mercoledì 29 aprile 2015

Insurrezioni legittimiste nel Ducato di Modena dopo l'Armistizio di Villafranca





Carta Topografica del Ducato di Modena.
E’ noto che il principio dell'occupazione del Ducato di Modena fu cronologicamente segnata, nell’aprile del 1859, dalla ritirata dei presidi estensi di Massa e Carrara, ove, subito dopo la partenza dei soldati, rispettivamente un avvocato Giusti e tal Brizzolari assunsero illegittimamente il governo in nome del re di Sardegna.

Nonostante il preteso (e inesistente) “grande gaudio delle popolazioni che vedevano al fine sorgere un’era di benessere e libertà” lo spirito pubblico di buona parte degli abitanti dell’Oltrappennino doveva preoccupare non poco la rivoluzionaria dirigenza. “(…) giunsi stanco in Massa” narra Francesco Selmi il 24 maggio 1859. “Ho trovato il paese morto e zeppo di duchisti, in ispecie nella campagna (…) So che ivano ripetendo fra di loro: Vedremo come andrà a finire! – E speravano nel ritorno di Casoni. La sveltezza del delegato della Questura e la fermezza di Giusti (...) sventarono due moti reazionari, manipolati da famiglie Duchiste, d'intelligenza coi contadini. Ora (...) con la ritirata di casoni, colle altre notizie, etc non ardiscono più; nondimeno, la scorsa domenica e non più tardi, alcuni ubriachi del contado, gridarono W. Fr. V, e strapparono alcuni proclami del Commissario, all'estremo limite della città (...)"


E ancora il Selmi ebbe ad esprimersi con lo sciacallo Giuseppe La Farina in questi termini: " La città di Massa conta buon numero di Duchisti, moltissimi il contado circostante (...) In alcune ville, specialmente all'intorno di Massa, in Fosdinovo, in Tentola ed in altri paesucoli, può dirsi che si sopporta per timore la dominazione piemontese, e che ivi le disposizioni sarebbero a pigliare anche le armi contro di noi per poco che udissero un rovescio da parte nostra, o credessero ad un aiuto del Duca" 


A chi poi volesse rivolgere l'attenzione ai mesi successivi, e ad altre aree geografiche del Ducato, ugualmente si appalesano profonde realtà conflittuali, che contrappongono, spesso in scontri violenti, gli sgherri della rivoluzione e i partigiani sostenitori dell'ordine legittimo . Con riferimento all'agosto 1859 Ferdinando Manzotti ricorda ad esempio disordini nelle campagne del Correggese e una vasta sollevazione popolare nella zona compresa fra S. Pellegrino, Piandelagotti, Fontanaluccia e Civago " con atterramenti di bandiere tricolori e disarmo dei civici". 


E' giusto però rammentare un altro episodio, certamente di minore importanza degli ultimi citati, ma ugualmente estremamente significativo. Con lettera 5/8/1859 il Podestà di San Polo d'Enza riferiva all'Intendente Generale di Reggio sull'increscioso comportamento tenuto dagli ultimi giorni di luglio in avanti dagli abitanti della Villa di Paderna, compresa appunto nel circondario del Comune di San Polo. Quella " popolazione dominata e agitata da parecchi facinorosi si era posta in atteggiamento ostile quasi rivoluzionario in faccia all'attuale ordine di cose" 


E continua " taluno di quei villici armato si appostava  sulla strada, e ai carrettieri o viandanti faceva gridare " Viva Francesco V - Morte a Vittorio Emanuele ! - Viva l'Esercito Tedesco." Inoltre, la bandiera tricolore, inalberata in Paderna non senza opposizione,era ben presto fatta levare e scomparire. Per risolvere  questo stato di cose, il Podestà di S. Polo si rivolgeva all'Intendente per avere soccorso di truppa regolare, ritenendo " impossibile di rimetter l'ordine colla Guardia Nazionale".  


Del resto lo stesso Farini, sin dal 6/7/1859, scrivendo al Cavour, aveva mostrato una certa preoccupazione per la situazione " di alcune Provincie" ove denunciava essere numerosi " i Duchisti e Sanfedisti" che possono "essere pericolosi"Minori pensieri doveva dare al medico romagnolo la Capitale, se nella lettera ora menzionata dice" non essere ivi a temere i partigiani del deposto Sovrano, per quanto numerosi essi potessero essere."  Attraverso frequenti arresti ed epurazioni, Modena fu infatti mantenuta, a quanto consta, in complesso tranquilla, anche se essa pure fu teatro dell'attività di emissari estensi, che godevano di una forte complicità e collaborazione  da parte di non pochi modenesi.


Non si riuscirebbe diversamente a spiegare, ad esempio, come tal Zaccaria, e la vicenda è piuttosto curiosa, " provigionario delle truppe Estensi" potesse recarsi " sovente a Modena, comprarvi del vino per le sudd.te truppe" passare "il Po colle sue provviste defraudando il dazio" e andare "a riferire quanto accade in Modena al Generale Saccozzi, Comandante delle truppe dell'ex Duca". Non è naturalmente casuale che molti degli episodi che abbiamo ricordato si collochino cronologicamente poco tempo dopo i preliminari di pace di Villafranca (11/7/1859): nel periodo si era fatta particolarmente intensa, infatti, la speranza in un sollecito ritorno di Francesco V, cui gli accordi stessi volevano restituito il Ducato. 


