Ella possa regolare i conti con quei mascalzoni".

6 agosto
 L'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Russia. La Serbia dichiara guerra alla Germania.
Il governo tedesco chiede all'Austria di sacrificare il Tirolo. Il ministro Istvan Tisza risponde che è una delle provincie più antiche e fedeli, e che l'Italia è "militarmente debole e codarda".
Il governo italiano comincia a dare segni di cambiamento di rotta. Il triplicista Cadorna si adegua con sorprendente rapidità al nuovo corso: interrompe il concentramento delle truppe verso il confine francese e le dirotta verso oriente.

8 agosto
Il Montenegro dichiara guerra alla Germania.

9 agosto
La Francia dichiara guerra all'Austria-Ungheria.
In una lettera riservata a Salandra , San Giuliano - già convinto triplicista - prospetta per la prima volta l'opportunità di una guerra contro Austria e Germania. Lo stesso giorno prende contatto con il governo inglese. Il ministro ipotizza "se non la probabilità la possibilità" di un intervento contro l'Austria ma solo se ci fosse "una certezza o quasi certezza di vittoria".

10 agosto
Cadorna si adegua al nuovo vento, chiede udienza al re ed esagera con le assicurazioni di poter attraversare le Alpi Giulie già entro ottobre ; gli dichiara inoltre con una certa maldestra improntitudine che "(...) dopo questa guerra non potremo più fare assegnamento su alcuna alleanza fissa. Perciò dovremo armarci più fortemente di prima, pronti a contrarre alleanze provvisorie al momento della guerra, secondo i nostri interessi e ciò secondo le tradizioni costanti di Casa Savoia che l'hanno condotta alla presente fortuna. Il re manifesta la medesima opinione".

Il ministro degli esteri russo Sergej Dimitrievic Sazonoff fa la prima offerta all'Italia del Tirolo, Trieste , Valona e Dalmazia. Immediatamente San Giuliano prepara un memorandum per il ministro degli esteri inglese Edward Grey nel quale si anticipano le condizioni poste dall'Italia per il cambio di alleanza: il Tirolo "sino al displuvio principale alpino" e cioè il Brennero.

13 agosto
Il Regno Unito dichiara guerra all'Austria-Ungheria.

16 agosto
In una comunicazione a Salandra, San Giuliano dice: "L'Italia non può rompere con Austria e Germania se non si ha la certezza di vittoria. Ciò non è eroico, ma saggio e patriottico".

20 agosto
Il Giappone dichiara guerra alla Germania e all'Austria-Ungheria. L'Austria dichiara guerra al Belgio.

21 agosto
Cadorna fa avere ai comandanti di Armata una Memoria su una eventuale azione offensiva contro l'Austria, il così detto "Piano Cadorna".
Muore Papa Pio X , amico dell'Austria: da tempo preconizzava: "Verrà il guerrone".

26 agosto
Alla notizia delle vittorie tedesche in Francia , in una nota all'ambasciatore italiano a Londra , San Giuliano scrive: "Non è possibile impegnare l'Italia in una guerra se non si ha quasi certezza di vittoria sin dalle prime operazioni militari"; convoca Cadorna e gli dice che "non possiamo partecipare alla guerra se non abbiamo il 99% di probabilità di vittoria". I contatti con Londra si raffreddano.

1 settembre
Cadorna illustra ai comandanti dell'esercito il piano di ipotesi offensiva oltre l'Isonzo.

3 settembre
I russi conquistano Leopoli e la Galizia , e minacciano l'Ungheria.

5 settembre
L'offensiva tedesca viene arrestata sulla Marna.

6 settembre
Si insedia Papa Benedetto XV.

25 settembre
Cadorna informa Salandra che l'esercito non è pronto e suggerisce di rinviare ogni decisione a primavera.
San Giuliano manda a Gray un'altra nota con le condizioni italiane nelle quali è compresa un'offensiva navale anglo-francese in Adriatico con uno sbarco a Trieste.
L'ambasciatore Andrea Carlotti a San Pietroburgo presenta una richiesta che comprende il Litorale , la Dalmazia fino a Narenta e tutte le isole dalmate.

16 ottobre
Muore il ministro Antonio di San Giuliano : Salandra lo sostituisce ad interim.

20 ottobre
A Bologna la direzione socialista respinge l'ordine del giorno interventista di Benito Mussolini che si dimette da direttore dell'Avanti! Due giorni prima ha pubblicato un editoriale "Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante"; il 26 luglio aveva scritto un duro articolo titolato "Abbasso la guerra".

21 ottobre
Forze italiane occupano l'isola di Saseno sulla costa albanese.

23 ottobre
Una "missione sanitaria" italiana sbarca a Valona . "protetta" da fanti di marina e da una squadra navale.

26 ottobre
L'ambasciatore italiano a Berlino , Riccardo Bollati , riceve la richiesta tedesca di intervenire in guerra in cambio del Tirolo.

31 ottobre
Salandra si dimette per contrasti fra il ministro del tesoro Giulio Rubini , neutralista , e quello delle finanze Luigi Rava , sulle spese militari.

Novembre
Inizia una ben orchestrata e foraggiata campagna di stampa interventista. A essa si accompagnano sempre più frequenti manifestazioni patriottarde cui partecipano rumorose minoranze di studenti e borghesi.

2-3 novembre
Il ministro degli esteri tedesco Arthur Zimmermann prepara una istruzione per Hans von Flotow , ambasciatore tedesco a Roma, in cui si enunciano i vantaggi per l'Italia di un intervento a fianco dei vecchi alleati: Corsica , Nizza , Savoia e Tunisi...

4 novembre
La Russia e la Serbia dichiarano guerra all'Impero Ottomano.

5 novembre
La Francia dichiara guerra all'Impero Ottomano.
Salandra forma il nuovo governo . Il ministero degli esteri è affidato a Sidney Sonnino , che è triplicista e nell'agosto 1914 si è pronunciato per un intervento a fianco dei vecchi alleati. In realtà la sua visione è piuttosto confusa ancor prima che opportunistica.

7 novembre
La Gran Bretagna dichiara guerra all'Impero Ottomano.

15 novembre
Esce il primo numero del Popolo d'Italia con un articolo di fondo duramente interventista di Mussolini , titolato : "Audacia!".

