giovedì 31 ottobre 2013
LA CAVALLERIA MEDIEVALE.
La cavalleria è una delle più belle istituzioni nate dal seno della Chiesa nel medioevo. Essa non coincide esattamente con la nobiltà feudale, sebbene sia costituita prevalentemente da nobili e la maggioranza dei baroni feudali siano cavalieri, ma è un ordine distinto, nel quale i nobili si inseriscono mediante una cerimonia chiamata investitura. La nobiltà non è condizione assolutamente indispensabile per diventare cavaliere: vi sono casi di servi armati cavalieri, mentre certi nobili non giunsero mai ad appartenere a questa istituzione.
I gradi della cavalleria.
Come tutti gli ordinamenti medievali, anche l'istituzione cavalleresca ha una gerarchia. Al primo gradino vi è il paggio. Il futuro cavaliere generalmente inizia il suo apprendistato a sette anni. Il paggio, figlio di un nobile, si mette al servizio di un nobile di categoria superiore, imparando a badare al cavallo e a combattervi sopra.
Più o meno a 14 anni, il paggio diventa scudiero. A questo punto egli viene iniziato al maneggio delle armi, apprende le regole del combattimento e porta le armi e lo scudo del suo signore quando va in guerra.
Giunto a 21 anni viene armato cavaliere.
La cerimonia dell'investitura.
La cerimonia dell'investitura, detta anche "ordinazione cavalleresca", si svolge generalmente in una chiesa, altre volte in un castello feudale o, ancora, in pieno campo di battaglia. Il giovane Don Enrique, ad esempio, fu armato cavaliere sul campo di battaglia per aver compiuto atti di valore straordinari nella conquista di Ceuta.
La sera precedente la cerimonia, il candidato digiuna, si confessa e passa la notte in orazione durante la cosiddetta "veglia delle armi". L'ordinazione del cavaliere giunse ad essere considerata come un ottavo sacramento ma la Chiesa la considerò sempre al massimo come un sacramentale.
La cerimonia comincia con la celebrazione del Sacrificio Eucaristico. Nell'omelia il sacerdote ricorda gli obblighi che il cavaliere sta per assumere, poi benedice le armi che fra poco gli saranno consegnate. Di solito il padrino è il signore feudale della regione, che, seduto col futuro cavaliere davanti a sè in ginocchio, lo interroga in merito alle sue disposizioni nell'assumere gli obblighi che la sua condizione di cavaliere gli impone; poi riceve il giuramento di obbedienza e quindi gli consegna pezzo per pezzo l'armatura, lasciando per ultima la spada. In Francia la cerimonia terminava con la cosiddetta "colèe": un gran colpo che il signore feudale dava sul collo del candidato, dicendogli: "sois preux", ossia "sii valoroso". Dopo ciò il nuovo cavaliere veniva acclamato a gran voce dai presenti.
Doveri del cavaliere.
Gli obblighi morali imposti al cavaliere mettono bene in luce il valore di questa istituzione. Essi sono: combattere per la fede, essere sottomesso al feudatario, mantenersi fedele alla parola data, proteggere i deboli, le vedove e gli orfani, combattere l'ingiustizia.
I poeti medievali fanno la descrizione del cavaliere ideale. Deve essere "puro di cuore, sano di corpo, generoso, dolce, umile e poco chiacchierone". In lui sono presenti le due massime qualità morali richieste ai nobili dell'epoca: coraggio e generosità.
In qualsiasi circostanza il cavaliere deve difendere la fede. Il giuramento di sostenere la fede in Gesù Cristo, trova la sua origine nell'abitudine di sguainare la spada alla lettura del Vangelo, in uso ai primordi della cavalleria. Con ciò si intendeva manifestare la disponibilità a spargere il proprio sangue in difesa della dottrina della Chiesa.
Ruolo storico del cavaliere.
Questa magnifica istituzione contribuisce molto alla fioritura di una delle virtù essenziali dell'epoca: il rispetto fra gli uomini. Il signore deve amare i suoi vassalli ed essi devono amarlo a loro volta; in questo modo, secondo l'espressione di un famoso storico, "mai il precetto divino 'amatevi gli uni gli altri' penetrava in modo tanto profondo il cuore degli uomini".
La fama delle straordinarie virtù del cavaliere corse anche al di fuori dei confini della Cristianità: mentre San Luigi IX, Re dei francesi, si trovava prigioniero dei mussulmani, uno dei loro capi, minacciandolo con le armi, chiese al santo di essere ordinato cavaliere: "Fatti cristiano", rispose il Re. Tale episodio spiega l'ammirazione che i nemici della Cristianità avevano per questa splendida istituzione.
La punizione del cavaliere corrotto.
Se un cavaliere violava le leggi della cavalleria, mancava al suo onore o tradiva il suo giuramento, veniva degradato. La cerimonia della degradazione era terribile. Il cavaliere indegno veniva condotto sulla piazza principale della città da un corteo di cavalieri vestiti a lutto. Ogni tanto il corteo si fermava e un araldo proclamava ad alta voce il crimine commesso. Giunti sul luogo della cerimonia, il reo veniva posto su un cavallo di legno dove gli si toglievano, uno ad uno, tutti i pezzi dell'armatura dinanzi al popolo riunito, che lo copriva di scherno. Un cavaliere degradato si riduceva in uno stato tale che finiva col cambiare città, non trovando più in alcun ambiente degli aiuti per vivere.
Corruzione e fulgore dell'ideale cavalleresco.
Il romanzo "don Chisciotte" di Cervantes, descrive una cavalleria decadente, romantica e sentimentale, dell'epoca dell'autore, allo scopo di ridicolizzare l'ideale del suo tempo. Nel XVII secolo, infatti, gran parte del nobile ideale di servizio alla società e alla verità, proprio dell'autentica cavalleria medievale, era già stato perduto.
Il più bel frutto della cavalleria fu la nascita degli ordini religiosi militari, o monastico-guerrieri, avvenuta nei primi anni del 1100, dei quali il grande S. Bernardo di Chiaravalle, scrisse:
"Un nuovo genere di milizia, dico, mai conosciuta prima di ora: essa combatte senza tregua e nello stesso tempo una duplice battaglia, sia contro i nemici in carne e sangue, sia contro le potenze spirituali del male nelle regioni dello spirito. Ed io, invero, non giudico tanto degno di ammirazione che resista valorosamente ad un nemico corporeo con le sole forze del corpo, ritenendola, anzi, cosa frequente. Ma anche quando col valore dell'anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che questo è degno di ammirazione, sebbene sia degno di lode dal momento che si vede il mondo pieno di monaci. Ma quando il guerriero e il monaco si cingono con vigore ognuno della sua spada e nobilmente vengono insigniti della loro dignità, chi non potrebbe ritenere un fatto del genere veramente degno di ogni ammirazione, fatto che appare del tutto insolito?. Ecco un combattente veramente intrepido e protetto da ogni lato, che come riveste il corpo di ferro, così riveste l'anima con l'armatura della fede. Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non teme nè il demonio nè l'uomo; non teme la morte, anzi la desidera. Difatti cosa potrebbe temere in vita o in morte colui per il quale Cristo è la vita e la morte un guadagno? Certamente sta saldo con fiducia di buon grado per il Cristo, ma desidera ancor più ardentemente che la sua vita sia dissolta per esistere in Cristo: perchè questa è in verità la cosa migliore.
Pertanto, avanzate sicuri, combattenti, e con animo intrepido respingete i nemici della Croce del Cristo, stando certi che nè la morte, nè la vita, potranno separarvi dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù; ripetendo a voi stessi a ragione in ogni pericolo: 'Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore' (Rom. XIV, 8). Con quanta gioia tornano i vincitori dalla battaglia! Quanto fortunati muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati, o forte, se vivi o vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii glorioso nella tua gloria se morirai e ti riunirai al Signore. La vita è certo fruttuosa e la vittoria gloriosa: ma a buon diritto è da preporre a entrambe la morte sacra. Infatti, se sono beati coloro che muoiono nel Signore, quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore!" (S. Bernardo, "De laude novae militiae ad milites templi", scritto fra il 1128 - data del concilio di Troyes, in cui fu approvata la Regola dei Templari- e il 1136, il testo completo si trova nella "Patrologia Latina" del Migne).
Fonte:
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IL FEUDALESIMO: IL CLERO, LA NOBILTA', IL POPOLO.
Decadenza dell'Impero carolingio.

Sfortunatamente i suoi successori non si mostrarono all'altezza dell'opera che il suo genio aveva realizzata: ambizioni personali, rivalità interne ed altro portarono la sua opera alla rovina.
Oltre ai problemi interni, anche fattori esterni contribuirono a distruggere l'Impero carolingio: le invasioni massicce dei saraceni dal sud, dei ferocissimi unni dall'est, e, peggio ancora, dei normanni venuti dal nord, che con le loro navi non solo saccheggiavano le coste, ma penetravano, attraverso i fiumi, anche nell'interno.
Queste orde devastavano città e villaggi, bruciando le chiese, distruggendo i campi e deportando intere popolazioni. Da ogni parte si vedono solo delle città rase al suolo fra le cui rovine vivono animali selvaggi. I soldati, incapaci di resistere, si uniscono agli invasori e saccheggiano con essi. L'autorità sovrana é completamente esautorata, le lotte private fra individui, famiglie e gruppi, si moltiplicano, i più forti si abbandonano alla violenza. Cessano il commercio, l'industria e l'agricoltura; costumi, leggi e istituzioni rovinano; non vi sono più legami sociali ad unire gli abitanti del paese: in questa immensa catastrofe lo Stato scompare.
Origine del feudalesimo. Il ruolo della famiglia.
Le popolazioni, fuggendo il terrore e il disordine, cercano rifugio all'interno delle foreste, sulle cime dei monti, in mezzo alle paludi, in luoghi inaccessibili, dove la crudeltà e l'avidità degli invasori non le possa raggiungere.
