venerdì 27 settembre 2013

La vera contrizione, necessaria per non andare all’Inferno

La vera contrizione, necessaria per non andare all’Inferno
 
I peccati contro lo Spirito Santo sono “quei peccati che manifestano la sistematica opposizione a qualunque influsso della grazia, e questo comporta disprezzo e rifiuto di tutti gli aiuti offerti da Dio per la salvezza”. (cit. Amici Domenicani, v. contrizione)
Vengono detti contro lo Spirito Santo perché l’opera della conversione e della santificazione è attribuita allo Spirito Santo. Sono sei:
- l’impugnazione della verità conosciuta;
- l’invidia della grazia altrui;
- la disperazione della salvezza;
- la presunzione di salvarsi senza merito;
- l’ostinazione nel peccato;
- l’impenitenza finale.
Come dice S. Giovanni, “la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo”. Perciò l’impugnazione della verità conosciuta, e l’invidia della grazia altrui appartengono più alla bestemmia contro il Figlio dell’uomo che alla bestemmia contro lo Spirito Santo. (Summa Th. II-II, 14, q.2)
S. Bernardo ha scritto, che “non volere obbedire è resistere allo Spirito Santo”. E la Glossa insegna, che “il pentimento simulato è una bestemmia contro lo Spirito Santo”. Anche lo scisma sembra opporsi direttamente allo Spirito Santo, dal quale dipende l’unità della Chiesa. (Ivi.)
I doni di Dio (…) che allontanano dal peccato, secondo l’Aquinate, sono due:
- Il primo è la conoscenza della verità: e contro di esso sta l’impugnazione della verità conosciuta, che consiste “nell’impugnare le verità conosciute della fede, per peccare con maggiore licenza” (… quello che fanno, purché – o poiché – ben informati, i reprobi, gli eretici, gli apostati, gli scismatici, gli atei … e chi probabilmente li fomenta o giustifica, anche mezzo stampa, ed anche non correggendo pubblicamente le eventuali false interpretazioni date o “incomprensioni” che comunque sono figlie dell’ambiguità);
- Il secondo è l’aiuto della grazia: e contro di esso sta l’invidia della grazia altrui, che consiste nel fatto che uno non solo invidia il fratello come persona, ma invidia la grazia di Dio che cresce nel mondo  (… quello che fanno, credo, anche i falsi profeti, probabilmente invidiosi di chi è in grazia di Dio, desiderosi di far corrompere anche i loro fratelli).
Da parte poi del peccato due sono le cose che, secondo il Dottore Angelico, possono trattenere l’uomo dalla colpa:
- La prima è il disordine e la bruttezza dell’atto, la cui considerazione suole indurre l’uomo a pentirsi del peccato commesso. E contro di essa abbiamo l’impenitenza, non nel senso di durata nel peccato fino alla morte, come sopra si è detto (infatti allora non sarebbe uno speciale peccato, bensì una circostanza del peccato), ma quale proposito di non pentirsi;
- La seconda cosa (che può trattenere dalla colpa) è la meschinità e la brevità del bene che uno cerca nel peccato, secondo le parole di S. Paolo: “E che frutto aveste delle cose di cui ora vi vergognate?”. E questa considerazione è fatta per indurre l’uomo a desistere dal peccato. Ma questo effetto viene eliminato dall’ostinazione, cioè dal fatto che un uomo stabilisce il suo proposito nell’adesione al peccato.
Di queste due cose si parla in quel passo di Geremia: “Non c’è nessuno che si muova a penitenza del suo peccato, e che dica: Che ho mai fatto? Tutti son rivolti a correre per il loro verso, come cavallo che va di carriera incontro alla battaglia”. (Ivi.)
Cristo ha prodotto la grazia e la verità mediante i doni dello Spirito Santo, offerti da lui a tutti gli uomini. Non volere obbedire si riduce all’ostinazione; la simulazione del pentimento all’impenitenza; e lo scisma ricade nell’invidia della grazia altrui, dalla quale grazia sono compaginate le membra della Chiesa. (Ivi, IIª-IIae q. 14 a. 2 ad 3 ad 4)
La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna.
Il sacro Concilio di Trento ha dichiarato non essere lecito a chi ha sulla coscienza un peccato mortale e può avvicinare un confessore, di ricevere la Comunione, anche se pentito nella maniera più profonda, prima di essersi purificato mediante la Confessione (sess. 13, cap. 7, can. 11).
Poiché il popolo deve conoscere meglio di ogni altra cosa la materia di questo sacramento, si dovrà insegnare che esso differisce dagli altri soprattutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di naturale o di artificiale, della Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento (sess. 14, cap. 3 De Paenit., can. 4).
Il sacramento della Penitenza (oggi “confessione” se si riesce a trovare un vero confessore), oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri sacramenti, contiene tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: “La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore  la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione” (Grat., 2, causa 33, q. 3, dist. 1, can. 40). Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto. (Dich. Cat.  Tridentino)
Ecco come definiscono la contrizione i Padri del Concilio di Trento: “La contrizione  un dolore dell’animo e una detestazione del peccato commesso, con il proposito di non più peccare per l’avvenire” (sess. 14, cap. 4). Parlando pi„ oltre della contrizione, aggiungono: “Questo atto prepara alla remissione dei peccati, purchéƒ sia accompagnato dalla fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà di fare quanto necessario per ben ricevere il sacramento della Penitenza”. Questa definizione fa ben comprendere ai fedeli che l’essenza della contrizione non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar vita, o nell’iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e soprattutto nel detestare ed espiare le colpe della vita passata.
La contrizione è un atto della volontà‚ e sant’Agostino attesta che il dolore accompagna la penitenza, ma non è la penitenza stessa (Sermo 351, 1). I Padri Tridentini hanno espresso con il termine dolore  la detestazione e l’odio del peccato commesso, sia perchèƒ la Scrittura lo usa cos€ (dice David al Signore: “Fino a quando nell’anima mia proverà affanni, tristezza nel cuore ogni momento?”) (Sal 12,3), sia perchéƒ il dolore nasce dalla contrizione in quella parte inferiore dell’anima che è sede delle passioni. Non a torto, pertanto, è stata definita la contrizione come un dolore, perché produce appunto il dolore; i penitenti, per esprimere meglio il loro dolore, usavano mutare le vesti, come si ricava dalle parole del Signore: “Guai a te, Corazin, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti presso di voi, già da tempo avrebbero far penitenza in cenere e cilicio” (Mt 11,21; Lc 10,13).
II dolore d’aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore; la misura della contrizione dev’essere la carità. Giova qui notare che la Scrittura adopera i medesimi termini per esprimere l’estensione della carità e della contrizione. Dice infatti della carità: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore” (Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27); della seconda il Signore dice per bocca del profeta: “Convenitevi con tutto il vostro cuore” (Gl 2,12).