2 dicembre
Cadorna, convinto che le sorti militari degli Imperi Centrali stiano franando , sollecita l'inizio della guerra all'Austria.

3 dicembre
Gli austriaci conquistano Belgrado. Con grande sfacciataggine , il governo italiano chiede compensazioni per la vittoria austriaca.

17 dicembre
Bernard von Bulow , ex ministro degli esteri e cancelliere tedesco, nuovo ambasciatore a Roma , ripropone la mediazione tedesca basata sulla cessione del solo Tirolo.

25 dicembre
Truppe italiane occupano Valona per costituire una testa di ponte in Albania.

Inizio gennaio 1915
Sonnino stende la lista delle richieste italiane in cambio della neutralità: il Tirolo fino al confine del napoleonico Regno d'Italia , il confine orientale all'Isonzo , Trieste città libera, autonoma e smilitarizzata.

6 gennaio
Sonnino incontra l'ambasciatore austriaco a Roma Carl von Macchio ma gli parla solo di generici compensi territoriali. Macchio crede che si riferisca all'Albania. E' la fiera degli equivoci.
A Vienna si insedia il nuovo ministro degli esteri Stephan Burian che è convinto che gli italiani non vogliono solo il Tirolo (come dice Bulow) ma anche Gorizia , Trieste, l'Istria e la Dalmazia.
Continuano i contatti di Bulow che insiste sul Tirolo. Comincia a prendere forma il piano di Sonnino di alzare sempre il prezzo per giustificare la rottura.

12 gennaio
Monsignor Pacelli (futuro Pio XII) porta a Vienna una lettera di Benedetto XV in cui si perora la cessione del Tirolo all'Italia in cambio della pace.

13 gennaio
Terremoto nella Marsica, in Abruzzo e Lazio , con trentamila morti.

2 febbraio
La Tribuna pubblica una lettera di Giolitti in cui si dice che "parecchio possa ottenersi senza una guerra". La posizione politica neutralista prende da qui anche il nome di "parecchismo".

15 febbraio
Riprendono i contatti ufficiali con l'Intesa tramite l'ambasciata a Londra.

25 febbraio
Sonnino scrive a Salandra che bisogna dedicarsi alle trattative con Londra perchè quelle con l'Austria "non porteranno a nessun risultato".

Fine febbraio
I tedeschi offrono all'Austria una serie di compensazioni per la cessione del Tirolo all'Italia: la zona carbonifera di Sosnowiec, vicino a Katowice , in Slesia, e interventi sulla navigazione dell'Elba a vantaggio della Boemia. I tedeschi sono ancora convinti che l'Italia si possa contentare del Tirolo e di una rettifica di confine sull'Isonzo.

1 marzo
Lo stato Maggiore italiano da inizio alla mobilitazione.

4 marzo
Sonnino da ordine all'ambasciatore a Londra Guglielmo Imperiali di Francavilla di iniziare le trattative con l'Intesa.

8 marzo
Il governo austriaco accetta l'offerta di compensazione offerta dalla Germania e la proposta di cessione del Tirolo e di variazioni di confine sull'Isonzo , a condizione che i cambiamenti avvengano alla fine della guerra.

10 marzo
Inizio dei negoziato con gli inglesi che agiscono anche per conto della Francia e Russia. Il giorno dopo Imperiali presenta le richieste che l'ambasciatore italiano Carlotti aveva sottoposto a Pietroburgo il 25 settembre . Gli alleati le ritengono eccessive . In particolare i russi sostengono che siano sproporzionate rispetto al modesto apporto militare che potrebbe dare l'Italia.

15 marzo
Sonnino chiede alla Triplice l'esecuzione immediata degli accordi, cioè la cessione territoriale senza aspettare - come propongono gli austriaci - la fine della guerra. L'Italia mette in dubbio che l'Austria manterrà gli impegni. La Germania e il Vaticano dichiarano di garantire il rispetto dei patti. Sonnino le prova tutte per far fallire le trattative, come dimostrano le lettere che si scambiano gli ambasciatori italiani a Vienna e Berlino.
Sonnino gioca su due tavoli per ottenere il massimo. In realtà ha scelto da tempo la parte con cui schierarsi e la giustifica con le maggiori concessioni in Adriatico.

16 marzo
Sonnino riceve Alcide De Gaperi , deputato "trentino" a Vienna, che gli riferisce piuttosto ambiguamente (e in contrasto con tutte le sue altre affermazioni) che "l'opinione del Trentino è divisa. Alcuni frementi per l'italianità; molti calmi ma non male disposti, però temono per i loro interessi materiali". Battisti è più esplicito e meno democristiano , dice che la maggior parte dei "trentini" è saldamente filo-asburgica .  Questo forse spiega il perchè in tutte le trattative non salti mai fuori l'idea di un plebiscito, che ha invece accompagnato la formazione del Regno d'Italia. Qui non si possono truccare i risultati



Il tradimento italiano si concretizza.



Il 21 marzo 1915, l’onorevole Sonnino inviò un telegramma riservato speciale ai regi ambasciatori di Londra, Parigi e Pietroburgo. Fu il preambolo dell’accordo segreto con le nazioni della Triplice Intesa per l’attacco all'Austria-Ungheria che si avverò due mesi più tardi. La definizione del segretissimo accordo avvenne con la firma del Patto di Londra (o Trattato di Londra) del 26 aprile 1915, il quale fu un trattato segreto stipulato dal governo italiano con i rappresentanti della Triplice Intesa (Impero Britannico, Terza Repubblica Francese e Impero Russo), in cui l’Italia si impegnò a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali (suoi alleati) nella Grande Guerra  in cambio di cospicui compensi territoriali. Tutto questo , come abbiamo già potuto constatare , malgrado il legame sancito con uno specifico accordo che vedeva impegnata l’Italia nei confronti degli stessi Imperi Centrali.
Come abbiamo potuto vedere, il governo italiano intavolò una serie di trattative segretamente con i membri dell’Intesa, per stabilire i compensi per l’intervento italiano nella guerra. Fu subito chiaro che l’Intesa poteva promettere all'Italia molto, soprattutto in virtù degli incrementi territoriali ai quali l’Italia era interessata, con particolare riguardo all'Austria-Ungheria.