Inoltre, giacchè "supponevasi che i preliminari di pace stabiliti in Villafranca, avrebbero dietro breve volger di tempo ottenuto sanzione e conferma mercè un formale trattato"  verso la fine del  luglio 1859 l'Esercito Estense era stato avvicinato alle frontiere del Ducato, venendo dislocato al margine settentrionale delle Valli grandi Veronesi. Anche la concreta possibilità di un prossimo intervento della piccola, ma solida ed efficente forza armata ducale era venuta quindi ad incoraggiare il fermento controrivoluzionario esistente, e in particolare in quelle terre più immediatamente a portata di un'incursione delle milizie estensi. 



Quivi, quando un provvedimento dittatorio del 3/8/1859 ordinò l'iscrizione di tutti i cittadini dai 18 ai 30 anni nei ruoli della Guardia Nazionale mobilizzata, al fervore dei sostenitori del Duca si affiancò il malumore degli indifferenti, riottosi di fronte ad una leva in massa, a creare una miscela esplosiva, che puntualmente deflagrò.

In S.Antonio Sozzigalli, Cortile, S. Martino Secchia e Rovereto la pubblicazione del testo normativo sopra ricordato era avvenuta la domenica 7/8/1859 tramite i parroci di quei paesi, che vi avevano provveduto nel corso delle funzioni pomeridiane. 

Il timore di una leva obbligatoria di massa fu particolarmente avvertito dai popolani di Cortile, che presero a manifestare rumorosamente malumore ancora prima che il loro sacerdote finisse di leggere. Terminate le sacre funzioni, una quarantina di persone, ben decise ad ottenere spiegazioni sul nuovo provvedimento, si recarono presso l'abitazione di Luigi Rossi, agente comunale di Cortile non chè di S.Martino e S.Antonio Sozzigalli. Il Rossi però  disse di  non conoscere affatto la nuova legge. 


L'agente promise tuttavia che l'indomani si sarebbe recato a Carpi a chiedere chiarimenti e che avrebbe poi riferito nel primo pomeriggio, dichiarandosi altresi' disponibile ad indirizzare una supplica ed una rimostranza alle autorità superiori, qualora gliene fosse stata nell'occasione avanzata richiesta.

E' pressochè certo che il Rossi nella serata del 7 invitò i presenti ad avvisare della convocazione chi potesse avervi interesse. 



Fangareschi Antonio, uomo " piuttosto favoreggiatore del cessato Governo, e Duchista" che avverti' un due terzi della Villa di S. Martino a trasferirsi nel pomeriggio dell' 8 Agosto alla casa dell'Agente Comunale Rossi",  precisò che  a non presentarsi v'era una penale, che occorreva radunarsi alla chiesa per suonare la campana a stormo, e che "bisognava fossero d'accordo (...)nel rifiutarsi di fare i soldati".

Ancora, molti dei contadini di Cortile che furono avvisati da tal Evangelista Malagoli della medesima villa riferiscono che egli faceva opera di persuasione perchè ci si opponesse vigorosamente alla nuova legge, ecc. Osserva del resto lo stesso giudice che istrui' il processo contro i protagonisti dell'insorgenza che sul punto concernente la convocazione dei paesani "  evvi un oscurità ed un bujo che non si è riuscito punto a svelare, ne tampoco a delucidare".


Sta comunque di fatto che nelle prime ore del pomeriggio di lunedì 8 agosto 1859 sul sagrato della chiesa di Cortile si radunava una turba di contadini delle tre ville sottoposte alla giurisdizione dell' Agente Comunale Rossi: e non amni vuote, chè molti degli intervenuti erano armati, quando non di fucili, di bastoni e di attrezzi rurali come vanghe e picconi.


" Andai a Cortile circa dopo le 2 pomeridiane e trovai il prete in smania che gridava" narra uno degli arrestati, certo Levizzani Giuseppe " perchè  avevano suonata la campana e perchè volevano tagliar la bandiera dal campanile". Infatti, oltre a levare le grida di " Viva Francesco V, abbasso la Guardia Nazionale, non vogliamo fare i soldati" la folla aveva subito circondato il campanile, dato qualche tocco di campana e manifestato l'intenzione di suonare a stormo e di levare la bandiera tricolore che sventolava in cima alla torre campanaria. Anzi, a questo scopo Pratissoli Massimiliano, conosciuto come " Cinet" e uomo  " piuttosto favoreggiatore del cessato governo"  e Barbieri Ludovico, detto "Raschin", avevano intrapreso la scalata del campanile. 

Tuttavia, pur essendo  uno dei più tenaci partigiani del legittimo governo, il parroco, don Ottavio Coccapani, per timore di rappresaglie si oppose con preghiere e lagnanze alle intenzioni dei tumultuanti, cosicchè questi alla fine rinunciarono ai loro progetti, compreso il Barbieri, il quale già stava accingendosi a recidere la funicella che teneva assicurata la bandiera al campanile. 

Abbandonato allora il sagrato della Parrocchiale, che non era del resto che un luogo di raduno, la folla si diresse all'appuntamento con l'Agente Rossi, rinnovando per via le grida in favore di Francesco V.  " Andammo poscia dall'Agente Comunale stepitando, e gridando tutti che non volevamo farci soldati" narra il già nominato Levizzani Giuseppe. Alla casa del Rossi si erano già recati altri paesani; e con la comitiva giunta dalla chiesa ed altra gente sopravvenuta in seguito, la folla ingrossò progressivamente fino a raggiungere il numero di alcune centinaia di persone, non meno di una trentina delle quali armate di fucili.