Come Dio è il primo dei beni da amare, così il peccato è il primo e il maggiore dei mali da odiare. Quindi, la stessa ragione che ci obbliga a riconoscere che Dio deve essere sommamente amato, ci obbliga anche a portare sommo odio al peccato. Ora, che l’amore di Dio si debba anteporre a ogni altra cosa, sicché non sia lecito peccare neppure per conservare la vita, lo mostrano apertamente queste parole del Signore: “Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me” (Mt 10,37); “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà” (Mt 16,25; Mc 8,35).
Sarà utile ammonire i fedeli ed esortarli nella maniera più efficace a esprimere un particolare atto di contrizione per ogni peccato mortale, poiché dice Ezechia: “Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni miei, con l’amarezza dell’anima mia” (Is 38,15).
Da quanto abbiamo detto è facile dedurre le condizioni necessario per una vera contrizione:
- La prima condizione è l’odio e la detestazione di tutti i peccati commessi. Se ne detestassimo soltanto alcuni, la contrizione non sarebbe salutare, ma falsa e simulata, poiché scrive san Giacomo: “Chi osserva tutta la legge e in una sola cosa manca, trasgredisce tutta la legge” (Gc 2,10);
- La seconda è che la contrizione comprenda il proposito di confessarci e di fare la penitenza;
- La terza è che il penitente faccia il proposito fermo e sincero di riformare la sua vita, come insegna chiaramente il Profeta: “Se l’empio farà penitenza di tutti i peccati che ha commessi, custodirà tutti i miei precetti e osserverà il giudizio e la giustizia, vivrà; ne mi ricorderò più dei peccati che avrà commesso”. E più oltre: “Quando l’empio si allontanerà dall’empietà che ha commesso e osserverà il giudizio e la giustizia, darà la vita all’anima sua”. E più oltre ancora: “Convenitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità; così queste non vi torneranno a rovina. Gettate lungi da voi tutte le prevaricazioni in cui siete caduti e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo” (Ez 18,21ss).
La medesima cosa ha ordinato il Signore stesso dicendo all’adultera: “Va’ e non peccare più” (Gv 8,11) e al paralitico risanato nella piscina: “Ecco, sei risanato: non peccare più” (Gv 5,14).
Comanda il Tridentino ai preti e confessori (Dich. Cat.  Tridentino al n° 251) “Cercheranno infine i pastori d’ispirare nei fedeli un odio sommo contro il peccato, sia a motivo della sua immensa e vergognosa bruttezza, sia perché arreca gravissimi danni in quanto aliena da noi la benevolenza di Dio, da cui abbiamo ricevuti tanti beni e tanti maggiori ce ne ripromettiamo, mentre poi ci condanna alla morte eterna con i suoi acerbi tormenti senza fine.
Va ricordato che la Penitenza (oggi “confessione”) differisce dagli altri Sacramenti perché “nella Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione“, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento (sess. 14, cap. 3 De Paenit., can. 4). L’uomo, quindi, dovrà fare un esame di coscienza (l’ignoranza non scusa), dovrà essere contrito e dovrà “soddisfare” perché la soddisfazione è “l’integrale pagamento di ciò che è dovuto, poiché è soddisfacente ciò a cui nulla manca“. Esempio: ”Chi ha rubato, ormai non rubi più; lavori piuttosto con le sue mani per venire incontro alle necessità di chi soffre” (Ef 4,28).
Dal canto suo, il Sacerdote, ascoltando le confessioni dei fedeli, ha il compito di giudicare se veramente esiste in loro il pentimento richiesto per la valida assoluzione sacramentale; se questo manca,  non può concedere l’assoluzione e, se lo facesse lo stesso, commetterebbe un peccato grave di sacrilegio: il penitente pure peccherebbe gravemente. Può esserci assoluzione solo se c’è la volontà esplicita del penitente di non peccare più (il peccato prevede deliberato consenso e piena avvertenza).
Esempio: CjC 1917, Can. 2356. “Bigami, idest qui, obstante coniugali vinculo, aliud matrimonium, etsi tantum civile, ut aiunt, attentaverint, sunt ipso facto infames; et si, spreta Ordinarii monitione, in illicito contubernio persistant, pro diversa reatus gravitate excommunicentur vel personali interdicto plectantur“. (I bigami, cioè quelli che, nonostante l’impedimento del vincolo coniugale, abbiano tentato un altro matrimonio, sebbene soltanto civile, come dicono, sono per lo stesso fatto infami, e se, disprezzato l’ ammonimento dell’Ordinario persistano nell’illecito concubinaggio, secondo la diversa gravità del reato, siano scomunicati o siano puniti con un interdetto personale.)
Altro esempio: CjC 1917, Can. 855. “§ l. Arcendi sunt ab Eucharistia publice indigni, quales sunt excommunicati, interdicti manifestoque infames, nisi de eorum poenitentia et emendatione constet et publico scandalo prius satisfecerint“. “§ 2. Occultos vero peccatores, si occulte petant et eos non emendatos agnoverit, minister repellat; non autem, si publice petant et sine scandalo ipsos praeterire nequeat“. (Sono da respingere dalla Eucaristia i pubblicamente indegni, i quali sono : gli scomunicati ,gli interdetti e i manifestamente infami a meno che non risulti manifesto il loro pentimento e la loro correzione e non abbiano prima scontato la pena per il pubblico scandalo. Invero i peccatori che agiscono di nascosto, se di nascosto chiedano e il ministro non li avrà riconosciuti emendati, li respinga, invece se chiedono pubblicamente e senza scandalo non può trascurarli).
È scomunicato automaticamente: - chi ricorre all’aborto ottenendo l’effetto voluto e chi procura tale aborto; - chi è responsabile di apostasia, eresia e scisma; - l’appartenenza a logge massoniche; – ecc …
C’è un altro tipo di dolore, detto “imperfetto” che è l’attrizione. ”Il dolore imperfetto (attrizione) ci ottiene il perdono dei peccati quando è unito alla confessione“. (cit. Il mio libro di preghiere, CLS, Verrua Savoia)
E’ buona cosa comunque recitare ogni sera una preghiera o supplica a Dio affinché, in casi gravi, ci conceda la grazia della vera contrizione finale e non ci faccia perire improvvisamente. Ciò, ben inteso, deve comunque prevedere già nell’animo della persona un pentimento attuale, casomai anche recitando l’Atto di dolore. Si ricordi il lettore che comunque Dio è misericordioso ma giusto, quindi non permette che reprobi, scandalosi, peccatori contumaci, ecc … ricevano il “premio della vita eterna” che invece è riservato ai giusti. Dio non mente e non è ingiusto, quindi ognuno riceverà in base a ciò che ha dato, “sapendo che come ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore” (Col 3,24); il motivo – e non lo scopo – della ubbidienza del servo ideale è l’eredità; l’«eredità incorruttibile, immacolata» (1Pt 1,4); la «corona della giustizia» (2Tm 4,8); la «vita eterna» (Gv 6,47) .
Pubblicazione a cura di Carlo Di Pietro (clicca qui per leggere altri studi pubblicati)