Estratto del Trattato di Londra





Il trattato di Londra fu stipulato nella capitale britannica il 26 aprile 1915 e firmato dal marchese Guglielmo Imperiali, ambasciatore a Londra in rappresentanza del governo italiano, Sir Edward Grey per per il Regno Unito, Jules Cambon per la Francia e dal conte Alexander Benckendorff per l’Impero Russo.
Il patto prevedeva che l’Italia entrasse in guerra al fianco dell’Intesa entro un mese, ed in cambio avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Tirolo Meridionale (Trento e Bolzano), il Litorale Adriatico, l’intera penisola istriana con l’esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia, numerose isole dell’Adriatico, Valona e Saseno in Albania ed il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, oltre alla conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso.
La Russia avrebbe dovuto attaccare sul fronte austriaco per alleggerire il fronte italiano fino al suo improvviso attacco e regolare in futuro la questione degli armistizi.
L’Italia la sera del 23 maggio 1915 dichiarava guerra all’Impero Austro-Ungarico ed all’alba del 24 maggio 1915 dal forte di Verena sull’altipiano di Asiago partì il primo colpo d’artiglieria contro le postazioni Austriache sulle Vezzene. L'esercito italiano , composto quasi esclusivamente da coscritti poco desiderosi di andare in guerra, oltrepassa con grandissima prudenza le linee di confine. Le truppe avanzano con lentezza e circospezione che rasenta la viltà: si ha paura di tutto , delle spie, dei cecchini, dei preti, della gente. L'incapacità di fare avanzare i battaglioni contro i pochi gendarmi presenti nei primi giorni dopo il tradimento italiano sul confine friulano e la freddezza delle popolazioni nei confronti delle truppe italiane occupanti crearono nei comandi la psicosi e la paura di vedere dappertutto spie. Così a S. Vito al Torre un povero carrettiere ; appartatosi in un campo per un bisogno fisiologico, venne fucilato, a Mossa tre furono i cittadini giudicati sommariamente , a Villesse il tristemente famoso maggiore Citarella faceva ammazzare sei innocenti ostaggi accusati di spionaggio, altre esecuzioni Lucinico, a Monfalcone , mentre una sessantina di parroci , cappellani e curati, la quasi totalità dei preti dei paesi occupati, veniva arrestata e internata in Italia, dal Piemonte alla Sardegna.  

Qualche esempio: don Justulin , parroco di Visco, un paesino a due passi dal confine , solamente per aver suonato le campane il primo giorno di  guerra , venne accusato di intelligenza col nemico e trascinato a Palmanova , coperto d'insulti , con un occhio pesto e la tonaca strappata per i colpi ricevuti; don Rosin, vicario di Crauglio , fu costretto a scavarsi la fossa nel cortile della canonica e solo quando ebbe terminato il lavoro, lo scherzo ebbe termine e venne tradotto in carcere; don Zanolla , Catechista di Cormons , fu preso a scudisciate da un ufficiale dei carabinieri ; don Kren di Monfalcone fu legato su un asino aizzato a correre in piazza tra le urla e le risate dei soldati; e gli esempi potrebbero continuare...
L'Italia si guardò bene dal dichiarare subito guerra alla Germania: ciò avvenne più di 400 giorni dopo...
Il primo giorno di guerra l'esercito italiano avanza di sei chilometri in un territorio dove non c'è neppure un gendarme di frontiera. Gradisca - a 19 chilometri dal confine - viene occupata il 5 giugno , 13° giorno di guerra. Gli italiani incontrano le prime propaggini del sistema difensivo austriaco all'inizio di giugno: in poco meno di venti giorni, passa dalla guerra di guardingo movimento a quella terribile di trincea. Gli austriaci hanno tutto il tempo per trasferire sul fronte i rincalzi dalla Galizia.
Per i traditori e per la truppa al loro comando tutto diventa più difficile; inizia una disonorevole guerra fatta di fucilazioni , fame , malattie, terrore, fellonie e massacri insensati di decine di migliaia di soldati. A causa del tradimento, già verso il finire del 23 maggio, la flotta Imperiale austriaca aveva bombardato la costa italiana dove la popolazione civile pagò nuovamente a caro prezzo per i misfatti del governo unitario. 

 Manifesto di protesta nei confronti del tradimento italiano di Francesco Giuseppe I d'Austria titolato "Ai miei popoli!", del 23 maggio 1915.

*il titolo è riferito al governo unitario responsabile e non ai coscritti mandati al macello,  vittime dei loro governanti.  Il rispetto dei caduti non ha divisa. 


Fonte:
IL "GUERRONE"- La nefandezza del 1915-18 (Gilberto Oneto). 
http://www.welschtirol.eu/

Scritto dal Presidente e fondatore A.L.T.A. Amedeo Bellizzi  

venerdì 22 maggio 2015

I timori di un beato e ...


... la condanna del "Liberalismo cattolico"

"Ciò che affligge il vostro paese e lo impedisce di meritare le benedizioni di Dio è la confusione di principi.
Parlerò e non tacerò: ciò che temo per voi non sono quei miserabili della Comune(*), veri demoni fuggiti dall'inferno; temo il liberalismo cattolico, quel sistema fatale che sogna sempre di stabilire un accordo tra due cose inconciliabili: la Chiesa e la Rivoluzione".

(Parole del beato Pio IX, rivolte a un gruppo di pellegrini francesi, nel 1871, in occasione dei sanguinosi attentati comunisti di Parigi).



(*) La Comune di Parigi è stata uno dei più ugualitari e sanguinosi avvenimenti storici francesi, e fa riferimento all'autogoverno di matrice socialista e anarchica che autogestì la città di Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871.