Città, villaggi e paesi, si disperdono e ciascuno fugge dove può. Ciascuno, o meglio, ogni famiglia. Poiché la famiglia é, in questo periodo, l'unica cellula sociale che rimane intatta: essa ha fondamento non nelle leggi, ma nell'ordine naturale e nel cuore umano; rinvigorita dalla forza soprannaturale della Grazia che la Chiesa le comunica, é l'unico baluardo che resiste all'impeto della barbarie. Da essa partirà l'opera di ricostruzione sociale dei secoli seguenti.
Nascosta per difendersi dai pericoli esterni la famiglia resiste, si fortifica e diventa più unita: animata dallo spirito cattolico che la vivifica, non si lascia schiacciare dalle avversità, ma reagisce. Obbligata a bastare a sé stessa, essa crea i mezzi per sostenersi e difendersi. Lo Stato non esiste più, la famiglia lo sostituisce e la vita sociale si rinchiude nei focolari. Piccola società, é dapprima isolata ma collegata con altre uguali ad essa, con le quali a poco a poco si raggruppa per formare le prime collettività: i feudi. Gli uomini che si rivelano più capaci, con le caratteristiche più idonee a perseguire il bene di tutti, prendono in modo naturale la direzione delle comunità, guidano la reazione contro i nemici e la natura ostile, organizzano la difesa e la vita comune. La gerarchia sociale e l'autorità rinascono spontaneamente: in una comunità fondata su famiglie, che diventa una famiglia più grande, il capo sarà come un padre comune che veglierà su tutti.
In questo piccolo mondo autonomo e autosufficiente, il capo é l'autorità suprema, colui che organizza il lavoro e la difesa. Egli è chiamato "sire" e la sua sposa "dama"; in seguito il gruppo prenderà il suo nome. La vita é semplice e frugale: si coltivano le terre dei dintorni e un'industria rudimentale, domestica, produce tutto il necessario per la sussistenza ed anche per offrire qualche comodità. Non vi é commercio: solo successivamente cominceranno gli scambi coi vicini. L'uomo cresce, lavora, ama, soffre e muore nel proprio luogo di nascita.
Questa famiglia allargata é, per i suoi membri, la vera Patria. Ognuno la ama intensamente perché vi è integralmente inserito e perché sente direttamente la sua forza, la sua dolcezza, la sua bellezza. Nascono anche profondi sentimenti di solidarietà tra i suoi membri: la proprietà degli uni andrà anche a beneficio degli altri, l'onore di uno sarà anche l'onore di tutti e il disonore di uno ricadrà su tutti. Il feudo diventerà lo stadio più evoluto dell'organizzazione sociale a base familiare.
La gerarchia feudale.
In una fase di successivo sviluppo il feudo riunisce il Barone (che vuol dire uomo forte) e la sua famiglia, i parenti prossimi, i vassalli nobili che lo aiutano (e ricevono in ricompensa, terre, responsabilità ed altri beni), il clero, e, infine, il popolo.
In definitiva si è di fronte ad una gerarchia molto varia e complessa, non all'autorità assoluta di un unico signore su una moltitudine di sudditi uguali. I nobili si ordinano in gradi interdipendenti; i lavoratori possono essere sudditi diretti del signore o di qualcuno dei suoi nobili o persino di un borghese, e questi può trovarsi alle dipendenze di questo o quel sovrano. Persino fra i servi vi è una gerarchia e varie subordinazioni, esistendo anche servi di altri servi.
Il rapporto di protezione e consacrazione esistente fra il signore e i suoi sudditi, va gradualmente stabilendosi anche tra i signori minori e quelli più potenti. I primi cominciano a raggrupparsi sotto l'autorità dei secondi con gli stessi legami di fedeltà che hanno verso i loro inferiori; anche i baroni, dopo i vassalli ed i servi immediati, diventano vassalli, pur conservando intatta la propria autorità sui loro uomini. Il signore feudale più importante, a sua volta si fa suddito di uno a lui maggiore, e, procedendo così, si forma un'enorme piramide di feudi diseguali, ordinati gerarchicamente in livelli progressivi, fino ad arrivare al barone supremo, il feudatario di tutti i feudatari, il signore feudale di tutti i signori feudali, il padre di tutti i padri: il Re, che dall'alto del suo castello veglia su tutti i feudi dei suoi vassalli e su tutta la nazione.
Elementi basilari del feudalesimo.
a) Il binomio fedeltà-protezione. L'essenza del feudalesimo é il binomio fedeltà-protezione, che riflette nell'ordine umano le relazioni fra l'uomo e Dio. Il superiore protegge l'inferiore fino a sacrificare la propria vita, e riceve da lui la promessa di fedeltà dei servizi. b) Il legame feudale. Il legame feudale genera tra il feudatario e il vassallo una relazione molto profonda. Il Re è la personificazione di tutto lo Stato, di tutta la società feudale. Se confrontiamo un nobile con un Re, vediamo nel primo una miniatura del secondo: il nobile è, su un piano minore, tutto ciò che il Re è su un piano maggiore. Se confrontiamo poi un nobile con un altro di categoria inferiore, vediamo che l'uno è la miniatura dell'altro, e così via, fino all'ultimo gradino della scala sociale. Vi è in seguito una ulteriore evoluzione: i Re di Francia, ad esempio, smembrano il loro regno in feudi, e danno ad ogni signore feudale una parte del potere regale di cui sono detentori. In questo modo il signore feudale non è solo una miniatura del Re, ma qualcuno che partecipa al potere del Re. Egli ha parte nel potere regale, ed è, per così una dire, un'estensione del Re. c) Diritti ed obblighi. Il legame feudale ha la sua origine in un patto feudale comprendente due cerimonie. - L'atto di fede ed omaggio: il vassallo si colloca in ginocchio davanti al signore, senza armi, e mette le sue mani in quelle del signore, con un gesto che significa abbandono, fiducia e fedeltà; si dichiara suo uomo e conferma la propria consacrazione verso la sua persona. In risposta, il signore fa alzare il vassallo e lo bacia. Questa cerimonia rappresenta la costituzione di un legame affettivo personale che, da quel momento, deve orientare le relazioni fra i due. In seguito vi è la cerimonia del giuramento: si giura sui Vangeli dando così all'atto un carattere sacrale.
- L'investitura: consistente nell'assegnazione solenne del feudo, fatta dal signore al vassallo tramite la consegna di un oggetto che simboleggia il feudo, per esempio un bastone o una lancia. Il patto feudale fissa gli obblighi reciproci: il barone deve ai suoi sudditi protezione, assistenza e difesa. Deve vegliare per tutti nei momenti difficili ed esercitare la giustizia in caso di contrasti. La sua autorità non è però assoluta: i costumi (le consuetudini) hanno nel feudo forza di legge scritta, e il barone non può, ammesso che lo voglia, revocare gli usi e modificare i diritti che la tradizione ha consacrato. La sua sposa è madre di tutti i sudditi, che aiuta e consiglia nelle loro necessità, dedicandosi specialmente all'educazione dei giovani fino al matrimonio. A loro volta i sudditi devono seguire il signore, chiedere il suo parere nelle questioni importanti come per sposarsi, così come il signore feudale dovrà chiederlo al nobile o al Re di cui egli stesso è vassallo. I sudditi più importanti collaborano col barone nell'amministrazione della giustizia e nei consigli che vengono riuniti per discutere qualche importante decisione. I doveri reciproci sono enunciati minuziosamente in giuramenti religiosi i cui testi si conservano ancora oggi. I vassalli vedono la fedeltà come un dovere, ma anche e ancora più come un beneficio: "la gente senza signore si trova in una non buona situazione", dice un proverbio dell'epoca.
Fonte:
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mercoledì 30 ottobre 2013
"Piacenza e la prima crociata"
Articolo apparso sul n. 250 di Cristianità
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Goffredo di Buglione. Difensore del Santo Sepolcro e Governatore di Gerusalemme. |
Se i luoghi comuni di carattere concettuale sono difficili da scalzare, sia perché costituiscono una sorta di "filosofia diffusa", l’unica riflessione diffusa, sia perché vanno sradicati con molta cautela in quanto somigliano ai proverbi — ma non li sono, ne sono anzi la contraffazione —, dal canto loro "sapienza diffusa", la resistenza offerta dai luoghi comuni storici è decisamente maggiore.
Sono indotto a fare questa considerazione dalla lettura di un piccolo volume — centocinquantotto pagine con numerose illustrazioni anche a colori —, una collettanea di studi storici occasionati dal novecentesimo anniversario dell’indizione della prima crociata. Si tratta di un’opera che difficilmente raggiungerà il grande pubblico, in quanto votata a entrare forse nelle biblioteche pubbliche, certamente nella biblioteca di storici locali e in quella di destinatari occasionali e di raccoglitori metodici di strenne. Infatti, il suo titolo suona Piacenza e la prima crociata, ed è pubblicata dalle Edizioni Diabasis di Reggio Emilia per conto della Banca di Piacenza (1), il cui presidente, l’avvocato Corrado Sforza Fogliani, nella presentazione la qualifica "contributo originale [...] all’approfondimento di un avvenimento di eccezionale importanza (che anche giudizi affrettati — e alla moda per non dire secondo moda — non riescono a scalfire [...])" (2), nonché "un punto fermo, d’ora in poi imprescindibile per ogni serio studioso" (3). Tollerabile — o intollerabile — retorica, espressione obbligata e ridondante di autoapprezzamento? Né l’una né l’altra. Infatti, l’avvocato Corrado Sforza Fogliani è nazionalmente noto come battagliero difensore del diritto di proprietà nel settore immobiliare in qualità di presidente della Confedilizia piuttosto che come presidente di un istituto bancario locale, ma è anche, da sempre, cultore di storia locale, quindi in grado di esprimere un giudizio non superficiale. Però — insisto senza far torto a nessuno, come appare immediatamente chiaro — si tratta di un’opera destinata a pochissimi lettori e a moltissimi raccoglitori di libri strenna, come segnala implicitamente, ma inequivocabilmente, la mancanza dell’indicazione del prezzo, nelle recensioni o nei repertori dei "libri ricevuti" consuetamente siglata in s.i.p., "senza indicazione di prezzo", una sorta di "marchio" che ne segna l’inesorabile destino. Ne parlo per evitare in qualche modo questo destino, questa destinazione che non mi pare giusta. Evidentemente non intendo perorare la causa di tutte le pubblicazioni locali e di tutti i libri strenna, anche se meriterebbero si spezzasse una lancia in loro favore. Ma credo di poter affermare, senza che mi faccia velo l’amore per la mia piccola patria — certo non inesistente ma, nel caso, non determinante in quanto essa è quasi solo occasione dell’opera —, che si tratta di testo meritevole di ben maggiore diffusione. E questo per la qualità dei collaboratori — un vero bouquet, visto che sono per la maggior parte francesi —, per la felicità delle sintesi e per le "novità" che presentano.