Civiltà Cattolica: Del progresso evolutivo nella Chiesa Cattolica (II).

 

 

 

La Civiltà Cattolica, anno 57°, vol. III (fasc. 1348, 8 agosto 1906, pagg. 411-422), Roma 1906.

L'EVOLUZIONE DELLA CHIESA

V.

Intorno allo svolgimento, o meglio allo spargimento della Chiesa in tutta la terra, come intorno alla sua prima formazione ed alle trasformazioni progressive che possa incontrare nella carriera del tempo e dello spazio, non manca una certa varietà di opinioni. Per ragione di brevità distribuiremo gli opinatori in due classi: nella prima militano quelli che reputano avere la Chiesa già subìto qualche trasformazione, ed essere non solo suscettibile di qualche tramutamento perfettivo per ragione di adattamento o d'influenza di mezzo, ma richiederlo eziandio: a questi diamo il nome generico di progressisti. La seconda classe è di coloro che negano alla Chiesa ogni mutamento qualsiasi nella qualità delle parti che ne integrano la costituzione, che ebbe e che ha: li chiameremo col nome di conservatori.
Primo quesito, che merita una qualche considerazione, è di sapere se la Chiesa, o il regnum Dei, che Gesù fondò nel tempo della sua carriera mortale, ed in quello assai breve che scorse tra la sua risurrezione ed ascensione al cielo, ebbe una formazione embrionale, anzi se ebbe una infanzia: nel caso affermativo, la Chiesa avrebbe accolto già una prima trasformazione, che sarebbe quella della sua genesi.
A questo scopo sogliono essere arrecati due paragoni: dei quali uno è evangelico, quello cioè del grano di senapa che diventa albero grande: e l'altro, arrecato sovente dagli studiosi del progresso, è quello del bambino, anzi dell'embrione animale, che svolgendosi diventa uomo od animale adulto.
Disse Gesù in sentenza, secondo i sinottici: il regno di Dio è simile al granello di senapa, il quale è il più minuto di tutti i semi, eppure gittato in terra germina in albero così grande, che gli uccelli vengono a posare sopra i suoi rami [1].
È questa una similitudine, cioè una allegoria che Gesù fa tra la sua Chiesa ed il seme di un arbusto; quindi, secondo il proprio di tutte le similitudini, basta che il figurato quadri colla figura, secondo una qualche sua parte, perchè l'autore ottenga il suo scopo, senza che si abbia tra i due termini una rispondenza adequata. Ora schiettamente che cosa intendeva Gesù collo stabilire quel paragone? Intendeva di dimostrare la tenuità del suo regno ne' suoi primordii, il quale col progresso del tempo sarebbe divenuto vastissimo ed avrebbe accolto nel suo giro e sotto la sua, ombra infiniti uomini. Con ciò il paragone è esaurito, e non richiede altro avveramento.
Ma nel passaggio del piccolo seme in albero grande accade il caso di una vera evoluzione morfica, come abbiamo denominato lo svolgimento del seme per impulso di quella virtù seminale che in esso è racchiusa dalla mano del Creatore. Deve dunque il paragone del seme col regno di Dio essere spinto ad avverarsi anche per questo lato? Ossia oltre l'intendimento del fatto, che è il divenir grande una cosa piccola in entrambi i termini, aveva Gesù nella mente anche il modo di quell'ingrandimento?
Per ciò che riguarda l'ingrandimento del regno di Dio in terra, quell'applicazione ci sembra assurda. Primo, perchè il seme è gittato in terra, si corrompe, e nello svolgersi si esinanisce [= si annichila, si annienta. N.d.R.]: i quali fenomeni evidentemente non quadrano in modo alcuno col crescere della Chiesa, nè di nessun corpo sociale. In secondo luogo quel paragone diverrebbe ibrido, perchè stabilito tra il modo dello svolgersi di un corpo fisico, e quello di un corpo morale. Infatti il seme nel diventar pianta adulta cambia natura, là dove una società si accresce senza perdere nessuna delle parti che la costituiscono, e diventa grande rimanendo nelle sue note fondamentali quella dessa che era essendo piccola [2].
Con ciò è pure esclusa la similitudine del nascente regnum Dei con quella massa embrionale piccolissima che si dice feto: la cui prima formazione, il congiungimento cioè dell'ovolo collo spermatozoo, e il successivo svolgersi coll'assimilarsi gli elementi del sangue materno, allontanano vieppiù ogni riscontro ragionevole tra i modi diversi dello svolgimento dei due termini collocati in paragone. Tra lo svolgersi di un embrione animale in corpo organizzato e maturo, e l'ingrandirsi di un corpo sociale non si può scorgere altro punto di contatto all'infuori di un concetto comune, dell'essere cioè entrambi divenuti grandi da piccoli che erano. Ogni altro riscontro più intimo è addirittura una goffaggine.
Come poi possa dirsi che la Chiesa abbia avuto una infanzia, vedremo quindi a poco.
Per ora basti il notare, che il paragone di un bambino colla crescente Chiesa proverebbe troppo. Siccome dal bambino si svolge l'uomo adulto, così dall'uomo adulto si fa il vecchio disseccato e cadente, e poi il cadavere. La qual parte del paragone evidentemente non credo che sia nella mente di alcun progressista il volerlo applicare alla Chiesa, la quale non può diventar nè morta nè cadavere. A ogni modo se vale il primo riscontro, altrettanto ovvio è il secondo.
Intanto mi piace di suggellare questo punto con una osservazione di un critico moderno, che non manca di sale: «Grande impedimento si avrebbe in quel simile factum est regnum coelorum, che ricorre sei altre volte in questo capo (Matth., XIII), se si volesse vedere la Chiesa, trionfante o militante che sia, nell'uomo che semina il grano, nel granello di senapa, nel lievito, e nelle altre persone o cose, che sono i soggetti principali delle rispettive parabole. Si riuscirebbe a stiracchiature puerili, come quelle in cui cade chi di tutte le circostanze anche menome pretendesse l'applicazione, non badando che, come notano gl'interpreti più assennati, il più di quelle vi stanno per compimento ed ornato della parabola. Pertanto il simile factum est... importa soltanto: Egli avviene pel regno dei cieli, come se ecc. Ciò fu espresso da Marco (IV, 24) in soggetto identico, quando scrisse così: Sic est regnum coelorum, quemadmodum si homo, etc.» [3]. E così dicasi delle altre similitudini col regno di Dio, della sagena [= rete. N.d.R.], dei pesci, della margarita [= perla. N.d.R.], del tesoro, delle vergini stolte e prudenti...

VI.

Il tempo dell'infanzia che si vorrebbe dare alla Chiesa, è indubitatamente quello del suo primo esser nata, vale a dire quel primo tempo nel quale ebbe sortito tutto l'organismo integrante la sua persona morale, in quella guisa che l'infante o il bambino, quando è tale, possiede già tutto l'organismo della persona fisica che si dice homo sapiens. Vedremo poi se e come da bambina o da infante la Chiesa siasi sviluppata in adulta.
Nei tre anni della sua vita didattica o ammaestrativa, Gesù diede al suo regno tutto il corredo dottrinale, onde lo volle fornito per la sua costituzione sociale ed etica, per la sua conservazione, e per il conseguimento del fine che gli ebbe assegnato. Il qual corredo è formato dal dogma e dalla morale, e si trova registrato nei quattro evangeli. Ma altre ed infinite cose egli affidò ai suoi apostoli coll'organo della viva voce, le quali non furono registrate nei vangeli ma commesse e consegnate al collegio apostolico per essere applicate a suo tempo, nell'esplicar che farebbe il suo apostolico ministero. Tutto quel corredo, orale e scritto, constituisce il depositum fidei, lasciato da Gesù alla sua Chiesa. Insieme egli ebbe in quel tempo comunicato agli apostoli gli strumenti necessari alla formazione e conservazione della vita nova, che dovevasi vivere nel novo regno; furono quelli i sacramenti da lui istituiti (e non potevano essere istituiti se non da lui), della maggior parte dei quali si fa menzione sufficiente nel racconto evangelico, come del battesimo, dell'eucaristia, della penitenza, del matrimonio, dell'ordine. Ed in oltre aveva già eretto egli stesso le parti principali, ossia le colonne dell'edifizio dando la direzione della sua Chiesa e la primazia ad uno degli apostoli: con ciò ebbe stabilito la gerarchia, o la disposizione dei ministri, la distribuzione e la varietà degli uffizi da esercitarsi rispettivamente dai membri del novo regno.
Nella sua ossatura, nel suo organismo, nella sua integrità costitutiva, il regnum Dei o la Chiesa, era un'opera già compiuta, quando Gesù lasciò la terra. E notisi bene, essere opinione di tutti gli antichi, che nei quaranta giorni che Gesù dimorò in terra dopo la sua ascensione, egli adoperasse tutto quel tempo nel dare l'ultima mano alla composizione e alla finitezza del suo edifizio, e nell'istruire gli apostoli eziandio delle cose di ragguaglio, le quali dovessero giovare al funzionamento pratico dell'opera oramai compiutamente architettata e stabilita [4]. Le quali ultime disposizioni tutte, osserva acconciamente un valoroso cultore di studi biblici, «trasmesse dagli apostoli ai loro successori, e da questi ai loro, e così appresso insino a noi, costituiscono quel tesoro di Tradizione, che è fonte di fede divina altrettanto autorevole che la Scrittura. Da ciò si vede quanto fosse grave l'errore, onde dagli eterodossi della così detta Riforma si pretese, che tutta la fede si dovesse trovare nella Bibbia [5]» .
La nave dunque è oramai allestita, abbiamo presenti i nocchieri, apparecchiati gli attrezzi: che cosa più manca per essere varata, e per dar principio alla sua eterna navigazione nel fortunoso mare della vita?
In fatto di allestimento e di ogni maniera apparecchi interni ed esterni non le mancava più nulla, lo abbiamo veduto. Pur tuttavia mancavale una cosa, senza la quale tutto il lavorio passato e tutte le disposizioni presenti sarebbero andati a finire in nulla. Gli apostoli ancora non conoscevano lo spirito intimo del regno di Dio, nè quello della loro missione. Cosa addirittura sbalorditoia [= sbalorditiva. N.d.R.]: dopo aver visto, sentito, e toccato con mano tante maraviglie, dopo gli ultimi ammaestramenti intorno alla natura del regno suo, dati loro da Gesù risorto e glorioso, ancora immaginavano un regno terreno, nel quale Israello fosse richiamato alla gloria davidica, e restituito ad autonomia nazionale collo spezzamento del giogo romano. Infatti avendo Gesù adunato in grandissimo numero tutti i suoi, per dar loro l'ultimo commiato, e detto loro di aspettare il battesimo dello Spirito Santo, essi lo interrogarono seriamente «si in tempore hoc restitues regnum Israel». [«Signore, renderai tu adesso il regno ad Israele?» Atti I, 6. N.d.R.]
In quell'ultima parlata Gesù manifestò loro chiaramente la natura del suo regno e del loro ministero, e loro annunziò come una soprannatura, onde doveva la loro anima venir come rivestita e ritemperata per virtù dello Spirito suo, il quale discenderebbe sopra di loro, e li abiliterebbe così alla produzione di un effetto, a cui erano impari tutte le forze del mondo creato. «Voi riceverete la potenza dello Spirito Santo, il quale verrà sopra di voi, e farete testimonianza di me... fino agli estremi della terra, usque ad ultimum terrae». Si raccogliessero intanto nella ritiratezza e nella preghiera, aspettando quella venuta.
Il giorno memorando se altro mai, nel quale Gesù volle promulgare nel mondo il regno di Dio, fu l'ultimo dei giorni festosi ne' quali il popolo commemorava la promulgazione della legge del timore fatta sul Sinai; e siccome dall'uscita dall'Egitto sino alla promulgazione di detta legge passarono cinquanta giorni, il cinquantesimo (πεντεκοστὴ ἥμερα) chiudeva le feste. Lo Spirito di Dio discese in quel giorno in modo repentino e gagliardo a guisa di fragoroso vento, ed investì penetrandole di sè le anime dei destinati a spargere il regno di Dio sino agli ultimi confini del mondo.
A tanta novità di spettacolo essendo accorsa grande moltitudine di gente, che era convenuta in Gerusalemme da varie parti del mondo in occasione della festa, Pietro varò la nave: promulgò il regnum Dei con quel discorso maraviglioso, nella bocca di un pescatore trepido e rozzo, col quale per la prima volta annunziò al mondo Cristo risorto, e in nome di lui appose nel nuovo regno circa tre mila anime.