Fonte: http://circolopliniocorreadeoliveira.blogspot.it/

giovedì 21 maggio 2015

'Legalità conciliare', nessuna rottura. Di Guido Ferro Canale

CONCILIO-VATICANO-II

di Guido Ferro Canale (Fonte: http://radiospada.org/) 

Il Prof. Radaelli ha dedicato un suo articolo del 2013, che solo ora giunge alla mia attenzione, alla “Rottura della legalità conciliare” che, secondo una tesi largamente diffusa nel mondo tradizionalista, si sarebbe verificata, nel primo periodo del Concilio Vaticano II e rispetto alle le norme di procedura: 1) quando sono stati eletti i membri delle Commissioni; 2) con il rigetto degli schemi preparatori. In particolare, 3) con la contestata votazione sullo schemaDe fontibus Revelationis: Radaelli non ne parla, ma mi è sembrato opportuno aggiungere il tema per completezza.
Premetto di nutrire le mie riserve riguardo all’uso del termine “legalità” in ambito canonico; per questo, nel titolo, l’ho posto tra virgolette. Credo che tenore e ragioni di queste riserve emergeranno, almeno in parte, nel corso della trattazione e saranno sufficienti a spiegare perché, a mio avviso, le accuse in parola non abbiano fondamento alcuno.
Beninteso: sono anch’io perfettamente convinto che i “progressisti” siano giunti a Roma già ben organizzati, con i piani pronti e più che decisi a manovrare il Concilio. Non dubito che, per loro, i punti 1), 2) e 3) siano stati le prime tappe di un cammino concepito in funzione antiromana. Questo, però, prova soltanto la loro colpa morale, non l’illiceità degli atti, oggettivamente considerati, né tantomeno la loro illegittimità giuridica. Per Radaelli, invece, elezione dei membri delle Commissioni e rigetto degli schemi usciti dalla fase preparatoria sono quasi un tutt’uno. Storicamente, questo ha un senso, proprio perché si tratta di tappe di un piano. Giuridicamente, invece, si dovrebbero tenere ben distinti i due eventi, perché nulla impedisce che uno sia legittimo e l’altro no (e il complotto non è sufficiente per un giudizio in proposito). Avverto, quindi, che ho dovuto distinguere là dove egli non ha distinto e anche sfrondare le ripetizioni di un testo che appare scritto sull’onda di una (comprensibile) indignazione: credo di aver riportato l’essenziale degli argomenti, ma mi scuso in anticipo per qualsiasi eventuale fraintendimento od omissione.

1) L’intervento di Liénart e il rinvio delle votazioni
Anzitutto, i fatti.
E’ il 13 ottobre 1962, secondo giorno del Concilio.
Il Regolamento del Concilio prevede che gli schemi, già approvati dalla Commissione preparatoria e quindi dal Papa, prima di essere discussi in Aula, vengano esaminati da dieci Commissioni apposite, due terzi dei cui membri dev’essere eletto dai Padri conciliari. (cfr. il Regolamento approvato con m.p. Appropinquante Concilio, art. 9 §2: “Quaelibet Commissio, praeter Praesidem, viginti quattuor Membra complectitur, quorum duae partes a Patribus, tertia vero a Summo Pontifice, ex Concilii Patribus eliguntur.”).
Questo è appunto il giorno fissato per le votazioni.
Il Segretario del Concilio, Mons. Pericle Felici, sta illustrando il contenuto di tre libretti. “Come spiega bene il de Mattei, il primo «conteneva una lista completa dei Padri, che erano tutti eleggibili, a meno che non occupassero già altre funzioni», il secondo «recava i nomi di coloro che avevano preso parte alle deliberazioni delle diverse Commissioni del Concilio», il terzo era costituito «da dieci pagine, ognuna delle quali aveva sedici spazi bianchi numerati. I Padri conciliari avrebbero potuto scrivere i nomi dei rappresentanti prescelti per un totale di 160 nomi».”.
A questo punto, il Card. Liénart, membro della Presidenza, interrompe il Segretario per chiedere un rinvio della votazione “e chiede la parola al Presidente di turno, il cardinale Tissernat, « per comunicare all’Assemblea – spiega – che non si poteva procedere alla votazione, non sapendo nulla dei candidati da votare ».
Tisserant risponde negativamente, motivando la negazione con ragioni ineccepibili: « I Padri sono stati convocati semplicemente per votare ». Cambiare la materia dell’ordine del giorno esulava dai compiti dell’Assemblea: era compito strettamente papale.”.
A questo punto, Liénart afferra il microfono e si appella direttamente ai Padri, chiedendo loro “che la votazione venga rimandata per consentire agli stessi e alle varie Conferenze episcopali di consultarsi sui criteri di scelta e sulla scelta stessa dei candidati alle commissioni.”. In suo sostegno interviene il Card. Frings e Tissérant sospende la seduta per riferire al Santo Padre. Giovanni XXIII ha accolto la proposta di Liénart.
L’articolo di Radaelli è scaturito da un opuscolo in cui il Card. Scola sostiene che, proprio in virtù dell’accettazione da parte del Papa, non si è verificata illegalità alcuna; replica il Professore che la proposta era illegale in sé.
Ma illegale perché? Per ragioni di forma e di sostanza: infrazione del Regolamento conciliare e rifiuto del Primato papale in nome del conciliarismo. Un rifiuto che, per Radaelli, non è solo in mente Liénart (il che si potrebbe anche concedere), ma in re ipsa.
Nessuno dei due argomenti regge.
A sentire l’illustre filosofo – che ha dalla sua anche Gherardini e de Mattei – in sostanza la Congregazione generale era stata convocata solo per votare, quindi Liénart non avrebbe potuto prendere la parola, né tantomeno appellarsi ai Padri conciliari perché appoggiassero il suo tentativo di fissare l’ordine del giorno, che è materia riservata al Papa.
Mi sorprendo io per primo a doverlo rilevare, ma sembra che nessuno degli insigni Autori abbia preso in considerazione il fatto che l’obiezione di Liénart – non si può votare: non si conoscono ancora le persone – era ineccepibile.
Anzi, egli avrebbe anche potuto protestare contro il fatto che, oltre all’elenco completo degli eleggibili, fosse stato trasmesso anche quello di coloro che avevano fatto parte delle Commissioni preparatorie: invito implicito a preferirli. Non voglio dire tentativo di manipolazione: presumo che si stesse cercando di portare a conoscenza dei Padri un’informazione utile. E tuttavia, se il Papa avesse voluto la pura e semplice conferma delle Commissioni preparatorie – al più con qualche integrazione – perché mai avrebbe promulgato un Regolamento che imponeva di far eleggere ai Padri ben i due terzi dei membri e non prevedeva neppure una conferma ipso iure? La distribuzione dei tre libretti, oggettivamente, influenzava il processo elettorale in un senso che, sempre oggettivamente, non poteva dirsi in linea con il testo del Regolamento. Semmai con opinioni e desideri della Curia Romana… ma di ciò più avanti.
Dunque, i Padri dovevano votare. Dovevano anche essere liberi di scegliere. E, per inciso, non so quanti fossero in tutto i membri delle Commissioni preparatorie, ma non penso che arrivassero a coprire tutti i 1600 posti (il Regolamento vietata i doppi incarichi: cfr. art. 9 §3); quindi, il problema si poneva a prescindere dall’eventuale intento di escluderli.
Poiché il m.p. Appropinquante Concilio null’altro dice sulle elezioni (a parte la deroga alla maggioranza dei due terzi, ex art. 39 §1: cfr. art. 55), si doveva applicare la disciplina comune del CIC 17 sulle elezioni per scrutinio. Il quale, si badi, invalidava l’elezione in caso di effettivo impedimento, morale o fisico, alla libertà del corpo elettorale (can. 166), ipotesi distinta dall’invalidità del voto individuale viziato da timore grave o dolo (can. 169 §1). Il secondo libretto – quello con l’elenco dei membri delle Commissioni preparatorie – avrebbe forse potuto costituire (non certamente dolo, ma) timore grave, se qualche Padre avesse percepito come “volontà del Papa” quell’ovvia pressione ad eleggere i tali soggetti. Ma, a prescindere da ciò, voler tenere le elezioni in quella circostanza costituiva, oggettivamente e al di là delle intenzioni, un impedimento alla libertà del corpo elettorale, e dei singoli elettori, di informarsi sulle persone degli eleggibili.
Ne segue che l’intervento del Card. Liénart, anche qui oggettivamente e a prescindere dagli intenti, evitava un’invalidità del voto più che probabile. Per questa stessa ragione, non poteva essere considerata estraneo all’ordine del giorno, né era possibile negargli la parola (la si sarebbe negata a un Padre che avesse voluto chiedere ulteriori delucidazioni sulla procedura di voto?).
Se ha preso il microfono, ha esercitato il suo diritto. Disattendendo un divieto la cui illegittimità era palese. Solo in questo senso si può parlare di una violazione del Regolamento… ma violazione lecita. E, in sé, non antipapale: si presume sempre che il Papa voglia che tutto si svolga ad normam iuris; e le elezioni in programma non lo erano.
Forse si sarebbe dovuto rivolgere al Tribunale amministrativo del Concilio? Domanda interessante. Mi chiedo però, in tal caso, se a Tissérant sarebbe comunque rimasta altra scelta che il rinvio.
Resta la questione posta dall’essersi rivolto alla Congregazione generale. Il testo del suo intervento, per come lo riporta de Mattei, non fa che esporre la difficoltà e la proposta di rinvio, ipotizzando un ruolo di “consulenza elettorale” per le Conferenze episcopali. Inoltre, in questo modo egli ha fatto sì il corpo elettorale stesso manifestasse l’impedimento percepito.
Solo una parte del corpo elettorale, sapientemente manovrata?
Non è detto e non mi sembra così probabile: l’esigenza di consultazione era tanto obiettiva che, il giorno prima (12 ottobre), il Card. Siri si è trovato in ufficio “alcuni vescovi venuti per chiedere informazioni” e si è messo a compilare, con loro, una lista di candidati per la Commissione teologica, mentre ne arrivava una anche dal Sant’Uffizio (cfr. il diario in Il Papa non eletto, pagg. 358-9). Mi pare che si tratti di soggetti non sospettabili di adesione al complotto.
Quindi, al netto delle macchinazioni, gli argomenti validi c’erano. E non si butta il bambino con l’acqua sporca.