Comincio dai collaboratori. A illustrare il tema sono, sotto la guida sapiente di Pierre Racine, docente di Storia Medievale all’Università di Strasburgo e massimo storico vivente di Piacenza nell’età medioevale, sì da meritarne la cittadinanza onoraria, lo stesso Pierre Racine; quindi Jean Flori, direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique — il CNR francese — nonché collaboratore del Centre d’Études Supérieurs de Civilisation Médiévale, di Poitiers; Jacques Heers, docente emerito di diverse università di Francia e d’Algeria, cultore della storia di Genova e del quale nel 1995, a cura di Marco Tangheroni e per i tipi di Jaca Book, è stata tradotta in italiano la monumentale ricerca La città nel Medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti (4); Jean Richard, dell’Institut de France, già docente di Storia Medievale nell’Università di Borgogna, a Digione; Pierre Maraval, docente di Storia dell’Antichità Cristiana nella Facoltà di Teologia Protestante dell’Università di Scienze Umane, di Strasburgo; e, finalmente, Giancarlo Andenna, docente di Storia Medievale nella sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Quanto alle "novità" cui ho accennato, mi limito a segnalare il fatto che, se la prima crociata è stata indetta in termini canonici a Clermont, in Francia, nel novembre del 1095, è però stata annunciata per la prima volta, in qualche modo anticipata, in occasione del Concilio di Piacenza, tenutosi nella Quaresima dello stesso anno e che — sia detto di passaggio — ha visto la partecipazione di ben trentamila laici.
Vengo ai contributi. Jean Richard descrive L’Occidente prima delle crociate (5), Giancarlo Andenna La società lombarda e la prima crociata (6), Jacques Heers Le implicazioni economiche della prima crociata (7), e Pierre Racine, oltre a introdurre (8), a concludere (9) — indicando il carattere del volume, "[...] non una nuova storia della Prima Crociata, ma degli "strumenti" per capire ciò che fu questa grande spedizione" (10) —, e a proporre una bibliografia essenziale (11), illustra i rapporti fra I Lombardi e la prima crociata (12). Ma rilievo particolare hanno, nell’ottica in cui mi sono posto, gli studi di Jean Flori, che espone L’idea di crociata (13), e di Pierre Merval, che mette a fuoco I pellegrinaggi dei cristiani nei luoghi santi della Palestina prima delle crociate (14).
Il contributo di Jean Flori è percorso da fastidiosi atteggiamenti ideologici quanto al problema della valutazione della professione militare e della guerra nel primo cristianesimo e in quello medioevale, e contiene un riferimento di dubbia precisione a un documento di Papa Giovanni VIII (15); inoltre, la sua traduzione — insieme a mende di minore o maggior rilievo presenti anche in altre parti del volume — comporta purtroppo due "non" in più, che ledono il senso dell’esposizione (16). Nonostante ciò vi si descrive in ultima analisi felicemente l’incontro fra la Chiesa e la categoria dei guerrieri, e vi si propone, a proposito della crociata, l’interpretazione di essa come pellegrinaggio armato, anche se mi pare che l’autore non valuti adeguatamente, accanto all’"evoluzione delle mentalità" (17), lo sviluppo della dottrina a fronte di situazioni diverse.
E appunto di diversissime situazioni fa stato lo studio che segue quello di Jean Flori, cioè la fondamentale ricerca di Pierre Merval, che nota come i cristiani, nei primi tre secoli, fossero adepti di "[...] una religione non autorizzata, talvolta esposta alla persecuzione: ciò spiega anche come i fedeli non possano, anche se lo desiderassero, manifestare un particolare interesse per dei luoghi e recarvisi a scopo di culto" (18). Quindi periodizza adeguatamente la pratica del pellegrinaggio dal secolo IV al VI, "la grande epoca del pellegrinaggio" (19), poi dal secolo VII al X, quando il pellegrinaggio ai Luoghi Santi si fa più difficile, ma non impossibile, a causa dell’irruzione dell’islam. Si tratta di un tempo d’incertezza cui fa seguito una schiarita nella prima metà del secolo XI, quindi, nella seconda metà dello stesso secolo, "la presa di Gerusalemme da parte dei Selgiukidi nel 1071 — scrive — procurò alla città nuove distruzioni; poi essa fu di nuovo occupata dai Fatimidi nel 1098. È noto che la risonanza di questi fatti e dei massacri che li seguirono e l’emozione che suscitarono in Occidente ebbero un ruolo essenziale nell’organizzazione della prima crociata" (20). Ecco fondata nei fatti storici la ragione della crociata, conferma di quanto scritto negli anni Ottanta da monsignor Giorgio Fedalto in Perché le crociate. Saggio interpretativo (21). Ma, se tali fatti sono, almeno in tesi, noti agli storici, certo non hanno spazio adeguato né nei libri scolastici di storia né, tanto meno, sono tenuti in qualche considerazione dagli operatori dei mass media, autentici "turchi di professione", come venivano chiamati in Algeria — nella prima metà del secolo XIX — gli europei che, per premunirsi contro i mutamenti d’umore dei musulmani, di cui ogni tanto gli "infedeli" pagavano le spese, si convertivano all’islam (22). Infatti, questi "turchi di professione" fanno eco sui mass media occidentali all’"intellighenzia" islamica che, al problema "da dove il "ritardo islamico" nei confronti della civiltà occidentale?", non pratica l’autocritica e risponde criminalizzando la crociata. Mentre questa fu soltanto un pellegrinaggio, intrapreso dai cristiani quando, finalmente usciti dalle catacombe, poterono andare a visitare i luoghi santificati dalla presenza terrena del Signore Gesù; e questo pellegrinaggio divenne armato quando ne furono gravemente ostacolati. Senza mettere in gioco la fede altrui, ma limitandosi a manifestare coraggiosamente la propria.
Giovanni Cantoni
* Articolo anticipato, senza note e con il titolo Le ragioni di quel pellegrinaggio armato, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLV, n. 2, 3-1-1996, p. 17.
(1) Cfr. Pierre Racine (a cura di), Piacenza e la prima crociata, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1995.
(2) Ibid., p. 7.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. Jacques Herrs, La città nel Medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti, trad. it., a cura di Marco Tangheroni, Jaca Book, Milano 1995.
(5) Cfr. P. Racine (a cura di), op. cit., pp. 51-66.
(6) Cfr. ibid., pp. 67-88.
(7) Cfr. ibid., pp. 103-123.
(8) Cfr. ibid., pp. 9-10.
(9) Cfr. ibid., pp. 125-128.
(10) Ibid., p. 10.
(11) Cfr. ibid., pp. 153-154.
(12) Cfr. ibid., pp. 89-101.
(13) Cfr. ibid., pp. 15-33.
(14) Cfr. ibid., pp. 35-50.
(15) Cfr. ibid., p. 21, dove viene attribuita a Papa Giovanni VIII, in una lettera dell’879 ai vescovi dell’impero, l’espressione "contra paganos atque infideles", contenuta invece nel regesto di una lettera dell’876 all’imperatore Carlo il Calvo (PL 126, col. 816), pure richiamata precedentemente.
(16) Cfr. "non erano i "soldati di Cristo" (milites Christi)" (p. 15), e "non si comporta perciò da malicida" (p. 32), da leggere senza le negazioni.
(17) Ibid., p. 15.
(18) Ibid., p. 35.
(19) Cfr. ibid., pp. 35-40.
(20) Ibid., p. 47.
(21) Cfr. Giorgio Fedalto, Perché le crociate. Saggio interpretativo, Pàtron, Quarto Inferiore (Bologna) 1980; cfr. la recensione di Marco Tangheroni, in Cristianità, anno XIII, n. 118, febbraio 1985, pp. 7-8.
(22) Cfr. Jean-Pierre Péroncel-Hugoz, Le radeau de Mahomet, Flammarion, Parigi 1984, p. 11.
Gli Ottocento Martiri di Otranto
A cinquecento anni dalla loro testimonianza
Tratto da Cristianità n. 61, maggio 1980
di
Alfredo Mantovano
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Reliquie dei Martiri di Otranto conservate nella Cattedrale della Città. |
Nel 1980 ricorre l’anniversario di due eventi di non lieve importanza nella storia della Chiesa e della Cristianità: il quindicesimo centenario della nascita di san Benedetto, patrono d‘Europa, e il quinto centenario dell’eroica resistenza opposta da Otranto ai turchi e del martirio dei suoi abitanti. Sono due episodi che sembrano tracciare storicamente i confini di quel lungo periodo correntemente definito Medioevo, quasi a indicare il termine iniziale e quello finale di un’epoca che «è stata la realizzazione, nelle condizioni inerenti ai tempi e ai luoghi, dell’unico vero ordine tra gli uomini, ossia della civiltà cristiana» (1).
La connessione che si può agevolmente stabilire tra le due date non appare forzata: infatti, l’organizzazione e la struttura date all’Europa dall’opera di san Benedetto, che hanno permeato di sé lo sviluppo della seguente civiltà cristiana, sopravvivono e trovano mirabile espressione nella estrema testimonianza di fede offerta dagli otrantini mille anni dopo la nascita del fondatore di Montecassino, quasi a suggellare, con un gesto significativo un’epoca che tramontava.