VII.

Ed ora ci si para innanzi il regnum Dei, che quinci in poi denomineremo la Chiesa, già costituito nella sua comprensione od organismo sociale, ed incorporato già in un numero distinto di associati, ossia già vigente nella sua estensione. Ora è dunque il tempo di studiare il suo progresso e la sua evoluzione nell'avvenire.
I fasti delle sue conquiste, ossia del suo spargimento, ne' primi trent'anni della sua vita sociale, ci sono narrati da S. Luca negli Atti apostolici, e da S. Paolo nelle sue lettere: sono i due più vetusti, più autentici, più venerandi monumenti della storia della Chiesa primitiva.
Dagli Atti abbiamo: l'accrescimento de' primi proseliti nel numero di cinque mila uomini, fatto pochi giorni dopo la promulgazione del regno, il qual numero col contare le famiglie di quegli uomini va portato ad un quindicimila (capo I). Vige nella Chiesa mirabile concordia, comunanza di beni, operazione di prodigi: comincia la persecuzione per parte dell'ebraismo: Pietro e Giovanni sono carcerati (II-V). Succede il primo gran fatto d'ordine interno: la istituzione dei diaconi (IV). La Chiesa allarga la sua dominazione per tutta la Samaria, sino a Cesarea (VII-VIII). Conversione di Paolo (IX). Primizie del gentilesimo, che si converte nella persona di Cornelio, centurione romano (X). Il regno di Dio si estende in Antiochia, dove i fedeli sono per la prima volta denominati cristiani (XI-XII), deliberazione dell'opera apostolica verso il gentilesimo per cura di Paolo (XIII). Predicazione paolina nell'Asia minore (XIV). Primo grande atto costituzionale della Chiesa, concilio di Gerusalemme intorno all'uso del giudaismo come porta di introduzione al cristianesimo, anno 51° di Cristo, 9° di Claudio, 14° della conversione di Paolo (XV). Paolo in Macedonia, in Tessalonica, in Atene (XVI-XVII). In Corinto, in Efeso, nell'Achaia, per ogni dove la predicazione di Paolo è attraversata dall'opposizione giudaica (XVIII). In Efeso pericoloso tumulto per Diana efesina (XIX). Paolo in Efeso, in Mitilene, in Mileto, pensiero di andare a Roma (XX). Scompiglio in Gerusalemme per opere dei giudei contro Paolo (XXI). Il quale è flagellato (XXII). È trasferito in catene a Cesarea, dinanzi a Felice preside della Giudea (XXIII), geme nella carcere per lo spazio di due anni (XXIV-XXV), appella a Cesare (XXVI), parte per l'Italia, viaggio fortunoso nel mare (XXVII): Paolo arriva in Roma, dove dal suo domicilio coatto predica e insegna la dottrina di Cristo per due anni (XXVIII).
Tali i fasti, che ci presentano il primo svolgimento e la maravigliosamente progressiva propagazione della Chiesa, nella prima trentina d'anni, che trascorsero dal suo iniziamento felice nel giorno di Pentecoste. Credo che verso l'anno 66-67 d. X., nel quale, secondo la testimonianza di tutta si può dire l'antichità, gli apostoli Pietro e Paolo cementarono col loro sangue il novello edifizio, il Vangelo era sparso nella massima parte del mondo romano. Oltre Luca negli Atti, sappiamo dall'ultimo versetto di Marco, che essi (gli Apostoli) predicarono per ogni dove: Illi autem profecti praedicaverunt ubique (XVI, 20): le quali parole certissimamente furono scritte prima dell'anno 66-67. Collo scomparire dalla terra dell'ultimo Apostolo, che accadde verso il 101-102 dell'êra nuova, la moltiplicazione delle chiese fu maggiore certamente: allora si chiuse il ciclo apostolico.
In quel tempo le chiese principali di tutto il mondo, più famose ed illustri, erano fondate, quali le chiese di Gerusalemme, di Antiochia, di Roma, di Alessandria, di Efeso, di Cesarea, di Corinto. Nelle quali tutte si viveva la vita cristiana, praticandola in tutta l'ampiezza della sua significazione: e siccome questa vita cristiana, in tutta la sua ampiezza, sarà pur quella che si praticherà nelle chiese che nel succedersi dei primi secoli e nell'avvenire dei seguenti saranno fondate in tutte le parti del mondo, è inutile il farne qui la descrizione; quello che troveremo vero nelle prime chiese e ne' primi tempi, lo troveremo pure avverato nelle chiese moltiplicate nel corso dei tempi seguenti.
Ecco dunque la Chiesa da picciol seme divenuta albero gigantesco, sotto la cui ombra trovano e troveranno riposo e riparo infiniti viventi. Or che progresso fu questo? ed in un tale progresso che evoluzione si deve attribuire alla Chiesa? Le si deve attribuire un grande progresso di accrescimento, e nessuna evoluzione.
Vale a dire, la Chiesa crebbe, si svolse, progredì in estensione, rimanendo la sua comprensione immobile ed immutata. L'accrescimento in estensione fu ottenuto allora, e si può tuttavia ottenere, col moltiplicarsi di soggetti individui i quali della Chiesa accettarono le leggi, la dottrina, la morale, i mezzi della vita; conforme sempre accade nell'accrescimento di qualsiasi corpo associato, il quale è detto moltiplicarsi colla moltiplicazione de' suoi membri. Ma la costituzione della Chiesa, che si ragguaglia nella comprensione degli elementi sostanziali che la compongono e la distinguono siccome società, non si accrebbe altrimenti, non si moltiplicò, non si svolse; ma rimase colla e nella moltiplicazione delle parti soggettive, immobile ed immutata come nel primo giorno della sua promulgazione. Così fu, nè poteva essere altrimenti, tenendo i corpi sociali un modo di propagarsi, simile a quello onde un esemplare di arte riproducendosi in copie infinite, col moltiplicarsi di queste, rimane sempre immoltiplicato, invariato, uno, immutato, ed immutabile.
Ma illustriamo storicamente questa distinzione tra le parti soggettive e la comprensione di un ente morale, che di tutto questo argomento forma la chiave, e la cui buona intelligenza toglie ogni dubbio e dissipa le oscurità.
Secondo la verità sociale e storica, la Chiesa fondata da Gesù Cristo e consegnata in iscritto ed a voce a' suoi apostoli come il suo Testamento, si trovò stabilita ed eretta di fatto, in tutte le sue parti, adequatamente, nel giorno di Pentecoste. Allora la Chiesa ebbe una dottrina, dogma e morale; una ierarchia, un capo che era Pietro, più ministri che erano gli apostoli, un soggetto che furono le tre mila anime acquistate in quel giorno, ebbe i sacramenti, di due dei quali si fa menzione esplicita, del battesimo cioè e della frazione del pane.