Alle grida specificatamente ostili alla Guardia Nazionale e al nuovo provvedimento ad essa inerente " abbasso la Guardia Nzionale (...) non vogliamo fare i soldati, è una legge ingiusta, una leva troppo grossa, bisogna cercare almeno di salvare gli unici, e gli ammogliati" venivano  quelle  specificatamente contrarie al governo rivoluzionario " abbasso il governo attuale, viva la bandiera austriaca, non vogliamo stare sotto la disciplina di Vittorio Emanuele" e non mancò la comparsa della coccarda Estense e Austriaca. 


Boccolari Giacinto detto "Gambarel" favoreggiatore del legittimo Governo prese a reclamare le armi della Guardia Nazionale in deposito presso l'Agente Comunale, cento voci fecero subito eco alla richiesta: cosicchè, dopo quasi nulla resistenza, il Rossi rilasciò  quindici fucili muniti di relativa baionetta ed alcune munizioni. Le armi furono prese in consegna da Luppi Elia, soprannominato "Liloun di Lov", ex sergente dei Militi  di Riserva ducali, che le distribui' a coloro che ne erano sprovvisti.


Nei pressi della casa non era mancato nel frattempo qualche episodio di intimidazione ai danni dei filo-unitaristi. Certo G.B. Reggiani di Fossoli, che ostentava un nastro coi colori Asburgici ed una placca con le cifre "F.V.", spianò il fucile contro un tale che se ne stava affacciato ad una finestra di casa Rossi con una coccarda tricolore, " minacciandolo d'una fucilata e dicendo che non poteva vedere quella coccarda" Ancora, tal  Pulica Giovanni  riferisce " avendo io detto che facevano male a far chiasso, mi si rispose sei un civico anche tu? Ti daremo la paga !". 


Del resto il tumulto veniva sempre più assumendo il carattere di vera e propria insorgenza. Si cercò di ottenere altre armi, ed a tale scopo, rinnovate le invettive contro la Guardia Nazionale e le acclamazioni a Francesco V, al grido di "Viva la nostra unione" la turba si recò "in marcia quasi militare" verso S. Martino Secchia per impadronirsi dei fucili che colà si trovavano. V' erano infatti a S. Martino altri venti fucili completi di baionetta, in parte depositati presso la casa di Giuseppe Costa Giani ed in parte invece affidati a certi Ferdinando Bertesi e Zeffirino Cabrini, che li avevano dati in custodia a un Lugli Giuliano. 


Spianate contro la casa del Costa le armi già in loro possesso  i tumultuanti, da cui si gridava "merda la Civica vogliamo vincere l'Italia comandiamo noi" ed inoltre "che sarebbero iti a reclutar uomini; che sarebbonsi riparati nei prati di Cortileper ivi difendersi, ed opporsi ai soldati, che volevano fare le vendette di Francesco V".ecc., si fecero consegnare otto pacchi di munizioni e quindici fucili, i quali vennero distribuiti a chi mancava di qualsiasi arma. Da Lugli Giuliano si trovarono poi altri cinque fucili, che portavano il numero degli insorgenti muniti di arma da fuoco a sessantacinque circa.



Minor successo ebbe invece il tentativo di asportare i cinque fucili della Guardia Nazionale di S.Antonio Sozzigalli, condotto durante la notte tra l'8 e il 9 da Ippolito Guaitoli alla testa di una dozzina di individui. Al Guaitoli che reclamava la consegna delle armi, Vincenzo Sabatini, depositario locale Delegato alla Guardia Nazionale, oppose un netto rifiuto che non si riusci' a vincere.

Con molta probabilità il piccolo gruppo del Guaitoli era una delle pattuglie che nella medesima sera gli insorgenti avevano inviato in perlustrazione per le campagne. Infatti, sin da quando erano stati presi i fucili da casa Rossi, Luppi Elia aveva manifestato l'opportunità di attivare pattuglie notturne per far resistenza ai soldati che potessero venire da Carpi"ed in effetti il suggerimento venne accolto.

Scioltasi la folla al termine del lungo pomeriggio di tumulti, la maggioranza degli armati si organizzò cosi' in drappelli. Uno di questi venne guidato dallo stesso Luppi Elia; un altro, pare, da Barbieri Ludovico; di un terzo, sotto Giacinto Boccolari, sappiamo che si formò dopo l'Ave Maria e perlustrò sino alle due antimeridiane.

Ma queste precauzioni non valsero a salvare l'insorgenza di Cortile, S.Martino e S.Antonio: chè verso le quattro e trenta del 9, un battaglione del 2° Reggimento Cacciatori del Magra sotto diretto comando del Col. Ceccarini, ed un piccolo reparto di Guardi Nazionali di carpi e S. Marino, poco più di cinquanta uomini, agli ordini di Giuseppe Rocca occupavano inaspettatamente Cortile provenendo da Carpi. Da nord altre due compagnie di cacciatori, stanziate a Novi e a Mirandola, appoggiavano la operazione.

Perquisite abitazioni alla ricerca di fucili, ed arrestate diverse persone tra minacce e violenze , nel pomeriggio del 9 il Ceccarini rispedi' a Carpi il Rocca con l'incarico di scortare colà le armi rinvenute, don Ottavio Coccapani, il viceparroco don Lugli, Luigi Rossi e alcuni altri prigionieri.

Anche a Rovereto nella giornata dell' 8  v'era stata non poca agitazione. Infatti, non diversamente da quanto accaduto in Cortile, il pomeriggio di quel giorno aveva visto circa  un centinaio di persone, in parte armate e capitanate dall'ex sergente dei Militi di Riserva Gaetano Mari, tumultuare davanti alla abitazione del locale Agente Comunale, Gaetano Papotti.