Però, per meglio comprendere il martirio di Otranto è opportuno inquadrarlo nel tempo in cui è avvenuto e nella tradizione e nella civiltà che lo precedono, la cui conoscenza appare utile a spiegare il motivo per cui l’intera popolazione di una città ricca e fiorente preferisce la morte piuttosto che rinnegare la propria fede.
Quali sono, dunque, gli eventi che precedono l’episodio considerato? Come si giunge a esso? E' indispensabile esporre, sia pure sinteticamente, gli avvenimenti degli anni a esso antecedenti, per inquadrare come merita ciò che accadrà sul colle della Minerva, a poche centinaia di metri da Otranto, la mattina del 14 agosto 1480.
Il tramonto del Medioevo
Gli anni che seguono la metà del secolo XV, come già quelli immediatamente precedenti, non sono anni felici per la Cristianità, che appare dilaniata da lotte e rivalità intestine, da scontri tra fazioni, da incrinature all’interno della stessa Curia pontificia, in definitiva, da una crisi che, prima ancora di essere politica, è di valori che si vanno spegnendo.
La civiltà cristiana, maturata per lunghi secoli, aveva trovato il suo apogeo nel Duecento, in quegli anni durante i quali «giammai forse la Sposa di Cristo aveva regnato con un impero così assoluto sul pensiero e sul cuore dei popoli» (2). Leone XIII ha descritto con toni magistrali i caratteri del periodo: «Fu già tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato; quando la Religione di Gesù Cristo posta solidamente in quell’onorevole grado, che le conveniva, traeva su fiorente all’ombra del favore dei Prìncipi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il Sacerdozio e l’Impero, stretti avventurosamente tra loro per amichevole reciprocanza di servigi. Ordinata in tal guisa la società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti storici, che niuno artifizio dei nemici potrà falsare od oscurare» (3).
La Cristianità, dunque, non era «soltanto l’appartenenza alla religione cristiana», né «soltanto il territorio occupato dai battezzati», ma era «la comunità, vivente, organicamente costituita, di tutti coloro che, dividendo le stesse certezze spirituali, vogliono che tutta la società umana si ordini secondo la loro fede» (4).
Varie furono le cause che determinarono il venir meno dell’unità spirituale di questo mondo: il progressivo affermarsi della monarchia sulla nobiltà, preludio di quella tendenza che sfocerà nell’assolutismo; il sorgere delle nazioni e, quindi, la perdita di prestigio del simbolo dell’unità politica rappresentato dall’imperatore; le divisioni all’interno della stessa gerarchia ecclesiastica e la decadenza del clero (5). Ma, al fondo di tutto ciò, vi è un elemento comune, che fa da filo conduttore delle vicende di quei decenni, un elemento che ha le radici all’interno dell’animo umano, e della cui presenza sono chiari segni rivelatori la comparsa delle prime eresie «protestanti» (Wiclef, Huss) e soprattutto la diffusione nelle corti e nei circoli accademici del pensiero sedicente umanista: l’insinuarsi, progressivo ma costante, dei primi germi rivoluzionari.
«I cuori si distaccano a poco a poco dall’amore al sacrificio, dalla vera devozione alla Croce e dalle aspirazioni alla santità e alla vita eterna. [...] Questo clima morale, penetrando nelle sfere intellettuali, produsse chiare manifestazioni di orgoglio, come per esempio il gusto per le dispute pompose e vuote, per i ragionamenti sofistici e inconsistenti, per le esibizioni fatue di erudizione, e adulò vecchie tendenze filosofiche, delle quali la Scolastica aveva trionfato, e che ormai, essendosi rilassato l’antico zelo per l’integrità della fede, rinascevano sotto nuove forme» (6).
Leon Battista Alberti, e altri insieme a lui, arriveranno a proclamare «il divorzio della società civile dalla società religiosa» (7); tra i principi e i nobili lo spirito pagano di quello che viene definito Rinascimento sostituisce quello cristiano: al concetto religioso del «meritare», che informava di sé la vita dell’uomo medievale, si sostituisce quello pagano del «godere» (8).
La Guerra dei Cent’anni e lo Scisma d‘occidente contribuiscono, poi, alla rovina dell’unità politica e spirituale costruita nel Medioevo. La prevalenza dell’elemento mondano non lascia immune neanche la Curia pontificia: «la vita spirituale, che doveva informare ogni attività ecclesiastica, veniva meno negli uomini e negli istituti. I pontefici sono sovrani temporali abilissimi, protettori della scienza e dell’arte, splendidi anche nelle manifestazioni esteriori del culto, maestri nell’arte della politica e della guerra, ma non sempre alcuni di essi furono buoni pastori delle anime e personalmente santi, come il loro nome e la loro dignità dovevano pretendere» (9).
Il legame con la civiltà cristiana permane nella gente umile
Tuttavia, se i valori del Medioevo sono traditi e disprezzati nelle corti, nella gente semplice, pur avvertendosi il mutato clima e la pesantezza e la gravità della nuova situazione (10), permane la fedeltà a quegli stessi valori, che si esprime, sul piano religioso, con manifestazioni di grande pietà e devozione, e sul piano sociale con la sopravvivenza di un fervido spirito di crociata, restio a scomparire.
Nel 1450 viene celebrato a Roma l’Anno Santo: in contrapposizione ai disordini dell’assemblea di Basilea, all’orgoglio dei docenti universitari e all’avarizia dei politicanti [...], il popolo cristiano mostrò in occasione di quell’Anno Santo 1450 lo spettacolo di uno straordinario rinnovamento di fede e di pietà» (11). Ma già prima si era sviluppata nella gente umile, in misura sempre maggiore, la pratica delle processioni e soprattutto del culto di Gesù-Ostia; i pellegrinaggi si erano moltiplicati e i grandi santi che illuminano quegli anni sono, al tempo stesso, causa ed espressione dì questa rinnovata religiosità popolare: san Vincenzo Ferreri e san Bernardino da Siena incantano le folle con la loro predicazione, i francescani e i domenicani percorrono senza sosta le strade d’Europa, santa Caterina da Siena scuote i principi e il Papa, san Francesco di Paola ammonisce l’Occidente e non abbandonare la difesa della fede, il beato Alain de la Roche predica e diffonde i1 santo Rosario, santa Giovanna d’Arco testimonia eroicamente lo spirito di un’epoca.
«Uno dei segni più espressivi della sopravvivenza dell’idea di Cristianità negli spiriti è fornito dalla permanenza del desiderio della Crociata. Nei bei giorni in cui la Cristianità era ancora in pieno vigore, la Crociata era stata la manifestazione politica più evidente della sua grandezza: i battezzati, lanciandosi alla riconquista del Santo Sepolcro. avevano preso coscienza dell’unità profonda che esisteva tra loro, al di là delle loro vane contese di peccatori, e ne avevano fornito la prova». In quel periodo, «per ”alzare il gonfalone della Santa Croce” [...] si videro più volte arrivare ad Avignone vere folle, sul tipo delle prime bande di Pietro l’Eremita, che supplicavano il Papa di mettersi a capo della santa avventura» (12).
Il pericolo turco
Ma il pericolo maggiore per l’Europa proviene da Oriente; alla fine del secolo XIII dal mosaico degli emirati islamici era emersa, e si era imposta, la tribù turca degli Ottomani, raccolta da Osman (Othman), la quale, nei primi anni del secolo XIV, inizia quell’espansione nell’Asia Minore che la porterà in breve tempo a elevarsi al rango di temibile potenza.
Nel 1451 sale sul trono il giovane sultano Maometto II, «di soli ventun anni, esile e pallido, dal naso curvo e dalla barba nera» (13), il cui principale assillo è la conquista di Bisanzio; l’impresa sarà portata a termine il 29 maggio 1453, dopo un furioso assedio condotto da un esercito di 260 mila turchi contro poco più di cinquemila difensori asserragliati nella capitale dell’impero, assedio nel quale perde la vita combattendo sugli spalti l’ultimo imperatore d‘oriente, Costantino XI Dragoses.
«In tutta la Cristianità, la caduta di Costantinopoli produsse un’immensa emozione. Sfuggito per miracolo alla catastrofe, il cardinale legato Isidoro [...] tornò a Roma e raccontò i fatti orribili di cui era stato testimone. I suoi presagi circa l’avvenire del mondo cristiano erano neri: i Turchi, che niente più ormai poteva fermare, avrebbero continuato la loro avanzata verso l’Ovest: domani sarebbero comparsi in Italia» (14). Le responsabilità dei principi e dei sovrani occidentali per la caduta di Costantinopoli erano notevoli; già Urbano V (1362-1370), di fronte al pericolo turco, quasi un secolo prima aveva chiamato la Cristianità alla crociata, ma inutilmente, e altrettanto vani furono gli appelli e le richieste di aiuto fatte dai vari imperatori di Bisanzio (15). Ad analogo risultato furono destinati, dopo la caduta di Costantinopoli, gli sforzi di Callisto III (1455-1458), il quale «vide la sua vocazione quasi esclusivamente nel salvare il mondo cristiano e la civiltà occidentale dall’inondazione dell’Islam», ma «il fuoco di quel nobile entusiasmo che una volta aveva armato tutto l’occidente per la liberazione del S. Sepolcro, sembrò spento negli stati d’Europa divisi da intestine discordie» (16).