Trasportando il pensiero da quel giorno al giorno 1° gennaio dell'anno 1906, io chieggo a tutta la schiera dei riformisti: che cosa ha di più, nella sua costituzione, ai giorni nostri la Chiesa di Gesù Cristo? che cosa ha di meno, di quello che ebbe allora? Se vogliono appartenere alla cerchia di quella Chiesa, è necessità strettissima per loro il confessare, che in essa non trovasi nè un elemento di più nè un elemento di meno, che non vi si trovasse nel giorno memorabile di Pentecoste dell'anno di grazia 33° dell'era cristiana.
Non c'erano i diaconi, si risponderà per la prima cosa a questa nostra categorica affermazione.
Si noti in anticipato, che noi qui discorriamo con cattolici, ai quali per conseguente non possiamo, nè manco in via d'ipotesi, attribuire il pensiero od il fatto della negazione di qualsiasi articolo di fede. Ciò posto chiediamo, se, prima che dagli apostoli fossero costituiti a dispensatori del pane materiale e del pane eucaristico i primi sette diaconi, esistesse nella costituzione della Chiesa il sacramento dell'Ordine. Se rispondono di sì, sono costretti a confessare che dunque esisteva anche il diaconato, sebbene non esistessero tuttavia i diaconi. Se rispondono di no, vorremmo sapere allora da chi fu stabilito quel sacramento: non da Gesù, perchè non era più in terra; dunque dagli apostoli? ma ciò è un assurdo!
Tutti i sacramenti avendo Gesù per autore, e solo lui per autore, segue necessariamente che prima di salire al cielo Gesù medesimo ebbe fondato il sacramento dell'Ordine, dato agli apostoli la potestà ministeriale di conferire i vari gradi di quel sacramento nel tempo, nel modo, ed a quelle persone, ch'essi giudicassero conveniente, opportuno, e necessario. E così di fatto gli apostoli operarono. Cresciuto a dismisura il numero dei credenti, e sollevatosi per parte degli ebrei grecizzanti mormorio dell'essere le loro vedove non trattate a misura di uguaglianza colle vedove ebree nelle comuni sovvenzioni, gli apostoli giudicarono di costituire alcuni uomini idonei, i quali li aiutassero in una qualche parte del ministero apostolico. E così, scelti dalla comunità sette uomini segnalati per virtù, essi imposuerunt eis manus [imposero loro le mani, N.d.R.]: vale a dire gli apostoli trasmisero a quei sette quella dignità sacramentale, che Gesù aveva loro consegnata in antecesso. In ciò fare gli apostoli non aggiunsero alla costituzione della Chiesa nulla di novo, nè la Chiesa fu accresciuta di una dignità novella, ma vide spartita in un numero maggiore d'individui quella stessa dignità che si trovava ristretta in uomini meno numerosi. In altri termini la potestà dell'Ordine, rimanendo invariata nella sua comprensione, venne moltiplicata extensive, vale a dire acquistò estensione maggiore nelle parti soggettive che quella potestà incorporarono. Così a mo' d'esempio non si aggiunse nulla, nè nulla si sottrasse alla Trasfigurazione di Raffaello, quando per la prima volta se ne riprodusse la copia intera in altre tele, e quando di quel quadro immortale gli artisti ricopiarono e trasfusero nel metallo, o nel marmo, o nelle lastre incise non più che la persona di Gesù illuminato di gloria, o quella di Pietro sbalordito, o del giovane smaniante.
Nè in questa propagazione o trasfusione di potestà si può scorgere realità alcuna di evoluzionismo, chi voglia giudicare coll'intelletto sano e non giocare di fantasia. L'evoluzione è propria di corpi fisici, si esercita per impulso di forze fisicamente meccaniche, o fisiologicamente vive, e compie la sua azione in un medesimo soggetto, il quale è modificato, è accresciuto, è esinanito [= annichilato. N.d.R.] e trasformato. Alla Chiesa, società in tutti i suoi punti perfettissima, non si può assegnare nulla, nel suo prodigioso estendersi sulle moltitudini umane a traverso la successione delle generazioni e del tempo, nulla che dimostri in lei uno svolgimento di evoluzione propriamente detta. Ogni nota che appartiene alla sua comprensione è di natura sua immutabile. A toglierne solamente un apice, sarebbe mestieri che Dio fondi una nova economia, diversa affatto da quella onde è governata la presente per leggi determinate e chiare.
Ed eccoci alla questione, a' nostri giorni tanto strapazzata, vale a dire della evoluzione del dogma.
[CONTINUA]
Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo: Fascicolo Data: Anno Volume
Del progresso evolutivo nella Chiesa Cattolica 1345 26 giugno 1906 57° III
L'evoluzione della Chiesa 1348 8 agosto 1906 57° III
Della evoluzione del dogma 1350 4 settembre 1906 57° III
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento 1371 24 luglio 1907 58° III
Enciclica Pascendi testo latino 1374 18 sett. 190758° III
Enciclica Pascendi traduzione italiana 1375 28 sett. 1907 58° IV
Il modernismo filosofico (I parte) 1377 22 ottobre 1907 58° IV
Il modernismo filosofico (II parte)1379 28 novembre 1907 58° IV
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it 137927 novembre 190758° IV
Il modernismo teologico (I parte) 1381 26 dic. 1907 59° I
Il modernismo teologico (II parte)1382 8 genn. 1908 59° I
Il modernismo teologico (III parte)1384 5 febbr. 1908 59° I
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano 1386 12 marzo 1908 59° I
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione 1388 10 aprile 1908 59° II
Il modernismo ascetico1390 6 maggio 1908 59° II
Il modernismo apologetico1391 29 maggio 190859°II
Il modernismo riformista 1401 29 ottobre 1908 59°IV


NOTE:

[1] Matt. (XIII, 31) «simile est regnum coelorum...»; Marc. (IX, 30) «cui assimilabimus regnum Dei? sicut granum sinapis:...»; Luca (XIII, 20) «cui simile aestimabo regnum Dei?...»
[2] Forse queste similitudini hanno condotto vari SS. Padri ad applicare a Gesù medesimo la parabola del granello di senapa; tali S. Ilario (in Matth., cap. XIII), S. Gregorio M. (Moral., libr. 19, cap. 2), S. Agostino, (De Sanctis, Serm. 33). E siccome Gesù è la causa esemplare della trasformazione escatologica del regnum Dei nel regno della gloria, così la similitudine potrebbe applicarsi a questa acquistando certamente estensione maggiore.
[3] Curci, Il nuovo Testamento volgarizzato ed esposto, I, 84.
[4] «Per dies quadraginta apparens eis, et loquens de regno Dei» Act. I. 3.).
[5] Curci, Nuov. Test., II, 170.