Il rigetto degli schemi
A questo proposito, Radaelli fa propria la posizione di Gherardini, che cita testualmente. I termini meritano di essere citati per esteso.
«E’ da notare in via preliminare che i Padri non erano invitati a scelte propositive, non essendo esse di loro competenza, perché il diritto di proporre la materia delle discussioni conciliari compete al solo Romano Pontefice ». [CIC (1918), c. 222 § 2: « Eiusdem Romani Pontifici est Œcumenico Concilio per se vel per alios præesse, res in eo tractandas ordinemque servandum constituere et designare, Concilium ipsum transferre, suspendere, dissolvere, eiusque decreta confirmare» (“Spetta al medesimo Romano Pontefice presiedere il Concilio ecumenico sia personalmente sia per mezzo di altri, stabilire e indicare le cose da trattare in esso e l’ordine da rispettare, trasferire, sospendere e sciogliere il Concilio stesso e confermare i suoi decreti.”)].
«I Padri eran invece autorizzati a prender visione degli schemi e ad analizzarli attentamente per meglio comprenderne il contenuto, in ordine ad una più illuminata loro sentenza di merito (i famosi “placet, placet iuxta modum, non placet” [Ordo Concilii Œcumenici celebrandi, art. 33 § 1: « Quivis Pater verba facere potest de unoquoque proposito schemate vel admittendo, vel reiciendo, vel emendando, suæ orationis summa Secretario generali saltem tres ante dies scripto exhibita »: “Qualunque Padre può prendere la parola su ciascuno schema proposto sia ammettendolo, sia rigettandolo, sia emendandolo, dopo aver presentato per iscritto il contenuto della sua richiesta al Segretario Generale almeno tre giorni prima.”]». 
«Nel motivar il “non placet”, [i Padri] avrebbero potuto anche suggerire modifiche, cambiamenti e perfino qualche nuova materia; tutto ciò, se accolto attraverso organi competenti e la parola conclusiva del Papa, sarebbe comunque diventato una proposta papale».
«Una cosa sola mai avrebbero potuto o dovuto fare: cestinare come carta straccia gli elaborati delle commissioni, non tanto perché composte dai maggiori specialisti nelle rispettive materie, quanto perché tutte di nomina pontificia, operanti in nome del Papa, sotto la sua responsabilità e con la sua approvazione».
«Un tale rifiuto avrebbe indirettamente colpito la stessa funzione primaziale del Papa. E di fatto la colpì».”.
Sull’esito antipapale del rigetto, credo che conveniamo tutti. E così anche sui dubbi, ampiamente diffusi, relativi alle intenzioni degli oppositori principali e alla bontà (se non anche all’ortodossia) di molti dei loro argomenti.
Di qui a sostenere l’illegittimità del rigetto in sé, però, il passo è lungo. Se non altro perché le proposte, in quanto tali, si accolgono o si respingono. Il Regolamento consentiva di votare non placet e questo voto, per definizione, è un “no” complessivo, non una proposta di modifica (che, invece, si ha con ilplacet iuxta modum). Chi motiva un non placet deve, secondo logica, esprimere un disaccordo su punti importanti, che richiederebbero una rielaborazione profonda.
In contrario si adducono l’autorità delle Commissioni, che agivano in nome del Papa, e l’approvazione degli schemi da parte del Pontefice stesso. Si potrebbe anche aggiungere che l’unico schema annotato da Giovanni XXIII con manifestazioni di perplessità è anche l’unico che sia stato approvato, la Costituzione sulla Liturgia (cfr. de Mattei, pag. 235)…
Anzitutto, vorrei osservare che: a Trento l’organizzazione dei lavori e la proposta dei testi furono lasciate ai Padri conciliari; al Vaticano I la materia fu riservata al Papa e si costituirono Commissioni preparatorie, ma l’infallibilità, che non figurava nel programma originario, vi fu introdotta dopo una petizione e una contropetizione; anche in quel Concilio non mancarono le manovre sulle Commissioni, ma vi si distinsero in particolare i fautori della definizione sull’infallibilità; infine e non da ultimo, fu rifatto da cima a fondo nientemeno che lo schema sulla Fede, sia perché ritenuto troppo prolisso e scolastico (suona familiare?), sia per i molti dissensi espressi rispetto ad un’impostazione che, p.es., attribuiva al Protestantesimo la responsabilità della nascita del razionalismo (il che non pareva utile alla condanna di quest’ultimo).
Tutto ciò porta direttamente alla tesi del Bellarmino (De controversiis – IV. De Conciliis, Lib. I, Cap. XVIII, in Opera omnia, vol. II, Napoli 1857, pagg. 32 sgg.): i Vescovi, in Concilio, non sono semplici consiglieri, ma veri giudici.
Sembra che Radaelli sostenga l’esatto contrario, quando scrive: il Papa convoca i Vescovi a Concilio “perché essi, tutti quanti sono, gli forniscano quella moltitudine di elementi con cui egli poi possa raggiungere e determinare un conclusivo giudizio finale, una sintesi corroborata e sostenuta dai loro plurimi consigli e dalle loro numerose riflessioni.”. Voglio pensare che non gli fosse nota la tesi del Bellarmino, altrimenti non credo che avrebbe dissentito con tanta facilità da un Dottore della Chiesa, quasi che ogni opinione diversa fosse per forza di cose conciliarista.