Il suo successore, Pio II, convoca a Mantova, nel 1459, un congresso al quale invita tutti gli Stati cristiani e nel discorso inaugurale delinea lucidamente le loro colpe di fronte all’avanzata turca (17), ma benché sia decisa la guerra, questa non segue, tra l’inerzia generale, per l’opposizione di Venezia e per l’indifferenza della Francia e della Germania. A tale cecità e indolenza per le sorti della Cristianità contribuisce, e non poco, il diffondersi del paganesimo rinascimentale, e, mentre il signore di Rimini, Sigismondo Malatesta, trasforma la chiesa gotica riminese di San Francesco in un tempio pagano, adornandolo con le statue degli dei dell’Olimpo e con simboli certamente poco cristiani, l’individualismo e l’egoismo sfrenati, risultati ovvii della diffusione del «pensiero moderno», trasformano l’Italia in un terreno di scontro tra principi, duchi e fazioni. Ciò mentre i musulmani continuano a conquistare terre cristiane, occupando nel 1470 anche l’isola di Negroponte, che apparteneva a Venezia; una nuova alleanza contro i Turchi, proposta da Paolo II (1464-1471), viene fatta arenare dai milanesi e dai fiorentini, i quali pensano a tutt’altro, intenti come sono ad approfittare della situazione critica in cui versa la Serenissima, per ingrandirsi a sue spese.
La discordia tra i principi cristiani favorisce il nemico
Nel 1471 sale al soglio di Pietro il cardinale Francesco della Rovere, che prende il nome di Sisto IV; il suo pontificato, certamente uno dei più agitati della storia della Chiesa, fu segnato dall’omicidio del duca di Milano, Galeazzo Sforza, e dai rapporti sempre più tesi con i Medici di Firenze, che culminano in un’alleanza in funzione antiromana stipulata nel 1474 tra Milano, Venezia e Firenze, e nella sanguinosa Congiura dei Pazzi: nel 1478 l’arcivescovo di Pisa, Francesco Salviati, il nipote di Sisto IV Girolamo Riario e altri con- giurati attentano alla vita di Lorenzo de’ Medici, il quale però rimane soltanto ferito. Ma l’episodio, per il favore dimostrato dal Pontefice, verso i congiurati, provoca una vera e propria guerra tra gli Stati italiani, guerra che vede schierate da un lato le forze papali, insieme a quelle di Ferrante d’Aragona, re di Napoli, dall’altro Firenze, aiutata da Milano, Venezia e dalla Francia.
Osserva von Pastor che «una delle arti politiche delle dinastie orientali fu in ogni tempo quella di trarre profitto dai dissensi intimi delle potenze occidentali. Mai forse sotto questo aspetto le cose furono in condizione più favorevole per la potenza del sultano come nell’ultimo terzo del secolo XV: mezza Europa era infestata da guerre e dall‘anno 1478 anche Roma, che fino a quel tempo era stata sempre la prima a propugnare la causa della Cristianità, trovavasi coinvolta in una deplorevole lotta, in forza della quale Sisto IV per qualche tempo ebbe troppo a trascurare la sollecitudine universale per i bisogni della Cristianità» (18).
In questi frangenti accadde qualcosa di molto grave: «Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al gioco ed alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si accordasse con i Turchi e li spingesse ad assalire le sponde adriatiche del Regno di Napoli, al fine d i turbare i disegni di Ferdinando e del figlio. [...] La Serenissima, firmata da poco la pace con i Turchi (1479), aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare sulla Puglia l’onda musulmana che da un momento all’altro poteva abbattersi sulla Dalmazia, ove sventolava il vessillo di S. Marco. Lo stesso storico di Venezia il Navagero non respinge l’accusa, anzi narra candidamente i fatti [...]. E gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure [...] a sollecitare Maometto II ad invadere le terre del re di Napoli, ricordandogli i vari torti ricevuti da questi. Ma il Sultano non aveva bisogno di questi consigli: da 21 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e sin allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo. Ora, invece, firmata la pace con Venezia, anzi da questa incoraggiato, poteva senz’altro realizzare l’impresa» (19).
Nel giugno 1480 Maometto II toglie l’assedio a Rodi, difesa strenuamente dai suoi cavalieri, e punta decisamente la sua flotta verso l’Adriatico, senza più timore di ostacoli. La mattina di venerdì 29 luglio 1480 dagli spalti delle mura di Otranto si scorge all‘orizzonte, sempre più visibile, la terribile armata della Mezzaluna, forte di 90 galee, 15 maone, 48 galeotte, con 18 mila soldati a bordo (20).
Otranto, città di fede e di cultura cristiana
La città più orientale d’Italia, posta su una baia incantevole di fronte a un mare limpido e azzurro, ha un passato antichissimo e ricco di storia, che è necessario conoscere, perché contribuisce anch’esso a chiarire i motivi che spinsero, cinque secoli fa, la popolazione idruntina alla eroica resistenza contro gli infedeli. Se infatti, da un lato, questa è il risultato di secoli di fede vissuti da tutta la Cristianità durante il Medioevo, d’altro lato è frutto anche del patrimonio profondamente cristiano accumulato per oltre un millennio da Otranto, con peculiarità sue proprie.
Posta su una zona abitata forse già dal Paleolitico, certamente a partire dal Neolitico (21), Otranto fu popolata dai messapi, stirpe antichissima precedente i greci, e poi conquistata dapprima dagli stessi greci, entrando a far parte della Magna Grecia, e poi dai romani. Divenuta ben presto municipio romano, la città, per l’importanza crescente del suo porto, assunse il ruolo di ponte tra l’Oriente e l'Occidente, ruolo che sarà ancor più valorizzato dopo la cristianizzazione dell’impero.
Otranto fu una delle prime città, in Puglia, a convertirsi al cristianesimo; ciò è confermato anche da sant’Atanasio, il quale probabilmente vi passò, diretto a Roma, verso la metà del secolo IV. La città salentina meritò il soprannome di «Bisanzio delle Puglie» sia per la sua fedeltà all’impero d‘oriente (fedeltà difesa strenuamente anche contro le scorrerie dei saraceni, i quali, a partire dal secolo IX infestarono per lunghi anni le coste dell’Italia meridionale), sia per la cultura che in essa si sviluppò, dietro l’impulso, soprattutto, dei religiosi presenti nella zona.
I primi gruppi di monaci nacquero a Otranto subendo forse l’influenza di sant’Atanasio, e seguendo i canoni del monachesimo orientale, di san Basilio in particolare: vivevano, cercando di realizzare il loro ideale di ascesi, in grotte scavate nella pietra, chiamate «laure». Ben presto, però, compresero l’importanza che aveva la conservazione e la trasmissione del sapere e già alla fine del secolo X crearono una scuola in Otranto; se la cultura greca è sopravvissuta nella zona, giungendo fin quasi ai nostri giorni (22), lo si deve soprattutto alla presenza, a partire dal secolo XI, a poche centinaia di metri dalla città, del Monastero di San Nicola in Casole: i suoi codici sono conservati attualmente nelle principali biblioteche europee e i suoi monaci divennero in breve veri e propri benefattori della cultura del tempo, consultati spesso come interpreti o come esperti da Pontefici e cardinali. Presso il monastero funzionava una fornitissima biblioteca, i cui volumi, raccolti e catalogati dai monaci, potevano essere prestati a chi li richiedesse; chiunque poi volesse erudirsi nel greco o nel latino, poteva rimanere nell’abbazia, e in tal caso aveva a sua disposizione, e senza alcuna spesa, vitto, alloggio e un maestro: una vera e propria casa dello «studente»!
La cultura e la fede coltivate e conservate nell’abbazia di Casole non rimanevano, comunque, patrimonio di un circolo ristretto, ma venivano ampiamente diffuse, e i primi a trarne beneficio dovevano essere, con tutta evidenza, gli stessi idruntini, la cui vita, serena, vissuta nell’obbedienza alla natura e al Creatore, al Papa e all’imperatore, trascorreva non dissimile da quella di un qualsiasi altro borgo medievale (23), permeata, forse più incisivamente, dei valori e della cultura cristiani. Valori e cultura che trovarono significativa espressione in due capolavori dell’arte cristiana: la cattedrale di Otranto e, all’interno della stessa, il grandioso mosaico pavimentale: per la prima, costruita dal 1080 al 1088 in stile romanico-bizantino con elementi paleo-cristiani, così come per il secondo (24), vale senz’altro quanto è stato scritto: «E accaduto talvolta nella storia [...] che una società umana si esprimesse tutta intera in monumenti perfetti e privilegiati, che sapesse contenere in certe opere affidate alle generazioni future tutto ciò che portava in sé d i vigore creativo, di spiritualità profonda, d i possibilità tecniche e di genio. Simili fiori - in cui si esprime un’epoca - non sbocciano e non maturano che quando la linfa è pura e abbondante [...]. Opere simili non nascono per caso [...] attraverso di esse si lascia comprendere tutta la civiltà che le ha create» (25).
Ogni pietra della cattedrale parla di fede, perché la Chiesa fu realizzata nel breve tempo di otto anni grazie agli sforzi, materiali e finanziari, di tutti i fedeli idruntini; non credo di forzare la storia immaginando l’intera popolazione, vescovo in testa, intenta a contribuire, ciascuno secondo le proprie funzioni e capacità, alla edificazione del tempio di Dio, nel quale e intorno al quale doveva ruotare la vita cittadina, le cui campane avrebbero scandito, con l’angelus, le ore di lavoro e di riposo, con il suono a stormo avrebbero annunciato i giorni di festa, chiamato al soccorso in caso di allarme, convocato il popolo in assemblea generale, accompagnato, infine, con il rintocco funebre, il fedele all’ultima dimora.
E possiamo pensare alla festa che dovette esservi nel 1088, il giorno dell’inaugurazione, quando tutto il popolo si trovò riunito in cattedrale, o, qualche anno più tardi, nel 1095, quando, proprio dalla cattedrale, il vescovo impartì la benedizione ai 12 mila crociati che da Otranto, al comando di Boemondo, partivano per liberare dagli infedeli il santo Sepolcro; dovette essere una vera gioia per gli idruntini, che accolsero festosi i cavalieri con la Croce, se è vero che «per gli umili, per la povera gente, la Crociata fu un fatto mistico, la manifestazione d i uno slancio spirituale dal fondo più nobile delle anime, l’espressione eroica di una fede che si soddisfaceva solo nel sacrificio, una risposta all’appello di Dio» (26). Identica festa, espressione di autentica «letizia», fu celebrata anche quando, poco più di un secolo dopo, nel 1219, il poverello di Assisi, di. ritorno dalla Palestina, sbarcò a Otranto, dove già da quattro anni esisteva un convento di Frati Minori: san Francesco fu accolto con grandi onori dall’arcivescovo del tempo, Tancredi degli Annibaldi, che lo volle suo ospite (27).