Civiltà Cattolica: Del progresso evolutivo nella Chiesa Cattolica (I).




La Civiltà Cattolica, anno 57°, vol. III (fasc. 1345, 26 giugno 1906, pagg. 3-23), Roma 1906.

DEL PROGRESSO EVOLUTIVO NELLA CHIESA CATTOLICA

Quale problema di non facile soluzione, nè di piccola importanza, ci si presenta ai nostri giorni la tanto agitata questione dell'attitudine della Chiesa cattolica dinanzi al progresso ed alla turbinosa evoluzione, in cui sembra dover ogni cosa essere avviluppata e travolta. Col volgere dei tempi, col succedersi le generazioni e trapassare, coll'urto reciproco degli uomini e degli elementi nel campo delle industrie e delle scoperte moderne, mentre tutto intorno si modifica e si rinnovella, dovrà la Chiesa mantenersi immobile sempre ed immutata? immobile nella sua costituzione, immutata nel dogma, nella morale, nella ierarchia, nel culto?
Tale il quesito, per verità, non punto moderno, come quello che fu agitato già nel quinto secolo a' tempi di Vincenzo di Lerino, e trattato da vari teologi in tempi più recenti come il Newman, il Franzelin e il Mazzella; ma che a' nostri giorni è vociferato con tanto calore di appassionamento, per le bocche e le penne di una eletta di gente ammodernata, come se dall'entrata della Chiesa nella via del progresso, della evoluzione, e per tanto dell'accomodamento alle novità dei secoli, dipendesse la sua conservazione, la sua rifioritura, la sua durazione perenne. Si vede proprio, che per conto di cotesti apostoli novelli, lo stesso Spirito Santo è invecchiato!
La questione prese l'aire dalla scoperta, detta così, fatta da Carlo Darwin verso il mezzo del secolo scorso, colla quale volevasi la molteplice varietà di tutte le specie della fauna e della flora, essere provenuta dalla successiva trasformazione di una prima specie, mediante la selezione, e la trasmissione per eredità. Dalla storia naturale la teoria dell'evoluzione passò in tutti gli ordini delle scienze, e persino nella morale. Le quali teorie, insegnate in tutte le università di Europa, si riversarono poi nella pubblica opinione siccome patrimonio scientifico acquistato: il che formò quel mezzo, in mezzo al quale educati e cresciuti molti uomini, i quali da Cicerone direbbonsi novi, iuvenes et imperiti, sperimentarono la legge di adattamento, e si fecero apostoli di progresso e di evoluzione, che ora vogliono a tutti i costi veder seguiti ed abbracciati dalla Chiesa cattolica, sotto pena d'incorrere insieme col loro corruccio il pericolo dell'isolamento nel bel mezzo dell'universale progresso.
Se non che la Chiesa ascolta sì veramente le voci e gli avvisi dei fedeli, la cui universalità il progresso non vuol più denominata chiesa ammaestrata ma discente e docente insieme [1]: si adatta con una potenza di elasticità meravigliosa a tutte le condizioni, scienze, scoperte, forme governative dei tempi, degli uomini, e dei luoghi, le quali non contengono nulla di riprovevole dinanzi alla ragione sana e dinanzi alla fede manifestamente: non però per subirne in modo alcuno influenza d'intrinseca modificazione o nel suo essere o nel suo operare, sì bene per accogliere sotto la sfera della sua azione di ordine superiore, universale, e trascendente, quanto le scienze, le scoperte, e le condizioni intellettuali degli uomini possano presentare: la Chiesa tutto accoglie, tutto benedice e seconda.
In questa sua attitudine la Chiesa non cambia mai: ma non può dirsi così delle conquiste, almeno in gran parte, che si dicono scientifiche: le quali non hanno il dono dell'immobilità. Chè anzi accade spesso, che una scoperta, annunziata oggi, ben presto è sottoposta al dubbio, e poscia abbandonata siccome insussistente e falsa. E tanto è accaduto della trasformazione delle specie animali del Darwin, e del trasformismo più radicale dell'Haeckel: oggimai coteste teorie, impugnate già nel loro apparire da scienziati di prim'ordine, sono a poco a poco cadute di valore e di stima, e pressochè disdette dalla scienza, e abbandonate [2].
Eppure s'insiste tutto giorno da alcuni predicatori di cose nuove, perchè la Chiesa smetta la sua attitudine di immobilità, e si adatti alle novità della scienza e alle teorie dei fatti acquistati e compiuti. Per la qual cosa siamo venuti nel consiglio di trattare con una certa ampiezza la questione, e d'investigare quanto e come la Chiesa cattolica possa e debba essere suscettibile di evoluzione, di progresso, e di riforma.

I.

Per la prima cosa reputiamo necessario di premettere la spiegazione dei termini, a fine di acquistare e dar luce maggiore alle cose che tratteremo, e di evitare la confusione, che quasi sempre suole accompagnare le questioni complesse, delle quali per non comprendere se non una parte, ed ordinariamente è la parte esterna e superficiale, accade che molti parlino e schiamazzino senza intendere in tutta la sua portata il tenore di quello che dicono.
Tralasciando per ora le varie specie di evoluzione fisica, che si presentano in natura e che sono conosciute da tutti, dobbiamo dire qualche cosa della evoluzione in senso sociale o morale, che solo può riferirsi alla Chiesa od al dogma.
Evoluzione morale è quella, per cui un ente morale, detto società, acquista una modificazione di grandezza; si dirà intrinseca, quando di un corpo morale si accresce la comprensione, ed estrinseca quando la estensione in numero.
Ne' corpi morali, detti società, vanno accuratamente distinte due nozioni, vale a dire la loro comprensione, e l'estensione. La prima è il complesso delle note costitutive di una data società, per le quali essa si definisce e si distingue da tutte le altre. Così sono costituite le società commerciali, finanziarie, militari, religiose, massoniche eccetera. Ossia quelle note determinano il fine a cui una società è destinata, e le leggi onde deve vivere ed agire socialmente. La seconda designa le parti soggettive, ossia gl'individui che ricevono i costituti della società, e ne formano l'associazione concreta.
Evidentemente la comprensione di un corpo sociale rimane sempre invariata, nè può ricevere accrescimento o modificazione alcuna nelle sue note fondamentali: altrimenti cambierebbe altrimenti cambierebbe natura: laddove la estensione può crescere e moltiplicarsi indefinitamente. Così un esercito è costituito quando abbia un capo, sottofficiali, e soldati; col crescere del numero delle cerne [= truppe, N.d.R.] l'esercito si evolve, vale a dire la sua mole diventa maggiore; ma la sua costituzione di esercito, ossia la sua comprensione rimane invariata, il più o meno numero non variando la specie.
Anche i corpi morali sono capaci di quella evoluzione che abbiamo denominato morfica, e che succede in modo analogo alle trasformazioni di ordine fisico. Ciò accade quando una società da imperfetta diviene perfetta, o da uno stato figurativo passa allo stato figurato. Un tale passaggio, o evoluzione, si fa in un modo intrinseco, per una trasformazione etica che un popolo subisce, quando da un ordine politico e religioso passa ad un altro più perfetto, come fa la ninfa quando diventa crisalide. Così i popoli barbari si trasformarono, quando per opera lenta del cristianesimo s'indocilirono e divennero civilizzati. Così il popolo ebreo, lasciato il mosaismo in cui tutto era figura, si dovea trasformare in popolo novello per la costituzione del nuovo patto, al quale le figure antiche si riferivano.

II.