Per quanto la serata non trascorresse tranquilla, si sparse la voce che " il Duca Francesco V poteva tardar poco ad arrivare essendo subito di là da Pò con (...) ottanta o novanta mila uomini". La mattina successiva verso le ore sei  rapidamente si formò sul sagrato della Chiesa un assembramento, nel quale si distinguevano non meno di una decina di persone armate di fucili e parecchie altre di attrezzi  da contadini.

Le grida in cui questa folla andava prorompendo mostrano come anche il tumulto di Rovereto avesse ormai assunto carattere di insorgenza: si urlava di voler "transitare il Pò, ed opporre resistenza a chi sosteneva le Leggi del presente Governo, e di voler andare ad unirsi alla Truppa del Duca, anche per ricondurlo": a tal fine si reclamava che venisse suonata la campana a stormo, ondeanche altri si congiungessero ai roveretani.

Alla realizzazione di quest'ultimo disegno ostò però tanto il fatto che la porta del campanile era sprangata e tale, come si sperimentò, da non poter essere scardinata neppure con la forza, quanto l'ostinazione dell'Arciprete nel non volerne consegnare la chiave. Ciò attirò al Losi l'accusa di essere un Civico, e di andare d'accordo coi Civici; la qual ultima cosa almeno, sia detto tra parentesi, non doveva essere del tutto errata, essendo sufficiente a tal fine che l'Arciprete fosse uno di quei sacerdoti che applicavano le direttive ricevute dal Vescovo di Carpi.

Dalla situazione si usci' peraltro al sopraggiungere da Cortile di alcuni armati, che, recando la notizia dell'arrivo della truppa e di arresti ed incitando alla fuga, determinarono il rapido discioglimento dell'assembramento. Ed in effetti nel tardo pomeriggio entrava in Rovereto una compagnia (la 2/a) della Brigata Modena, che, preso contatto col comandante della locale Guardi Nazionale e con la collaborazione di quest'ultima, organizzò pattuglie e picchetti, procedendo altresi' a numerosi arresti e violenze.

Nella mattinata, tuttavia, non pochi paesani, anzichè sbandarsi alle notizie recate da Cortile, avevano raggiunto, in parte armati, la vicina località di Caleffo per impadronirsi delle armi della Guardia Nazionale colà custodite da certo Angelo  Gavioli: ma per quanto fossero stati puntati i fucili contro quast'ultimo, gli insorgenti non conseguirono il loro intento, e solo poterono asportare poche cartucce. Questo successo segnò la fine dell'insorgenza in Rovereto, perchè quasi tutti i tumultuanti si disanimarono o vennero dalla truppa dispersi.

Durante la marcia su caleffo, però, Tommaso Grappi  avverso all'attuale illegittimo governo aveva prospettato l'idea di raggiungere effettivamente il Duca oltre confine. Quasi certamente tale idea non nasceva in quel momento: il Grappi aveva fama di arruolatore ( ed in effetti era rientrato da poco dal Mantovano), e pare che sin dall'ultima domenica di luglio avesse tenuto discorsi in Rovereto sull'opportunità di "unirsi in compagnia per andare al di là del Pò giacchè era meglio fal là i soldati piuttosto che qui", discorsi fruttuosi poi rinnovati anche nei giorni successivi.

Sta di fatto comunque che il già ricordato Gaetano Mari ed alcuni altri si unirono al Grappi, mettendosi effettivamente in marcia verso il Pò. La piccola colonna, cui non mancava qualche fucile, ingrossò strada facendo fino a raggiungere la consistenza di una quarantina di uomini, perchè il Mari e il Grappi incitavano ad unirsi a loro quelli in cui si imbattevano, prospettando apertamente la possibilità di servire Francesco V. Per quanto i componenti del drappello osservassero la precauzione di marciare dispersi, essi furono ugualmente intercettati nei pressi di Pegognaga dalla Guardia Nazionale, ed in parte arrestati.

Gli uomini del Grappi e del Mari  non furono però gli unici a cercare di passare il Pò nella giornata del 9: abbiamo notiazia, ad esempio, di quattro roveretani arrestati presso Gonzaga; ed addirittura la Guardia Nazionale di Moglia segnalava un centinaio di contadini armati in marcia verso il fiume per le 10 a.m. del 9/8/59. E, del resto, non è da escludere che alcuni insorgenti siano riusciti effettivamente a raggiungere il confine ed il Regno Lombardo-Veneto.

A seguito degli avvenimenti narrati, le ville teatro delle insorgenze furono poste in stato di assedio, e vi rimasero per circa un mese, durante il quale i militari colà spinti di presidio e la Guardia Nazionale compirono perlustrazioni , continui arresti , perquisizioni e violenze. Al 22 agosto gli arresti stessi erano pressochè completati, e gli incarcerati assommavano al rilevante numero di oltre 120, di cui una quarantina rinchiusi in Mirandola e più di ottanta ( compresi don Coccapani e don Lugli) in Carpi.

La punizione dei rivoltosi veniva dal dittatore Farini in un primo momento affidata alla ai  militari, ed in effetti fu l'Auditore Militare Bagnagatti De Giorgi a condurre i primi, e tutt'altro che civili,  interrogatori , mentre il gen. Ribotti, comandate della brigata Modena, ricevette l'ordine di istituire un Consiglio di Guerra in Mirandola.