Le campane della cattedrale dovettero, invece, suonare i rintocchi funebri 1’11 settembre 1227, giorno in cui, in seguito a malaria, chiuse la sua giovane esistenza terrena il langravio di Turingia, «cavaliere senza macchia e crociato senza scopi terreni», sposo di santa Elisabetta d’Ungheria, pianto dagli otrantini come loro concittadino, tanto che «Elisabetta in segno d i gratitudine, donò il manto reale [del marito] alla Città» (28).
Questa stessa città, la mattina del 29 luglio 1480 è posta in stato d‘assedio, tra l’inerzia dei principi e dei re cristiani, dall’armata turca di Maometto II.
La profezia di san Francesco di Paola e l’assedio di Otranto
Qualche mese prima, dall’eremo di Paternò dove viveva con i suoi confratelli, un grande santo del tempo, Francesco di Paola, aveva preannunciato una grave sciagura. «I musulmani - aveva detto - avrebbero assalito Otranto e, distruggendo dalle fondamenta, ne avrebbero massacrati i cittadini. - Scrisse al Re Ferdinando, predicendo l’imminente uragano, ma non fu creduto» (29). Egli allora, volgendo il viso verso la parte meridionale della Puglia, esclamava piangendo: «Ah infelice città, di quanti cadaveri ti veggo piena! quanto sangue cristiano s’ha da spargere sopra di te» (3). Il santo, tuttavia, non cessò di sollecitare il re all'impresa contro i turchi, tanto che Ferrante, accusando Francesco di disfattismo, gli impose il silenzio per mezzo di alcuni soldati; il santo apostrofò questi dicendo loro: «Tornate al vostro Re e ditegli che ormai è tempo di calmare lo sdegno del Signore con pronto ravvedimento; che Dio tiene alzata la sua destra per colpirlo; che si valesse del tempo concessogli per evitare il castigo. L’armata dei Turchi minaccia l’Italia ma più da vicino il suo regno: ritirasse le soldatesche dalla Toscana, non curasse l’altrui mentre trattavasi di difendere il proprio» (31). Ma purtroppo non fu ascoltato.
L’orda musulmana, comandata dal pascià Agomaht (32), in realtà aveva intenzione di approdare a Brindisi, il cui porto era più ampio e più comodo; da Brindisi poi, secondo i piani di Maometto II, avrebbe dovuto risalire l’Italia fino a Roma, sede del Papato, principale e naturale nemico dell’Islam: il sultano, dopo avere espugnato Bisanzio ventisette anni prima, sognava di coronare la sua opera trasformando san Pietro in una stalla per i suoi cavalli (33). Tuttavia, un forte vento contrario costringe la flotta, partita da Valona, a toccare terra 50 miglia più a Sud, e a sbarcare a qualche chilometro da Otranto, vicino a Roca; i capitani del presidio di Otranto, appresa la notizia, inviano subito una coraggiosa missiva al re, chiedendo un suo sollecito aiuto (34): in città vi era, infatti, solo una guarnigione di 400 uomini, ben poco per contrastare migliaia di turchi. «Il Re Ferdinando, conosciuta che ebbe la cosa, si diede subito da fare per riunire un esercito da mandare in aiuto; purtroppo però, anche se i soccorsi fossero stati già pronti, non sarebbero giunti in tempo nel luogo della lotta» (35).
Intanto i turchi, del tutto indisturbati, cingono d’assedio il castello, nel quale si erano rifugiati tutti gli abitanti del borgo; il pascià, dopo aver assestato il campo, invia a Otranto un interprete, proponendo una resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno alla Mezzaluna, uomini e donne saranno lasciati liberi e potranno rimanere senza alcun danno in città, ovvero andare dove ritengano più opportuno. La risposta al legato musulmano viene data da uno dei maggiorenti della città, il vecchio Ladislao De Marco: «Se il Pascià vuole Otranto, venga a prenderla con le armi, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini» (36). I capitani, inoltre, «ordinarono al messaggero di non tornare una seconda volta e minacciarono la morte a quei cittadini che avessero fatto parola di resa. Quando arrivò un secondo messaggero che riferiva le stesse proposte, lo trafissero con le frecce» (37); poi, «per levare ogni sospetto, pigliarono le chiavi della città, cioè delle porte di essa e quelle presente tutto il popolo che le vedesse di sopra d'una torre le buttarono in mare» (38).
La maggior parte dei soldati della guarnigione idruntina, intanto, vinta dalla paura, durante la notte si cala con le funi dalle mura della città e se la dà a gambe: a difendere Otranto rimangono solo i suoi abitanti.
Il martirio degli Ottocento
L'assedio che segue è martellante: le bombarde turche rovesciano per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero» (39). Dopo quindici giorni, all'alba del 12 agosto, i musulmani concentrarono il loro fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: non fanno fatica ad aprire una breccia e, da lì, irrompono in città. A contrastarli accorre il capitano Zurlo con i1 figlio e con altri armati, ma il nemico è preponderante: cadono tutti eroicamente con la sciabola in pugno. Nulla può arrestare più l'avanzata dell'orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. [...] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d'homini morti così de' Turchi come de' Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d'homini morti» (40).
Per le strade di Otranto gli infedeli massacrano chiunque capiti loro a tiro, senza distinzione; uomini, donne e bambini cercano rifugio nella cattedrale, la cui porta è difesa strenuamente come ultimo baluardo, ma presto è vinta anche quest'estrema valorosa resistenza: dopo aver abbattuto la porta della chiesa, gli invasori dilagano nel tempio.
«Durante la notte precedente quello sventurato giorno, l'arcivescovo Stefano [...] aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell'Eucarestia per la battaglia del mattino seguente, che lui aveva previsto» (41). I turchi, «raggiunto l'arcivescovo che sedeva sul suo trono vestito con abiti pontificali e con in mano la croce, lo interrogarono chi fosse; ed egli intrepidamente rispose: - Sono il rettore di questo popolo e indegnamente preposto alle pecore dei gregge di Cristo. - E dicendogli uno di loro: "Smetti di nominare Cristo, Maometto è quello che ora regna, non Cristo", egli rispose indirizzandosi a tutti: - O miseri ed infelici, perché vi ingannate invano? Poiché Maometto, vostro legislatore, per la sua empietà soffre nell'inferno con Lucifero e gli altri demoni le meritate pene eterne; ed anche voi, se non vi convertite a Cristo e non ubbidite ai suoi comandamenti, sarete nello stesso modo cruciati con lui, in eterno.
«Aveva appena terminato di proferire queste parole quando uno di foro, impugnata la scimitarra, con un sol colpo gli recise la testa; e, così decollato sulla propria sedia, divenne martire di Cristo nell'anno del Signore 1480, 1'11 di agosto» (42).
Il 13 agosto, compiuto il saccheggio, il pascià chiede che gli sia presentata la lista di tutti gli abitanti fatti schiavi, escludendo le donne e i ragazzi al di sotto dei 15 anni: «In numero di circa ottocento furono presentati al Pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo d i Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a' nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo sicuri della buona grazia d'Acmet, il quale accordava toro vita, sostanze e tutti quei beni che godevano nella patria; in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n'ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d'età provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: "Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui”: (43). «E voltatosi ai Cristiani disse queste parole: "Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvar la vita e per li Signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l'anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella Fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la corona del martirio". A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo» (44).
A queste parole Agomaht, infuriato, condanna tutti a morte. La mattina seguente «quei prodi campioni della santa fede con la fune al collo e con le mani legate dietro le spalle, furono menati al vicino colle della Minerva. Con l'umile portamento, con l'aria divota e serena e col frequente invocare i nomi di Gesù e di Maria, facevano di sé spettacolo glorioso a Dio e gradito agli Angeli. Tutto quel tratto di strada, che corre dalla porta antica di mare fino al colle, risonò di sante preci, colle quali quelle anime grandi imploravano la grazia di consumare il sacrifizio delle loro vite» (45). Si confortavano l'un altro a «pigliar pazientemente il martirio e questo faceva il padre al figlio, e il figlio al padre, il fratello al fratello, l'amico all'amico, il compagno al compagno, con molto fervore e con molta allegrezza» (46). «Girava intorno ai cristiani un turco importuno con alla mano una tabella vergata in carattere arabo. L'apostata interprete la presentava a ciascuno e ne faceva la spiegazione, dicendo: Chi vuol credere a questa avrà salva la vita; altrimenti sarà ucciso. Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi: onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione, e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co' suoi. Anzi in questi ultimi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a' commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de' carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl'infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò avventurosamente del miracolo, e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo» (47).
L'orrendo massacro lascia il colle della Minerva rosso di sangue, coperto quasi interamente dai corpi degli Ottocento: è il 14 agosto, vigilia dell'Assunzione di Maria SS.
La riconquista di Otranto
La notizia della caduta di Otranto produce un «vero sbalordimento» nelle terre cristiane. «In Roma - narra Sigismondo de' Conti - la costernazione non sarebbe stata maggiore se i nemici avessero già posto il campo sotto le mura della città. L'ansia e il terrore avevano invaso talmente tutti gli animi, che ormai anche il papa pensava alla fuga». Il «Cardinal legato Giuliano [...] ricevette il mandato di approntare in Avignone tutto il necessario poiché Sisto aveva risoluto d i rifugiarsi in Francia, qualora lo stato delle cose in Italia avesse ancora a peggiorare» (48). La resistenza di Otranto ottiene però subito un importante risultato politico e strategico; infatti «la resistenza, opposta dai cittadini di Otranto per tredici giorni, aveva permesso all'esercito del Re di Napoli di avvicinarsi a quei luoghi. E Agomaht, che aveva sperato di piombare improvvisamente su Brindisi e Lecce, comprese che il suo disegno era stato frustrato da un pugno di eroi» (49). Non si esagera perciò affermando che la salvezza dell’Italia meridionale, e forse quella di Roma stessa, fu garantita proprio da Otranto, anche se a un prezzo tanto elevato.