Del resto, loco citato, il Santo Dottore, in quella sede, ha di mira la tesi protestante secondo cui l’autorità del Concilio sarebbe assimilabile, semmai, a quella di un dottore privato, cosicché conterebbe la bontà degli argomenti – solo scritturistici, com’è ovvio – e non il numero dei voti; ma da ultimo esamina anche un’obiezione da parte cattolica, cioè che “Si omnes episcopi essent judices, teneretur pontifex, qui concilio praesidet, in decretis faciendis sequi majorem partem episcoprum”. No, risponde: “Dico […] praesidem concilii, ut praesidem, debere sequi in decreto formando majorem partem suffragiorum, tamen pontificem, not ut praesidem, sed ut principem Ecclesiae summum posse retractare illud judicium; et consequenter […] non sequi majorem partem”. E più avanti (Lib. II, Cap. XI, pag. 60): il Concilio, prima della conferma papale, può errare se non ha ricevuto istruzioni dal Papa – e intende qualcosa di più di una proposta della Commissione, intende il parere del Papa sull’argomento da trattare, trasmesso per mezzo dei legati, come a Calcedonia – ma, aggiunge, “non tenentur episcopi in concilio sequi illam instructionem, alioqui non essent judices, neque essent libera suffagia.”.
Dunque, mi par d’intendere, il Concilio è bensì formato dai Vescovi uniti cum Petro, sub Petro et per Petrumma la sua volontà è frutto dell’incontro tra due sentenze giudiziali distinte, quella dei Vescovi e quella (decisiva) del Papa, senza che il principio dell’unità importi obbligo di approvare le proposte papali. La spiegazione di ciò mi sembra fornita dallo stesso Dottore della Chiesa, laddove spiega perché il voto deliberativo spetti ai Vescovi e non ai laici o ai Sacerdoti in genere (cfr. Lib. I, Cap. XV, pagg. 28-9): “Definire in concilia ea, quae sunt credenda, vel agenda, proprium est munus pastorum; id enim proprie est pascere”; “negotia ecclesiastica et publica, a personis ecclesiasticis et publicis tractanda sunt; tales autem sunt soli episcopi”.
In termini di diritto canonico: iure divino, ciascun Vescovo, nella sua Diocesi, gode di potestà propria; partecipa al Concilio anzitutto come Pastore della Chiesa particolare a lui affidata e di cui è vero dottore e maestro, il che lo rende appunto giudice delle dottrine che vengono proposte e che   egli, come Vescovo, dovrebbe poi insegnare. In pari tempo, il Papa stesso, convocando il Concilio,  chiama ogni Vescovo a collaborare con l’altissima missione di insegnare alla Chiesa universale. L’utilità dei Concili Ecumenici sta proprio nella collaborazione tra i due livelli di governo – papale e vescovile – che Cristo ha voluto nella Sua Chiesa; fermo che al Papa spetta l’ultima parola… ma non necessariamente la prima, né tantomeno l’unica. In effetti, il Concilio legittimamente convocato, e salva la necessità di conferma papale dei singoli decreti, è, anche per il CIC 17, soggetto della potestà suprema.
Questo consente di risolvere anche l’obiezione secondo cui le Commissioni agivano “in nome del Papa”.
Questo si può fare per potestà delegata oppure annessa ad un incarico stabile (la potestà vicaria, caratteristica della Curia Romana). La seconda è un titolo più forte della prima, ma su ambedue prevale la potestà propria, che non si esercita nel nome di un altro.
Ora, visto quanto si è detto, e visto anche che nessun Concilio, per quanto ne so, ha mai formulato i propri atti in nomine S. Sedis, ma semmai comeuniversalem Ecclesiam repraesentans (espressione de Fide, come si desume dalle interrogationes prescritte da Martino V ai sospetti seguaci di Wycleff e Hus, che il Bellarmino, Lib. I Cap. XVI, spiega appunto con il fatto che ciascun Vescovo impersona la propria Chiesa e rappresenta il popolo che gli è affidato); a me sembra che l’ufficio di Padre conciliare comporti appunto una potestà propria, che combina quella dei singoli Vescovi con l’effetto ipso iuredella convocazione. Che, sempre secondo il mio parere, fa cadere le restrizioni territoriali all’esercizio della potestà episcopale, dimodoché ogni Vescovo possa collaborare con il Papa pronunciando una vera sentenza riguardo alla Chiesa universale. Questo, infatti, egli fa con il proprio voto deliberativo (così come ogni singolo giudice nei Tribunali collegiali). E’ chiaro, poi, che i singoli suffragi vanno a comporre una maggioranza e questa costituisce la sentenza “del Concilio”, che il Papa potrà confermare o modificare. Ciò non toglie che sia vera sentenza, proveniente da veri giudici, che agiscono per autorizzazione antecedente del Papa, e soggetti alla sua approvazione successiva, ma con potestà propria.
Se così è, ipotizzare una sostanziale soggezione dei Padri alle Commissioni sarebbe come dire che il Vescovo ausiliare o il Coadiutore di una Diocesi sono soggetti al Vicario generale.
Infine, non è neppure il caso di considerare l’approvazione pontificia: se non consta del contrario, questa è in forma communi e non muta in alcun modo la natura dell’atto, che resta una proposta della Commissione.
Dunque, il rigetto degli schemi – meglio: la loro riformulazione – non è cosa inaudita e neppure illecita. Tantomeno viola la “legalità”.