Il 24/8/1859 il Bagnagatti trasmetteva però al Ministero della Guerra una relazione da rassegnare al Farini, nella quale anzitutto si esprimevano dubbi sulla sussistenza della giurisdizione militare in ordine ai reati da giudicarsi, ed in secondo luogo si suggeriva che " a scanso dei gravi danni che possono colpire tante, e tante famiglie, la procedura indiziaria dovesse essere incoata soltanto contro i motori, e capi di quasta rivolta". Questa "apprensione" si deve alla paura di nuove insurrezioni se si procedeva a rappresaglia.  
La furbesca tattica del "graziare" per evitare altre (grandi) insorgenze venne recepita integralmente dal dittatore. Con due distinti decreti datati 24/8/1859, infatti, il Farini tatticamente graziava ben centodieci  persone, dichiarandole vittime della"cattiveria di qualche malevolo" ed addossando la colpa dell'accaduto non già "ad uno spirito generale di ribellione", che c'era ed era concreto , ma all'inerzia e mancanza di energia delle autorità. 

Al contempo veniva affidato ai tribunali ordinari il compito di perseguire capi e promotori del moto. Conseguentemente, terminata l'istruttoria formale, era la Sezione d'Accusa per i Delitti Politici presso il Tribunale di 1/a Istanza in Modena ad essere investita, il 30/3/1860, dalle richieste del Procuratore Regio Malagoli. Questi domandava venisse dichiarato " con formale sentenza farsi luogo a collocare in accusa" per resistenza pluriaggravata alla autorità Luppi Elia, Pratissoli Massimiliano, Mari Ribaldi Antonio, Schiavi Antonio, Barbieri Ludovico, Fangareschi Antonio, Lugli Giacinto e Luppi Cesare. Il 27/6/60 le richieste del P.M. venivano integralmente accolte dalla Sezione d'Accusa, e successivamente ai primi del novembre 1860 il Tribunale di 1/a Istanza condannava a tre anni di carcere per resistenza all'autorità e ribellione i primi sette degli imputati sopra elencati; per le stesse imputazioni Barbieri Ludovico veniva condannato al carcere sofferto, mentre il Fangareschi, il Lugli e Luppi Cesare venivano posti in libertà (vigilata). Qualche tempo dopo, peraltro, un provvedimento sovrano condonava ai reclusi la pena ancora da scontare.

Per il governo usurpatore il  moto politico avrebbe potuto nuocere gravemente ai suoi interessi non solo nell'Emilia ma anche in tutta la penisola italiana. L'insorgenza, però,  non ebbe , a quanto riportato dagli unitaristi , alcuna ripercussione politica, al di fuori della testimonianza offerta dalle popolazioni delle ville insorte. Non fu solo però l'immediata e pesante repressione militare a far si' che ciò avvenisse: infatti il governo dittatorio impose una sorta di "silenzio stampa" sugli avvenimenti,  e fu l'azione del Ribotti e del Farini, l'interporsi affinchè non si divulgasse nulla degli avvenimenti ; in tal modo si cercava di impedire il verificarsi di nuove interne difficoltà, impedendo alla diplomazia avversa di farsi forte del dilagante malcontento. Nondimeno qualcosa dovette trapelare, perchè almeno due giornali (liberali), il "Nord" e il "Monitore Toscano", pubblicarono la notizia di disordini avvenuti in Modena ad opera di contadini.

Ma la furbesca cautela riusci' in complesso cosi' bene, che, ad esempio, il legittimista M.A. Paretnti, che pure ricorda nel suo "Diario" persino un tentativo infruttuoso di reazione politica a Fossalta nel ferrarese, non spende una parola per l'insorgenza del basso Secchia.

Quella corposa parte della popolazione della Bassa di sentimenti legittimisti non dovette però certamente essere stata scoraggiata dal sostanziale fallimento dei moti, se dopo di essi il Comando della Guardia Nazionale di Carpi continuava a ricevere denunce del tenore di quella presentata il 3/10/1859 da certo Lugli Messori di Quartirolo a carico di tal Mauro Spelli. Di quest'ultimo veniva infatti asserito che andava " dicendo che i partigiani dell'attuale Governo sono tutti porci e lazzaroni e che se poteva tornare Francesco V voleva andare ad illuminare la casa del detto Messori". Del resto, don Onorio Gozzi, parroco di Rivara (frazione di San Felice) ben sedici anni dopo la partenza del Principe dal Ducato e cinque dopo la presa di Roma, si esprimeva, commentando la morte di Francesco V, nei termini seguenti " 22 nov 1875. Un luttuoso avvenimento abbiamo a deplorare per questo nostro Ducato. E' morto in Vienna ove si trovava Esule da sedici anni. S.A.Reale Francesco Quinto Duca di Modena il giorno 20 corrente alle ore cinque pomeridiane (...). Lo scrivente lamenta una santa perdita (..). 



Fonti:

http://www.battaglioneestense.it/


Di Redazione A.L.T.A 

martedì 28 aprile 2015

VIDEO: dibattito sul Darwinismo

Ecco perché il darwinismo non funziona - Prof. Enzo Pennetta
 
Il Darwinismo dovrebbe essere insegnato nell'ora di religione - Fabrizio Fratus         
 
Ci sono più miracoli nel Darwinismo che nel Creazionismo - Stefano Bertolini         

VIDEO: Il "complotto" del darwinismo per allontanarci da Dio


Liberatori di Massonerie

cvbn

Caserta, ottobre 1943: militari statunitensi recuperano i labari delle logge massoniche italiane sotterrati dopo lo “pseudo-scioglimento” dell’italica setta nel 1925.
(Servizio Biblioteca Grande Oriente d’Italia-Fondo Landolina)