La costernazione di Ferrante d‘Aragona è davvero grande: egli, riunito il consiglio di guerra, richiama subito in patria il figlio Alfonso, duca di Calabria, il quale, con il grosso delle truppe, combatteva in Toscana contro i Medici, e lo invia in Puglia, affidandogli il preciso compito di riprendere Otranto; Sisto IV, dal canto suo, si prodiga per organizzare una spedizione che coinvolga tutte le potenze europee al fine di liberare l’Adriatico dagli infedeli: ancora una volta, con esiti scarsamente positivi.
Due eventi contribuiscono a far ritornare Otranto in mano ai cristiani: il richiamo in patria di Agomaht, e la morte di Maometto II, comunicata con qualche mese di ritardo ai turchi che occupano la città, e che vale ad accelerare la loro resa, avvenuta il 10 settembre 1481. L’Aragonese fa il suo ingresso in Otranto il 13 dello stesso mese.
I prodigi
Il martirio degli Ottocento fu seguito da numerosi prodigi, che si sono poi ripetuti nei secoli: non potendo, per ovvii motivi, riportare tutti quelli che conosciamo, ricordo solo i più famosi; anzitutto, durante il martirio, il già raccontato miracolo di Primaldo, rimasto in piedi, nonostante gli fosse stata tagliata la testa, fin quando non cadde l’ultimo idruntino. Racconta poi il Galatino che, dopo la riconquista di Otranto da parte del duca Alfonso, sul colle della Minerva «furono trovati dai cristiani i corpi di essi, talmente illesi ed integri (come io vidi), che neppure un capello era in essi diminuito; e così freschi, da sembrare che da un’ora appena fossero stati uccisi. Ond’è che un cane riconobbe il suo padrone giacente tra quelli e cominciò a scodinzolargli vicino; e, ciò che è più mirabile, furono trovati tutti con gli occhi rivolti al cielo; nessuno di essi accennava tristezza di sorta; anzi mostravano un così lieto ed ilare volto, che sembrava ridessero» (9). Ma, prima ancora, avvenuto da poco il martirio, di notte fu spesso osservata, sul colle della Minerva, la presenza costante di luci e di bagliori: «Si sa da tutti - riferisce il canonico Francesco Perez - per pubblica voce e fama, della quale ci è restata la tradizione, che, dopo il loro glorioso martirio, su quei santi corpi si vedevano faci lucidissime; e per la prima volta, quando furono portati in chiesa, essendo comparso di notte per tutta la chiesa uno splendore molto grande, tutti dalla città concorsero, supposto che la chiesa si era incendiata. Nell’anno poi 1739 a’ 14 agosto, terminata la loro festa a tre di notte, si fecero vedere processionalmente andare nel luogo, ove patirono il martirio. Qual visione fu veduta da infinità di popolo, concorso per la loro festività» (51).
Otranto fu per ben due volte, grazie ai beati Martiri, liberata da una nuova invasione turca, «nel 1537, imperando Solimano, e nel 1644, regnando Ibraimo. L‘una e l’altra volta comparvero sulle mura e per la spiaggia numerose schiere d’armati, alla vista de’ quali quelli, sbigottiti, subito s’allontanarono. [...] Nell’anno 1741 la processione divota che si fece per la città con le loro reliquie, pose termine ad una epidemia: e così il loro potente patrocinio liberò la [...] città dall’orribile terremoto che rovinò Nardò, Ostuni, Brindisi, Francavilla, Foggia e altre minori terre» (52).
La lezione di Otranto
Nella bimillenaria storia della Chiesa non sono mai mancate testimonianze eroiche di vera fede: dalla nascita delle prime comunità cristiane fino ai nostri giorni, schiere di martiri in tutto il mondo hanno sacrificato la loro vita per amore di Cristo, e nessun’epoca può lamentarne l’assenza. Eppure in nessun tempo, forse, si è verificato un episodio di martirio di così vaste proporzioni come quello offerto da Otranto cinque secoli fa: è successo sempre che il singolo, o un gruppo ristretto di fedeli abbiano affrontato con coraggio l’estrema prova, ma si è trattato di poche individualità, o di grandi figure, mai, come è accaduto a Otranto, di un’intera città.
Quel 14 agosto 1480 nessuno degli otrantini accolse le allettanti proposte del pascià: la loro risposta fu ferma, unanime, concorde; gli unici a scegliere la via della fuga erano stati, qualche giorno prima, i soldati della guarnigione di re Ferrante, che non erano della città; è indicativo, poi, il fatto che nessuna individualità emerge durante il martirio al di fuori del vecchio Primaldo: degli altri non si conosce neanche il nome, quasi a conferma che è una popolazione che affronta la prova, non pochi eroi. Diventa a questo punto lecito cercare una spiegazione plausibile di un episodio così singolare nella storia della Chiesa.
Gli ultimi anni del secolo XV, come già ricordato, sono quelli che segnano il tramonto di un’epoca: un’epoca che aveva visto il sorgere delle cattedrali e il susseguirsi delle Crociate; Carlo Magno imperatore e Ildebrando Pontefice; l’epoca che aveva espresso san Tommaso e Dante Alighieri; l’epoca delle corporazioni e di san Francesco; tramonta, come si è visto, per il tradimento e per le cadute dei principi e dei re, per i germi di paganesimo già presenti nei circoli degli studiosi e dei filosofi, tramonta perché non si sa affrontare con la dovuta fermezza il demone rivoluzionario che avanza, mascherandosi di falso umanesimo e proclamante il libero esame.
Tramonta la civiltà cristiana, e gli umili, i fedeli, ne hanno sentore, ma non assecondano il vento del pensiero moderno, legati profondamente a quei valori che avevano fatto grande l’età che sta scomparendo; cedere, allentando i sacri vincoli della propria fede, sarebbe come cancellare la ragione della propria esistenza, equivarrebbe a rifiutare l’aria che si è respirata finora. Questo spirito, in quel momento presente in tutti gli autentici fedeli della Cristianità, si fonde a Otranto con la tradizione ricchissima e peculiare della città, terra da sempre devota e punto di riferimento della vera cultura, e incide profondamente sul carattere degli otrantini, i quali hanno trascorso i giorni e l’esistenza respirando un’aria pregna di religiosità e di sincero amore per Cristo. Certo, sarebbe stato facile per essi dare ascolto al prete rinnegato inviato da Agomaht: avrebbero avuto salva la vita, la moglie, i figli, e avrebbero continuato a godere dei loro beni senza alcun danno. Ma che vita sarebbe stata quella seguente al rinnegamento, senza la linfa vitale della fede? E sarebbe poi continuata come prima l’esistenza cittadina, densa di feste, di serenità, di gioia, senza quel Cristo che è la fonte della letizia e della gioia?
No, mille volte meglio morire sotto la spada del turco, non essendo pensabile una vita che non abbia come costante punto di riferimento Dio, il suo amore e la sua legge. Non atto eroico, perciò, il martirio degli otrantini, ma comportamento normale: di fronte a chi vuol far sì che si neghi la ragione stessa della vita, meglio «nostra morte corporale», che poi porta alla vita eterna.
Cinque secoli sono trascorsi dal martirio di Otranto, e in cinque secoli la Rivoluzione, allora ai primi passi, ha fatto, purtroppo, molta strada; eppure, a distanza di tanti anni, la lezione di Otranto rimane valida e più che mai attuale: Cristo non si rinnega, a nessuno costo. «Gesù disse ai suoi seguaci prima di salire al cielo: ”Voi mi renderete testimonianza, cominciando da Gerusalemme fino ai confini del mondo”.
«Stefano e Giacomo gli resero testimonianza a Gerusalemme; Pietro e Paolo, Lorenzo, Agnese e Cecilia a Roma; Lucia a Siracusa; Agata a Catania; Tommaso a Calamina; Matteo in Etiopia; e milioni dì uomini e donne, giovani e ragazze, sacerdoti e laici in tutto il mondo resero testimonianza a Gesù con il loro martirio.
«Anche Otranto ebbe la sua ora di passione: si è resa immortale per la costanza dei suoi 800 figli che preferirono la morte per Cristo, anziché vivere nella vergogna di aver tradito Gesù, l’incanto d i nostra vita.
«Cristiano [...] preparati anche tu a concludere così: ”Renderò anch’io testimonianza a Gesù con la vita di ogni giorno, e, se sarà necessario, con il sacrificio della mia esistenza a somiglianza dei BB. Martiri“» (53).
Si degni la Regina dei Martiri di infondere negli uomini del nostro tempo la stessa fede e lo stesso cristiano ardore degli Ottocento di Otranto; ella sola può ottenerci questa grazia: che, sotto la sua protezione, dopo aver combattuto per il suo Nome dolcissimo, possiamo giungere al trionfo promesso del Regno del suo Cuore Immacolato, così come, novant’anni dopo il martirio di Otranto, il 7 ottobre 1571 giunse, atteso dalla Cristianità, il trionfo di Lepanto, dopo il quale la si è invocata, e con maggior fede, col nome di Regina delle Vittorie.
Alfredo Mantovano
Note
(1) PLINIO CORREA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 94.
(2) ENRICO DELASSUS, Il problema dell'ora presente, trad. it., vol. I reprint Cristianità, Piacenza 1977, p. 55.
(3) LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei, dell’1-11-1885, in ASS, vol. XVIII, p. 169.
(4) HENRI DANIEL-ROPS, Storia della Chiesa del Cristo, trad. it., vol. IV: La Chiesa del Rinascimento e della Riforma, tomo I, Marietti, Torino 1957, p. 60.