Applicando ora alla Chiesa queste nozioni, dobbiamo vedere le evoluzioni per le quali essa sia passata ne' tempi andati; quelle, di cui altri potrebbe dirla suscettibile o bisognosa nel tempo presente; e quelle, alle quali verrà assoggettata nel tempo avvenire.
La Chiesa infatti ci si presenta in una triplice diversità di tempo. Sempre una nella sua origine, nel suo svolgimento mondiale, nel suo fine prossimo ed ultimo, essa ci appare tuttavia in un essere ed in un atteggiamento diverso, quando la ravvisiamo ne' suoi tempi di preparazione, quando la consideriamo nel suo stato di virilità perfetta, e quando la contempliamo nell'ultima trasformazione de' suoi compiuti destini.
La Chiesa abbraccia tutta la pienezza dei tempi. Dal primo uomo, e massimamente dal segnatore dell'antico patto sino alla venuta di Gesù, essa occupa il tempo dell'antica legge e può quindi denominarsi la Chiesa antica. Trasformatasi con e per la venuta di Gesù Cristo nell'era nova del novo testamento, essa distende il suo reame sopra tutto l'universo e comprende la età che durerà quanto il mondo lontana, e può denominarsi Chiesa presente. Trasformandosi poi novissimamente col suo ingresso nel regno della gloria, la Chiesa ottiene il suo sbocciamento finale, ed inizia l'ultima fase della sua destinazione, quella cioè del coronamento, del termine, del gaudio eterno. Per riguardo a questo ultimo stadio, può denominarsi la Chiesa avvenire.
Abbiamo dunque nella Chiesa tre stati diversi di società: l'antico che finì, il presente nel quale viviamo, ed il futuro a cui aspirano i desiderii dell'umana natura. Abbiamo una evoluzione già compita nella Chiesa, ed un'altra a cui è destinata.
Questa doppia evoluzione è parte dell'oggetto di questo studio: col quale ci spianiamo la via a scorgere e ad investigare se nella Chiesa presente si possa dare l'uscita a qualche progresso, a qualche altra evoluzione, che sia richiesta o dalla sua natura, o dalle leggi di adattamento, o dagli schiamazzi di gente progressista che forse non sa quello che si dice, ma che colle sue voci di progresso e di riforma sappiamo che fa molto di male agl'individui di essa Chiesa.
Fine supremo della Chiesa cattolica, nel corso di tutta la sua carriera, fine a lei comune in tutte le parvenze della sua manifestazione nella terra e nel cielo, fu, è, e sarà uno solo: l'avvenimento del regno di Dio o del regno dei cieli. Tra le quali due espressioni passa sì veramente una differenza, il regno di Dio riguardando propriamente la terra, la durata della vita umana nella età del tempo, e l'esercizio morale delle facoltà dell'uomo, colle quali adempie in terra la legge proclamata dalla costituzione di quel regno; e il regno dei cieli riferendosi strettamente alla vita di trasformazione ultima, nella quale l'umanità rinnovellata, fuori di tempo, fuori di libertà di operare il male, fuori di merito, inizia la vita del premio dopo la lotta, accoglie in sè l'irradiazione della divinità svelata, ossia la beatitudine suprema, il termine, il riposo, la fruizione eterna nel seno di Dio: il vero regno dei cieli. I due regni hanno per soggetto l'uomo, e Dio per fine: sono congiunti insieme come due fini, dei quali uno è l'ultimo, e l'altro gli è subordinato come mezzo alla consecuzione del primo: in quest'altro è la prova, in quello il coronamento; nella terra quel regno è presentato al libero arbitrio, nel cielo è goduto in modo soverchiante la libertà; nella terra si semina il merito, nel cielo si raccoglie la palma; nell'uno si esercita la grazia, nell'altro sfavilla la gloria.
Tali sono le attitudini dei due regni, riguardati nel soggetto che è l'uomo, nel fine ch'è Dio, nel luogo che sono la terra ed il cielo. Considerandolo nel suo essere morale, o in se stesso, il doppio regno ci si presenta in un modo proporzionatamente diverso e strettamente congiunto. Il regno di Dio in terra è conosciuto dalla sua costituzione, ossia dal complesso di quelle leggi che la compongono: la sua carta sono il decalogo, il vangelo. Coll'osservanza di quanto comanda il decalogo, e colla pratica di ciò che si contiene nel vangelo, si ottiene in terra il regno di Dio, e si è incamminati al possesso del regno dei cieli. La morte segna il punto del passaggio dall'uno all'altro regno, congiunge con quel punto i confini del cielo e della terra, e compendia i destini di tutta la creazione.
A cagione dunque delle loro attinenze, e dell'ordine intrinseco che obbliga l'un regno all'altro, la nozione dell'uno richiama necessariamente l'idea dell'altro. Il perchè li possiamo comprendere entrambi in una comune denominazione col solo vocabolo di regno di Dio [3].
Al regno di Dio nella presente economia della Provvidenza, si oppone un altro regno dalle tendenze contrarie e dai diversi destini, il quale comprende tutta la parte del genere umano, che in un modo o in un altro (parlo massimamente delle nazioni civilizzate) non osserva il decalogo, guerreggia il vangelo, misconosce e dispetta Cristo. È questo il regnum Satanae, come lo disse Gesù, il regno in cui ha impero il princeps huius mundi, o l'antico avversaro come lo disse Dante Alighieri. — Così, a dirla di passata, l'universo ci si presenta sotto l'aspetto di un immenso campo di battaglia, nel quale si accolgono e si attendano tutte le generazioni umane. In esso esercitano la capitananza Cristo e Satana; e la gente universa, spartita in due schiere, milita la vita aggirandosi attorno allo stendardo che nell'uno e nell'altro campo sventola simboleggiando le due opposte milizie. L'universo futuro ci porge somiglianza di un gigantesco quadro, il cui campo e pieno della gloria dei vincitori, e sul cui sfondo si proietta la fosca tenebra dei perduti. È questo il pensiero grande, teologico, e mondialmente storico, il quale forma l'ordito di quel capolavoro di S. Agostino, che s'intitola De civitate Dei.
Ora del regno di Dio dobbiamo considerare la genesi e la costituzione, per istudiarne poi la suscettibilità di progresso e di evoluzione, prima della trasformazione ultima od escatologica, come la denominano neotericamente.

III.