Fonte: Erasmo 15 – 16 -2009, p. 37

Qui l’articolo sulla rivista massonica Erasmo del Grande Oriente d’Italia, p. 37: http://www.grandeoriente.it/images/Goi/Riviste/erasmo/2009/15-16-2009.pdf

Per approfondimenti sul ruolo fondamentale apportato dalla massoneria italiana per la “Liberazione” vedere:
  1. Vittorio Gnocchini, L’Italia dei liberi muratori, Mimesis, Milano, 2005, pagg. 148-9;
  2. Peter Tompkins, Dalle carte segrete del Duce, Marco Tropea, Milano, 2001, pag. 38 e succ.ve;
  3. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana : dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1992, pag. 505;
  4. Aldo Alessandro Mola, cit., pag. 487;
  5. Aldo Alessandro Mola, cit., pag. 507;
  6. Peter Tompkins, Dalle carte segrete del Duce, cit., pag. 69;


Fonte: http://radiospada.org/

Sacra Sindone, parla il Fisico dell’ENEA: 'Vi svelo la verità'

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Nel novembre 2011 il fisico e dirigente di ricerca presso l’ENEA di Frascati, Paolo Di Lazzaro, ha presentato in anteprima uno studio scientifico svolto sulla Sacra Sindone, concentratosi sulla formazione dell’immagine. La conclusione è stata la presa di coscienza che oggi la scienza non è in grado di spiegare come si sia formata l’immagine corporea sulla Sindone, facendo diventare dunque non ragionevolel’ipotesi di un falsario medioevale. Soltanto utilizzando la luce UV e VUV di un laser eccimero impulsato della durata di alcuni miliardesimi di secondo, si è potuto colorare il lino in modo similsindonico.
Nel 2012 è stato pubblicato un altro studio, realizzato dal dott. Giuseppe Baldacchini, fisico e già dirigente presso il Centro di Ricerca ENEA di Frascati. Egli ha riconosciuto che «accurati studi condotti con il metodo scientifico hanno dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che non si tratta di un falso, ed inoltre l’ipotesi più accreditata chiama in causa un processo energetico radiante compatibile con la Resurrezione».  Nell’introduzione si è soffermato sulla storia delle religioni, evidenziando come «il Cristianesimo è alla basedella nascita della civiltà occidentale e del metodo scientifico». Se non vi sono prove per capire quale delle tante religioni sia quella vera, «la Sindone di Torino può dare una risposta a questo quesito, ed è singolare il fatto che le prove che lo dimostrano vengano dalla Scienza che spesso è contrapposta alla Religione, mentre non c’è confitto tra queste due categorie mentali dell’uomo». Il dott. Baldacchini ha quindi riflettuto sul fatto che«numerosi studiosi hanno messo in dubbio la validità delle misure con il 14C perché i campioni utilizzati per la misura non erano rappresentativi della Sindone e/o sono stati contaminati», una datazione molto probabilmente pilotata come ha mostrato un recente documentario.
Nella prima parte dello studio è stata confutata la tesi secondo cui la Sindone sarebbe un’opera artistica, in quanto «negli ultimi decenni è stato scoperto che l’immagine corporea non è un disegno o una pittura eseguita con tecniche conosciute, e alcune macchie rossastre sono state causate da sangue umano». La Sindone, altrimenti, sarebbe stata «realizzata dal più geniale falsario mai apparso sulla Terra e ancora oggi sconosciuto», il quale avrebbe dovuto conoscere «alcune tecnologie o informazioni prima della loro invenzione e divulgazione […] non poteva essere a conoscenza di scoperte moderne sia perché le tecniche a disposizione a quel tempo non permettevano di eseguire una simile opera dal punto di vista macroscopico e microscopico». Ma chi sostiene questa tesi, assume una posizione irragionevole, in quanto:
1) L’immagine corporea della Sindone è un falso negativo: tecnologia scoperta ed utilizzata nella fotografia solo nel 1850.
2) I chiodi sono infissi nei polsi dell’uomo della Sindone: ma in tutte le rappresentazioni antiche della crocifissione i chiodi sono piantati nelle mani, anche se in questo modo il corpo non poteva rimanere appeso in croce. L’ipotetico falsario medioevale non poteva saperlo o comunque non avrebbe avuto motivi per contraddire le rappresentazioni della tradizione, rischiando così di dare adito a sospetti.
3) L’immagine della gamba sinistra è più corta della destra: una conseguenza del metodo di inchiodatura dei piedi e della rigidità cadaverica repentina, due aspetti sconosciuti nel Medioevo, essendo stati scoperti solo in tempi recenti.
4) Sul lato destro della cassa toracica c’è una grande macchia di sangue e siero: nessun ipotetico falsario medievale poteva sapere che ciò è una conseguenza della morte istantanea per rottura della parete del cuore, una scoperta recente della medicina.
5) Le macchie di sangue sono nette e sotto di esse non c’è immagine corporea: queste caratteristiche sono incompatibili con un’opera artistica.
6) Ci sono numerose macchie di sangue sulla fronte e sulla calotta cranica: la rappresentazione tradizionale di Gesù è sempre stata con una corona di spine mentre le ferite sulla Sindone presuppongono un casco di spine, un fatto sconosciuto fino a tempi recenti. Nessun falsario, ancora una volta,avrebbe avuto motivi per contraddire di punto in bianco la rappresentazione tradizionale.
7) L’immagine corporea è assente in alcuni punti quali la parte destra della faccia e della fronte e altre parti del corpo: solo recentemente se ne è spiegata la ragione che è collegata alle formalità rituali della sepoltura.
8) L’immagine corporea contiene informazioni tridimensionali: i dipinti e le foto sono generalmente piatti e, a parte le difficoltà tecniche di riproduzione, non si spiegano i motivi che possono aver indotto l’ipotetico falsario a creare un simile effetto, inutile e sconosciuto nella storia dell’arte.
9) L’immagine corporea è estremamente superficiale e consiste di fibrille colorate giallo-seppia che risultano ossidate e disidratate: per le tecniche chimiche e fisiche antiche conosciute non sarebbe stato possibile, mentre esiste una tecnica optoelettronica moderna compatibile.
Si deduce, dunque, che «la Sindone non è un falso e tanto meno medievale, ed ha contenuto realmente il corpo morto di un uomo crocifisso in tempi antichi».
L’altra ipotesi è che la Sindone abbia contenuto un corpo di uno sconosciuto, non quello di Gesù, anch’esso crocifisso nello stesso modo più o meno alla stessa epoca. Una tesi ancora una volta irragionevole, perché:
1) Il lenzuolo funebre utilizzato per avvolgere il cadavere era pregiato e costoso: simili lini venivano utilizzati in Israele solo per persone di rango reale e/o posizione sociale elevata, ed in questo caso la storia ne avrebbe parlato.
2) L’uomo della Sindone è stato fustigato metodicamente su tutta la superficie del corpo: ci sono segni evidenti di flagello romano in numero così elevato che, a parte i Vangeli, nessun documento storico li ha mai riportati per qualsiasi altro condannato.
3) L’uomo della Sindone è stato incoronato con una corona/casco di spine: ci sono segni evidenti delle ferite delle spine e non si conoscono storicamente altre crocifissioni avvenute con questa aggiunta singolare.
4) Il costato è stato trafitto da una lancia: c’è una vistosa macchia di sangue e siero nel fianco destro dell’uomo causata da una ferita da lancia, un fatto piuttosto irrituale.
5) Le gambe dell’uomo della Sindone sono integre, mentre quelle dei condannati alla crocifissione venivano generalmente rotte per affrettarne la morte, che sarebbe avvenuta solo molto più tardi per soffocamento.
6) La Sindone non contiene tracce di liquidi e gas putrescenti: questi segni sono prodotti dopo circa 40 ore dalla morte, e quindi il corpo non c’era già più prima di allora ma non troppo prima, per via delle macchie di sangue che hanno richiesto del tempo per formarsi per la liquefazione del sangue già coagulato, processo di emolisi.
7) Il corpo non è stato rimosso manualmente: non ci sono tracce di trascinamento in corrispondenza delle macchie di sangue.
Secondo l’ipotesi del falso, si dovrebbe supporre che «un’altra persona sia stata sottoposta alla stesse torture del Gesù descritto dai Vangeli, tenendo conto però che nessuno all’epoca conosceva le conseguenze di tali azioni, e che sarebbe stato praticamente impossibile riprodurre le stesse condizioni temporali e spaziali». La spiegazione più logica è che «la Sindone è stata realmente il lenzuolo utilizzato per coprire il cadavere di Gesù circa 2.000 anni fa, dopo essere stato flagellato e crocifisso in una città della Galilea chiamata Gerusalemme, come è stato descritto nei Vangeli canonici».