2) Il voto sullo schema De fontibus
Il 20 novembre 1962, l’Aula conciliare deve votare “se interrompere la discussione” sullo schema preparatorio. La formulazione del quesito pone lo stesso problema che a noi, ben più modesti elettori, si presenta con ilreferendum: chi dice “”, in realtà, sta dicendo un “no”, e viceversa.
La procedura non è usuale, la votazione risulta confusa. I risultati: su 2.209 presenti, 1.368 placet, 822 non placet (oppure 868, scrive de Mattei: non so da cosa dipenda la variante), 19 schede nulle. L’interruzione ha ottenuto la maggioranza assoluta, ma non quella dei due terzi, necessaria all’approvazione: quindi è respinta e si dovrebbe proseguire la discussione.
Invece, l’indomani, Giovanni XXIII – che ha incaricato il Card. Bea di “sondare” altri porporati, finendo così per sentire solo le voci dei progressisti – comunica, per lettera del Segretario di Stato, che lo schema è rinviato ad un’apposita Commissione mista.
Le critiche correnti riguardano sia la formulazione del quesito sia la decisione del Papa.
Riguardo a quest’ultimo punto, basterà osservare che Egli si trovava di fronte ad un caso imprevedibile: la maggioranza assoluta dei Padri riteneva che il testo presentato non andasse bene neppure come base per una discussione. Se così era, si poteva seriamente proseguire? Quanti sarebbero stati i placet iuxta modum, quante le proposte di modifica da esaminare? E da quale cilindro sarebbero saltati fuori i due terzi di placet per l’approvazione?
Che chiedesse consiglio sul da farsi, era più che lecito; semmai, sarebbe stato opportuno non affidarsi soltanto a Bea e ai consiglieri da lui sondati…
Parimenti, era lecito decidere come si è deciso.
L’osservazione “Si trattava comunque di una decisione procedurale che violava apertamente il Regolamento del Concilio” (de Mattei, pag. 263) implica una concezione falsa della legalità nella Chiesa: il Papa non è vincolato a nessuna legge umana, né propria né dei predecessori, e, in virtù dellaplenitudo potestatis, può sempre dispensare, modificare, derogare o abrogare, provvedendo nel modo che ritiene più opportuno; solo per le nuove leggi si richiede la pubblicazione negli Acta Apostolicae Sedis, in tutti gli altri casi è sufficiente che consti della volontà del Pontefice.
L’argomento di Radaelli – “Ricordiamo che il Regolamento conciliare è, in quanto tale, parte integrante del magistero pontificio, anzi, per la sua funzione regolatrice dello stesso, ciò è eminentemente.” – manifesta una confusione piuttosto grave tra potestà di Magistero (insegnare la dottrina) e potestà di giurisdizione (dettare norme disciplinari), oltre ad attribuire al Regolamento una singolarissima funzione regolatrice del Magistero pontificio, anziché di quello conciliare. Inoltre, per essere coerente con la sua tesi sui gradi del Magistero, dovrebbe altresì considerare che si sarebbe comunque trattato di Magistero autentico, rispetto al quale egli considererebbe lecito sia il dissenso sia, immagino, il ripensamento da parte del Pontefice stesso.
Beninteso, tutto questo non impedisce di chiedersi se la decisione del Papa sia stata opportuna. Probabilmente no.
Se fossero state sentite tutte le campane, sarebbe emerso che la volontà dei Padri non era poi così chiara (magari molti, favorevoli allo schema, hanno votato “sì”; ma ricordiamo che anche qualche contrario potrebbe aver votato “no”!). Ma, mi chiedo, quelli che avrebbero dovuto far sentire l’altra campana dov’erano? Dormivano beati, confidando nel Regolamento. Incapaci di ricordare che, di fronte ad un caso straordinario, il ricorso alla plenitudo potestatis non presenta alcuna difficoltà teorica o pratica. E così, non si è giunti alla scelta migliore, che sarebbe potuta essere ripetere la votazione, stavolta con la formula “Se si debba proseguire”.
Il che ci porta al problema della formulazione.
De Mattei, seguendo Mons. Borromeo, sospetta che sia stata scelta apposta per far votare “” chi in realtà era a favore dello schema (cfr. pag. 262).
Sorprende che, su un punto così importante, quest’ottimo storico non menzioni neppure una delle fonti che peraltro impiega: il Diario conciliare di Siri.
Eppure, avrebbe meritato almeno un cenno quel che ne emerge, cioè cheproprio il Cardinale genovese ha suggerito la formula poi adottata, peraltro con un argomento ineccepibile.
Scrive infatti l’Arcivescovo di Genova, in data 19 novembre: “Nel pomeriggio so da Ruffini che domani ci sarà la votazione. Lo avverto che siccome lo schema possidet, giuridicamente la domanda va posta si rejicere, non si tenere.” (Diario, pag. 382).
Penso che anche Radaelli sottoscriverà il ragionamento: poiché lo schema è stato elaborato dalla Commissione e approvato dal Papa, ha titolo per essere discusso; e proprio per questo – aggiungo io – fino a prova contraria si presume che i Padri vogliano discuterlo. Il dubbio non può essere “se mantenerlo”, perché in questi termini la risposta può solo essere “sì” (in dubiis, melior est condicio possidentis).
Temo proprio che Siri non avesse posto mente alle difficoltà pratiche… e così Ruffini, che faceva parte dell’Ufficio di presidenza e ivi si è certo fatto latore dell’argomentazione.
Una volta avvenuto il voto, invece, la possessio dello schema poteva dirsi venuta meno e, quindi, si sarebbe potuto rivotare con una formula meno ambigua.
Se solo si fosse stati più furbi