(5) Il cardinale Enea Silvio Piccolomini, futuro Papa Pio II, affermava, verso la meta del secolo XV, che «La Cristianità non ha più capo; né il Papa né l’Imperatore sono più rispettati e obbediti; li trattano come miti [...]. Ogni Stato vuole il suo principe, ogni principe difende i suoi interessi. Qual voce potrebbe essere tanto potente da riunire sotto una sola bandiera tante forze antagoniste?» (H. DANIEL-ROPS, Op. cit., p. 65).
(6) PLINIO CORRÉA DE OLIVEIRA, Op. Cit., p. 72.
(7) E. DELASSUS, Op. cit., p. 61.
(8) «Lorenzo Valla affermava nel suo trattato De voluptate, che ”il piacere è il vero bene, e che ci sono altri beni che il piacere” (E. DELASSUS, Op. cit., p. 62)
(9) AGOSTINO SABA, Storia della Chiesa, vol. III, tomo I, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1943, p. 226.
(10) H . DANIEL-ROPS, Op. cit., p. 118.
(11) REGINE PERNOUD, Il Processo di Giovanna d’Arco, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1973, p. 28.
(12) H . DANIU-ROPS, Op. cit., pp. 74-75.
(13) GRAZIO GIANFREDA, Otranto nella Storia, Ed. Salentina, Galatina 1976, p. 242. Mons. Grazio Gianfreda, attualmente parroco della cattedrale di Otranto, oltre ad essere uno dei più autorevoli storici di Otranto, ha dedicato pregevoli pagine all’episodio degli Ottocento Martiri.
(14) H . DANIEL-ROPS, Op. cit., p. 97.
(15) «Un solo principe prese la croce, Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, che, partito da Venezia nel giugno 1366, riuscì a compiere, in agosto, un felice colpo di mano su Gallipoli, riprendendo ai Turchi la chiave dei Dardanelli, andò a scorazzare per il Mar Nero, si batté ancora parecchie volte contro i Mussulmani, e alla fine tornò a casa, dopo aver adempiuto al suo voto, sentendo che la sua bravata non poteva certo bastare ad arrestare l’invasione ottomana» (H. DANIEL-ROPS, Op. cit., p. 85).
(16) LUDOVICO PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., vol. II, Desclée, Roma 1911, p. 3.
(17) Riporto alcuni brani significativi del discorso di Pio II: «[...] Non i nostri padri, ma noi abbiamo lasciato prendere dai Turchi Costantinopoli, la capitale dell’oriente, e mentre indolenti ce ne stiamo nelle nostre case, le armi di questi barbari penetrano fino al Danubio e alla Sava [...] Tutto questo è accaduto sotto i nostri occhi, ma noi dormiamo profondamente. Eppure no, noi possiamo combattere fra noi, soli i Turchi lasciamo che spadroneggino liberamente. Per tenui motivi i cristiani prendono le armi e combattono sanguinose battaglie; contro i Turchi invece, che oltraggiano il nostro Dio, atterrano le nostre chiese e cercano sradicare il nome cristiano, nessuno vuol levare la mano» (L. PASTOR, Op. cit., p. 60).
(18) L. PASTOR, Op. cit., p. 530.
(19) G. GIANFREDA, OP. cit., pp. 250-251; il particolare è confermato, tra gli altri, anche da GIANNONE, nella sua Storia civile del Regno di Napoli, libro VIII, Milano 1823, pp. 322-323. «In quell’occasione la Serenissima [...] non solo non oppose alcuna resistenza all’avanzata del Turco nel mare Adriatico, ma giunse al punto di offrire a quei soldati vettovagliamenti, al solo patto che se li fossero andati a prendere» (G . GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, Ed. Salentina, Galatina 1975, p. 19).
(20) Cfr. G. GIANFREDA, Op. cit., p. 25.
(21) Ne sono conferma i reperti scoperti da qualche anno nelle vicine Grotte di Porto Badisco e Romanelli. Cfr. in proposito G. GIANFREDA, Otranto nella Storia, cit., pp. 16 ss.
(22) I1 rito greco permarrà nel Salento fino al secolo XVI: ancora oggi in molti paesi della provincia di Lecce si parla il greco: mons. G. Gianfreda, testimonia che, nella zona, «fino al 1940 [...] alcune vecchiette sapevano confessarsi solo in greco; e, durante la settimana santa, si cantava in greco tutta la passione del Signore» (G. GIANFREDA, Il monachesimo italo-greco in Otranto, Ed. Salentina, Galatina 1977, p. 73).
(23) Per avere un quadro esauriente della «vita vissuta» nei borghi durante il Medioevo, cfr. R. PERNOUD, Luce del Medioevo, trad. it., Volpe, Roma 1978, specialmente le pp. 211-251.
(24) Una chiara presentazione della cattedrale e del mosaico di Otranto si può leggere nelle seguenti opere di mons. G. GIANFREDA, tutte edite dall’Ed. Salentina di Galatina: Mosaico di Otranto, 1974; Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, 1974; Basilica e Cattedrale di Otranto: architettura e mosaico, 1978.
(25) H. DANIEL-ROPS, Storia della Chiesa del Cristo, trad. it., vol. III: La Chiesa delle Cattedrali e delle Crociate, Marietti, Torino, 1954, p. 107.
(26) G..GIANFREDA, Otranto nella Storia, cit., p. 163.
(27) Ibid.. D. 192.
(28) Ibid.; p. 198.
(29) Ibid., Gli 800 Martiri di Otranto, cit., p. 20.
(30) SAVERIO DE MARCO, Compendiosa istoria degli Ottocento Martiri Otrantini Tipografia Cooperativa, Lecce 1905, p. 17.
(31) G..GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, cit., p. 21
(32) Questi viene descritto come un «homo di statura picciola, di color bruno, nasuto, con poca barba, mezzo spano, brutto di volto, d’animo crudelissimo e molto avaro, povero e vile, fatto Bassà da Maumeth per beffeggiamento, perché avanti era stato staffiero» (GIOVANNI MICHELE LAGGETTO, Historia della guerra di Otranto del 1480, trascritta da un antico manoscritto e pubblicata dal Can. Luigi Muscari, Tip. Messapica, Maglie 1924, p. 26).
(33) Per i particolari dell’assedio e del martirio mi riferisco a varie cronache del tempo, e principalmente a G. M. LAGGETTO. «A Giovan Michele Laggetto gli eroismi degli Otrantini furono narrati da suo padre, che fu testimone oculare e non ucciso perché contava 16 anni. Condotto schiavo a Valona, dopo tre mesi ritornò in patria e raccontò i fatti di Otranto al figlio che nel 1537 stese una Storia della presa di Otranto nel 1480 e della sua liberazione». La notizia bio-bibliografica è contenuta in G. GIANFREDA, Otranto nella Storia, cit., p. 9, nota I.
(34) Riporto alcuni brani della lettera, che rivelano quale fosse il carattere degli abitanti della città: «Serenissima e catolica Maestà [...] se la M.V. non fa subito quella provvisione che s’usi in breve tempo et è possibile a farsi, portamo gran pericolo di perderci et essere pigliati. Noi dal canto nostro non mancaremo di pensarci a quanto che sarà possibile a fare il debito nostro; ma il manco sarebbe a perder noi la vita nostra e dei nostri figli: ma quel che più importa sarà il diservizio di Dio e di M. V. che ne potrà nascere.
«La supplichiamo pertanto per amor di Dio che ne voglia soccorrere presto contro questo cane nostro Nemico [...]» (S. M. LAGGETTO, Op. cit., p. 27).
(35) G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, cit., p. 26.
(36) ANTONIO ANTONACI, Otranto, Ed. Salentina, Galatina 1976, p. 286.
(37) ANTONIO DE FERRARIS GALATEO, La Iapigia, Messapica Ed., Galatina 1975, p. 55; si tratta della traduzione italiana del De Situ Japigiae, la cui prima edizione fu pubblicata a Basilea nel 1558. L’autore era parente dell’allora arcivescovo di Otranto.
(38) G. M. LAGGETTO, Op. cit., p. 29.
(39) Ibid., p. 30; ancora oggi a Otranto si conservano le grosse palle di pietra viva sparate dai Turchi.
(40) Ibid., p . 34.
(41) A. DE FERRARIS GALATEO, Op. cit., p. 56.
(42) PIETRO COLONNA, detto il GALATINO (1460-1540), nei Commentaria in Apoculypsin, manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Lat. 5567, foll. 147-48), in A. ANTONACI, Op. cit., pp. 306-307. Di fronte ai delitti che si perpetrano in quel sacro luogo, annota il cronista: a g h occhi abbondano talmente in lagrime che s'offusca il vedere e bagnano la carta che vi si può scrivere; le dita mi diventano stecche sulla penna che non la ponno muovere (G. M. LAGGETTO, Op. cit., p. 36.)
(43) S. DE MARCO, Op. cit., pp. 11-12.
(44) G. M. LAGGETTO, Op. cit., pp. 37-38.
(45) S. DE MARCO, Op. cit., p. 13.
(46) G. M. LAGGETTO, Op. cit., p. 38.
(47) S. DE MARCO, Op. cit., pp. 13-14; il prodigio della conversione e del martirio del turco è testimoniata, nel processo di beatificazione degli Ottocento otrantini celebrato per la prima volta nel 1539, da quattro testi oculari; riporto quanto affermò in tale occasione uno dei quattro (le deposizioni degli altri tre sono pressoché identiche), Francesco Cerra, di 72 anni: «[...] Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi. dei nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi. Il carnefice, stupefatto del miracolo, confessò la fede Cattolica essere vera, e insisteva di farsi Cristiano, e questa fu la causa, perché per comando del Bassà fu dato alla morte del palo» (G. M. LAGGETTO, Op. cit., p. 41).
(48) L. PASTOR, Op. cit., p. 532-533
(49) ETTORE ROTA, Rivista Historia, n. 76, marzo 1954, in G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, cit., p. 36
(50) P. COLONNA, cit. in A. ANTONACI, cit., pp. 307-308.
(51) Testimonianza resa al processo di beatificazione del 1771, cit. in S. DE MARCO, Op. cit., p. 25.
(52) Ibid. pp. 28-29
(53) G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, cit., p. 5.
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