Rispetto alle ipotesi scientifiche sulla formazione dell’immagine, «quella della esplosione di energia radiante (REB) è la più credibile attualmente, e la sua variante AMA (annichilazione materia-antimateria) risolve alcune difficoltà non altrimenti superabili». Attualmente, «l’unico modo di spiegare la Sindone nella sua interezza è che l’uomo descritto dai Vangeli come Gesù Cristo abbia subito un processo di annichilazione quando era cadavere e avvolto nella Sindone». Baldacchini riflette che «se la Resurrezione è realmente avvenuta allora, secondo la mia opinione, deve anche essere stato come per la creazione dell’universo. Infatti l’inizio del Big Bang può essere considerato un evento casuale (dagli agnostici) o sovrannaturale (dai credenti), ma il suo sviluppo è sicuramente avvenuto seguendo le leggi della Fisica, che molto probabilmente sono nate come le conosciamo oggi nel momento stesso del Big Bang. Quindi anche alla Resurrezione si può applicare lo stesso modello di una causa iniziale casuale o sovrannaturale, seguita poi da eventi spiegabili con le leggi della Fisica».
In conclusione, il fisico dell’ENEA ha affermato: «la Sindone di Torino è un testimonio muto della Resurrezionedi Gesù Cristo, che quindi è realmente il figlio di Dio come più volte egli stesso ha asserito personalmente. Ma allora anche quello che ha detto, e che in parte ci è stato tramandato nei Vangeli e dalla tradizione della Chiesa, sulla vita e sulla morte è importante per noi».