Conclusione
Non so se queste mie considerazioni riusciranno ad indurre almeno qualcuno ad abbandonare certi luoghi comuni e concentrarsi sui veri problemi del Concilio. Che non stanno nell’an della riformulazione degli schemi, ma semmai nel merito delle modifiche.
Spero, però, che si faccia strada anche una nuova ipotesi di lettura, che a me sembra più vicina al vero.
Non c’erano i progressisti cattivi e maneggioni contro i tradizionalisti buoni ma disorganizzati e colti di sorpresa. C’era la grande maggioranza dei Vescovi, venuta a Roma senza programmi particolari, c’era il complotto dell’Alleanza Renana… e c’erano il Sant’Uffizio, i membri della Curia Romana e i loro amici, convinti che spettasse a loro dettare la linea, attivate impegnati a manovrare in tal senso.
Già si è detto delle liste in corso di elaborazione il 12 ottobre. Si deve aggiungere che il 16, quando effettivamente si è votato, Ottaviani, nell’intervento così lodato da Radaelli, ha proposto una vera e propria deroga alla procedura, per non perdere tempo nei ludi electorales [sic!].
Ovviamente, mirava a far eleggere “i suoi”.
Proprio come le controparti.
E dunque, quale dev’essere il nostro metro di giudizio? Le leggi per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano? Le manovre degli amici vanno bene, quelle dei nemici sono criminali? Io dico di no!
La proposta di Ottaviani è stata respinta da Roberti, prima ancora che da Ruffini, perché avrebbe comportato modifiche al Regolamento, cui l’Ufficio di Presidenza non era autorizzato. Mi aspetterei di sentire da Radaelli una severa rampogna verso questa pretesa di mettere le mani ad un testo normativo papale, tanto più inaccettabile in un canonista insigne.
Ma questo ci porta al problema di fondo: la Curia Romana, proprio perché gode di potestà vicaria e forma, con il Papa, un solo organo complesso, la S. Sede, rischia sempre di soccombere alla tentazione di credersi onnipotente.
Dopotutto, è lo strumento attraverso cui, ordinariamente, il Papa governa la Chiesa.
Da ciò non segue che essa debba guidare un Concilio, che è eventostraordinario. Di fatto, non è mai successo; e già si è detto delle ragioni ecclesiologiche e giuridiche in contrario.
A parte la stupidità politica di un’espressione come ludi electorales, che insulta migliaia di persone sottintendendo che son venute a perdere tempo (e che basterebbe lasciar fare tutto ai soliti noti…), Ottaviani aveva ragione nel merito delle tesi che sosteneva, ma torto marcio nella pretesa di governare il Concilio.
Da questo punto di vista, avevano torto marcio pure gli altri, sia chiaro: un Concilio non può essere egemonizzato da una sola delle tendenze che si delineano. Quale che sia. E quali che siano le sue pretese di ortodossia, oppure di necessario rinnovamento, o ancora l’autorevolezza dei componenti. Tuttisono veri giudici, in Concilio; e solo il Papa personalmente è “più giudice” degli altri.
Ma allora, la scelta di Giovanni XXIII sul De fontibus – costituire una Commissione mista dove entrambe le tendenze potessero esprimersi – era la più consona alla natura di un Concilio. Lo stesso può dirsi, mutatis mutandis, per gli altri schemi.
Certamente egli avrebbe potuto accompagnare questo gesto con indicazioni chiare, p.es. sul valore della Tradizione costitutiva. Ma prima di accusarlo di eresia o di adesione al complotto, credo che faremmo meglio a controllare le fonti e verificare, molto semplicemente, come fosse formulato il nuovo schemaDe fontibus, che egli ha fatto in tempo da approvare, nel maggio 1963, come nuova proposta papale. Era un compromesso buono, cattivo, così così?
Questo mi porta all’ultimo punto.
Premesso che mi sembra indubbio che tutti han detto la loro e che alla “minoranza” non è stato imposto il silenzio… siamo proprio sicuri che il Concilio abbia giudicato?
Oppure il carattere pastorale, l’ambiguità delle formulazioni compromissorie, la scelta di non dirimere le questioni di principio emerse nel dibattito impediscono di pensare ai documenti dottrinali del Vaticano II come a vere sentenze (anche se meno autorevoli delle definizioni dogmatiche)?
Non proseguo. Mi limito a ripetere il mio auspicio: concentriamoci sui problemi veri, impostiamo correttamente le ricerche… e smettiamo di stare, pregiudizialmente, dalla parte della Curia in quanto Curia. Non dubito che ne deriverà un progresso.