Fonte - http://radiospada.org/

Inquisizione: organo di garanzia e tutela della tranquillità degli Stati

Inquisizione: organo di garanzia e tutela della tranquillità degli Stati
 
INQUISIZIONE (dal lat. inquisitio = ricerca, indagine): giuridicamente indica una nuova procedura introdotta all’inizio del secolo XIII.
Secondo il diritto romano tutti gli atti del processo criminale si svolgevano in una completa pubblicità; la Chiesa si attenne al medesimo principio fino a tutto il secolo XII. Fu Innocenzo III (+ 1216) che, constatando come la pubblica accusa fosse divenuta fiacca e prestasse occasione a crudeli vendette, stabilì che alcuni atti del processo canonico si svolgessero in segreto.
Al complesso di questi atti si diede il nome di inquisitio, cioè istruttoria segreta.
Storicamente indica il famoso tribunale istituito da Gregorio IX verso l’anno 1231, nel quale funziona un giudice speciale detto «inquisitor haereticae pravitatis» che si distingue dai giudici ordinari per le seguenti caratteristiche:
  1. gode di una giurisdizione variabile quanto al territorio, limitata, quanto alla materia, alle sole cause di eresia ostinata;
  2. ha una delega pontificia permanente;
  3. che non annulla la potestà ordinaria dei vescovi sulla stessa materia. Inquisitore e vescovo sono due giudici paralleli in questioni concernenti l’eresia.
Il carattere specifico del giudizio inquisitoriale non è costituito né dal delitto, né dalla procedura, né dalla penalità (il rogo), cose più o meno comuni a tutti i giudizi civili ed ecclesiastici del tempo, ma si individua nel fatto che l’inquisitore era un giudice eccezionale, sebbene munito di delega permanente.
Il motivo che indusse il Papa a creare questo tribunale d’eccezione fu la politica religiosa di Federico II che, prima di Filippo il Bello, «portò nel tempio le cupide vele» costituendosi giudice arbitrario degli eretici [comprendiamo l’importanza dell’Inquisizione come organo di garanzia contro gli abusi dei tiranni a discapito del popolo, NdR]
Gregorio IX con il nuovo tribunale praticamente fissò i limiti della competenza imperiale in materia religiosa e separò nettamente le responsabilità della Chiesa da quelle dello Stato.
La procedura dell’inquisizione ne mostra l’intima natura: appena l’inquisitore era entrato in possesso della sua carica bandiva il tempo di grazia, che consisteva in una predicazione che durava un mese. I rei confessi, dietro promessa e garanzia di rinunziare all’eresia, erano liberi da ogni ulteriore inchiesta.
Le denuncie contro gli eretici venivano messe a verbale e poi comunicate all’imputato tacendo il nome dei testi, per evitare vendette e rappresaglie.
L’accusato era invitato a difendersi personalmente, ma non poteva valersi di un avvocato, in omaggio al diritto anteriore che proibiva agli avvocati di patrocinare le cause degli eretici; però godeva del diritto di appello al Papa, che era una vera valvola di scappamento!
Le pene erano molto varie. La più grave consisteva nella scomunica (separazione dal corpo della Chiesa) e nel conseguente rilascio al braccio secolare […] a cui la potestà civile, di propria autorità [la Chiesa ovviamente non si occupava dell’esecuzione, NdR], condannava l’eretico [talvolta al rogo, NdR], considerato allora come un delinquente che, con la professione di false teorie, tentava incrinare la unità religiosa e disturbare la tranquillità dello Stato [è importante far presente che l’eretico, come noto, sovente turba l’ordine sociale, dunque commette reato, all’epoca dei fatti era considerato opportunamente un comune delinquente, NdR].
L’Inquisizione funzionò così fino al 1542, quando Paolo III, dilagando l’eresia protestantica, rinnovò l’antico istituto accentrando tutto in Roma (Inquisizione Romana) con nuovi inquisitori cui era concesso il diritto di decisione in propria istanza di tutti gli appelli contro la procedura dei delegati.
Totalmente diversa è l’Inquisizione Spagnola istituita, per istanza di Ferdinado e Isabella, da Sisto IV (1478) per procedere giudizialmente contro gli apostati (ebrei, battezzati e recidivi), che diventò ben presto uno strumento di politica in mano dei re spagnoli.
Si è enormemente esagerato nell’attribuire a questo tribunale delitti e misfatti, di cui del resto non potrebbe essere incolpata la Chiesa.
Troppo volentieri si dimentica che grazie all’inquisizione la Spagna fu dapprima liberata dai nemici interni della sua fede e poi preservata dall’invasione del protestantesimo. Del resto osserva giustamente il Landrieux, per quanto gravi si suppongano gli eccessi dell’inquisizione spagnola non sono nulla in confronto delle persecuzioni feroci, delle orgie di crudeltà che Lutero scatenò in Germania e dopo di lui e a causa di lui Calvino a Ginevra, Enrico VIII ed Elisabetta in Inghilterra, Cristiano II in Danimarca, Gustavo Wasa in Svezia, Giovanni d’Albret in Navarra, gli Ugonotti e i Giacobini in Francia.
Su questo punto ha argutamente motteggiato Voltaire l’incomparabile apologista Giuseppe de Maistre nella lettera quarta sull’Inquisizione.
Tratto da Dizionario di Teologia Dommatica, 1952, Piolanti, Parente, Garofalo, Editrice Studium Roma, p. 181 ss.
 
Maggiori approfondimenti: clicca qui (contro le più comuni calunnie degli atei) – clicca qui (dati e statistiche su condanne, presunte torture, etc)
 
Digitalizzazione e ricerca a cura di CdP Ricciotti - Fonte : http://radiospada.org/

Sonetto del poeta Giuseppe Pari



Sonetto del poeta e precettore comasco Giuseppe Parini che celebra una importante vittoria delle truppe austriache nel 1793 durante le guerre contro la Francia rivoluzionaria . Il testo è una versione riadattata di un precedente componimento scritto in occasione della vittoria delle truppe imperiali sugli Ottomani.
L'avversione del poeta nei confronti della rivoluzione francese è da ricercare nella sua forte contrarietà alla violenza, che all'epoca imperversava con le correnti giacobine, e nella sua convinzione che un percorso riformatore, come quello che visse in epoca teresiana, potesse aiutare veramente il rinnovamento di uno stato.


Di Redazione A.L.T.A.