Il regnum Dei in terra ha Gesù Cristo per generatore, il quale gli ha data tale costituzione, per ogni parte così determinata, e così assoluta, da non comportare nella sua comprensione nè progresso nè evoluzione di sorta alcuna.
L'Autore, la vita e l'anima, il legislatore, il conservatore, il consumatore del regno di Dio era, è, e sarà Gesù Cristo, figliuolo di Dio, il Messia. il legislatore, il Redentore, il giudice escatologico, il Re. Egli animò tutto il mondo antico della speranza della sua prima parusia o venuta sopra la terra: ma in modo specialissimo la idea, la figura, l'irraggiamento di lui venturo occupò le anime di tutto un popolo, le cui fortune, la cui costituzione politica, la cui stessa ragione di essere s'incentravano in lui, in lui tendevano, e lui idoleggiavano in quella guisa, che le forze seminali di un frutto spinte da un arcano impulso vitale, secondate dai succhi alimentatori della terra e dell'acqua, e riscaldate dall'almo sole, tendono ad impersonarsi, se è lecito dir così, nelle ultime forme del loro compimento definitivo.
Quel popolo, nel quale l'idea dominatrice era l'idea del Messia, si formò e si svolse vivendo una vita del tutto soprannaturale, sia perchè Iddio fu il suo formatore, il suo legislatore, e la sua guida: sia perchè era l'erede portatore nel suo seno della grande promessa, che a lui solo in modo chiaro e solenne era stata affidata: sia perchè il suo organismo sociale era nelle leggi, nella religione, nel costume, nelle memorie nazionali mosso e regolato dalla presenza del Messia venturo. Vale a dire, il Messia regnava già in quel popolo, ma in figura, in isperanza, in fede, in amore. Egli stesso, prima che nascesse, impresse la sua immagine, delineò la sua figura, riaccese il desiderio di sè in tutte le generazioni di quel popolo con molti e svariati modi. Abele, Isacco, e Giuseppe ne figurarono la persona e le sorti; l'agnello, il passaggio nel deserto, la pietra zampillante acqua viva, il simulacro di bronzo, il capro espiatore delle colpe sociali, ne accennavano le virtù taumaturghe: e le bocche dei profeti ne delineavano le fattezze, le fortune, e i portenti, come se la stessa persona dell'aspettato, moventesi tuttavia nella lontananza dei secoli, stesse loro dinanzi allo sguardo.
Israele, che denominossi il popolo di Dio, era veramente la chiesa antica, l'antico testamento, il primo regno di Dio. Gesù Cristo, era nel loro mezzo, ma in figura; eppure anche così la fede in lui, espressa dai popoli, era l'unico mezzo, allora come sempre, della loro salute, vale a dire della loro giustificazione; Gesù invocato dalle voci, dai segni come a dire convenzionali, quali erano la circoncisione, l'espiazione, e gli altri riti cerimoniali dell'antica legge, si sporgeva dal balzo dell'avvenire e profondeva in quelle anime coll'onda della grazia santificante la salute e la pace. Quei segni invocatori, o se si vuole quei richiami, non erano essi pure se non figure di altri segni sensibili produttori della salute, ossia dei sacramenti. E quel popolo colle sue ceremonie, colle sue patrie memorie, co' suoi segni santificatori in qualche modo, non era esso stesso se non una figura del futuro popolo di Dio, ossia quel popolo era il regno di Dio in figura.
Ma venuta la pienezza dei tempi, nacque l'Aspettato; e colla nascita di lui fu collocata la pietra angolare del nuovo edifizio, la cui ampiezza si doveva estendere quanto il mondo lontana: e la cui altitudine, come di gigantesca piramide, si ergerà sino al cielo, per toccare coll'estrema punta del suo vertice il vertice estremo della piramide celeste, la quale da quel confine colla terra protende ed allarga la sua distesa nel seno dell'infinito.
Gesù nella carriera della sua vita di 33 anni [4] svolse e compì l'antico regno, impose fine alle figure, fece tacere per sempre le allegorie antiche, e stabilì realmente il regno di Dio in terra. Di questo regno di Dio in terra, fondato da Gesù, bisogna con tutta esattezza determinare le basi, e ben conoscere tutte le parti.
La costituzione di un regno abbraccia il legislatore, le leggi, il reame: il fine, la sanzione, il giudice: la morale, la vita sociale, i mezzi della vita.
Del regno di Dio in terra Gesù fu il legislatore, la sua legge fu la buona notizia o il Vangelo, i sudditi ossia il suo reame gli uomini di tutto l'universo nella durata di tutto il tempo, il fine la perfezione morale dell'individuo. Di sanzione strettamente detta (prescindendo qui dal fatto che omnis potestas è stata conferita da Dio a Gesù, e da Gesù alla sua Chiesa), vale a dire di una pena ai trasgressori della sua legge, Gesù non ne ha assegnato in terra: perchè la sua legge è supremamente una legge di amore, la quale tende a trasformare le anime, e per conseguenza esige l'esercizio pieno del libero arbitrio, per quindi presentare la base alla sanzione finale, la quale base è il merito dell'individuo. Il regno di Dio è perciò un regno interno (regnum Dei intra vos est), ciò vuol dire ch'esso si esercita nel mondo delle anime, la cui massa, se così mi posso esprimere, esso regno tende a pervadere e ad occupare così, che se la assimili adequatamente. Questa osservazione è importantissima, 1°) perchè ci disvela la divinità del legislatore del regno di Dio, non essendo mai esistito nel mondo un uomo che abbia aspirato alla dominazione intima delle anime di tutto l'universo; 2°) perchè dimostra, che la virtù cristiana ha la sua sede nell'anima, essenzialmente: tutto l'apparato esterno non contando nulla, se non sia informato da motivi specificatori che movono dall'anima.
La legge data da Gesù al suo regno, sono i precetti del Vangelo, nel quale si trova la costituzione di esso regno, e il suo codice. Questo nella sua semplicità è vastissimo, e comprende in somma i due precetti massimi, i quali compendiano tutta la legge, e sono l'amare Iddio sopra tutte le cose, e il prossimo come se stesso. Questi due precetti bene stabiliti divengono due centri, d'onde pigliano vita e movimento tutti i doveri che obbligano l'uomo verso Dio, verso se stesso, e verso il prossimo: a Dio il riconoscimento del dominio di tutta la creazione, il culto interno ed esterno, l'adequata osservanza della legge sia naturale, sia rivelata, a sè la negazione di ogni godimento indebito, l'umiltà virtù novissima, che consiste nel giudicar se stesso secondo le norme della verità e della giustizia, e il considerarsi siccome pellegrino sulla terra: al prossimo la stima e l'amore, il soccorso positivo, il non vendicarsi, il perdono delle offese.
Colla pratica della legge così compendiata si ottiene il fine immediato di essa, che non e altro se non la perfezione cristiana, ossia la rispondenza della vita alle norme prescritte.
Il fine supremo della legge evangelica tocca le fortune escatologiche del regno, ed è in relazione intima colla sanzione ultramondana a tutto il reame imposta, e col giudice supremo che ne sarà l'applicatore.
Quella sanzione è il perno massiccio nel quale tutta la legge s'incardina, intorno al quale si aggira tutta la estensione della vita umana, ed alla cui suprema forza morale il legislatore Gesù ha raccomandato l'osservanza della sua legge. Quella sanzione è la rimunerazione ultima, la quale consiste nel possesso della felicità eterna data da Dio, o nell'eterna pena da Dio pure ordinata; Gesù stesso sarà il giudice, che pronunzierà la sentenza. Nulla di più semplice, nulla di più chiaro di questa sanzione; ma nulla di più formidabile, ed insieme nulla di più certo, avendola Gesù stesso proclamata ad ogni piè sospinto nella sua legislazione.
La morale, ossia il complesso delle norme che devono informare le azioni della vita cristiana, risulta da ciò che chiamasi lo spirito della legge: il quale si sente benissimo nell'anima cristiana, nelle cui facoltà si sparge come un profumo indistinto, e ridotto in esercizio compone la morigeratezza cristiana.
Tutto ciò forma il corredo regolatore della vita, ed è come si vede cosa estrinseca al reame considerato nel complesso delle persone che esso reame compongono, e non è che l'applicazione delle dottrine che ne costituiscono il patrimonio privativo. Ora dobbiamo considerare la composizione stessa di questo reame ed il suo programma scientifico, ossia studiarne l'essenza, e quindi la dottrina, le parti, l'ordine, e la correlazione di organismo che le varie parti collega in un tutto perfetto. In altri termini dobbiamo vedere la costituzione intrinseca del regno di Dio in terra, ossia la formazione materiale della società fondata da Cristo, che è la Chiesa universale. La Chiesa universale, come uscì dalla mano di Gesù, comprende nella sua essenza le seguenti cose: la morale evangelica, il dogma, la gerarchia, i sacramenti.
La morale evangelica, che del dogma costituisce pure una parte sostanziale, è il codice regolatore della vita che si ha a condurre secondo Cristo, e ne abbiamo fatto parola.
Il dogma è quella dottrina che ogni cristiano, per essere tale, deve credere ed essere disposto a professarne anche esplicitamente quegli articoli, la cui esterna professione sia necessaria alla salute: la quale dottrina forma del patrimonio scientifico cristiano la prima base, costituisce la società cristiana professionalmente, e la distingue da ogni altra società umana vivente sopra la terra: ossia il dogma appartiene alla essenza del cristianesimo. Cosiffattamente, che chiunque un solo dogma rigetti, o di esso una parte anche sola, cessa di far parte della società cristiana, o meglio di appartenere alla Chiesa cattolica, e diventa eretico, scismatico, infedele, membro assiderato o divelto.
Notisi strettamente, in primo luogo, che il dogma, ossia il vero nel dogma contenuto, è parola di Dio, dottrina sostanzialmente soprannaturale [5]: ciò torna a dire, che la ragione umana co' soli presidii delle sue forze naturali non l'avrebbe potuta conoscere mai, nè, conosciutala comecchessia, vi potrebbe aderire soprannaturalmente coll'assentimento dell'intelletto, nè colla energia della volontà: è quindi dottrina rivelata, cioè proposta a essere creduta siccome una verità, inconcussa, alla quale il motivo dell'adesione intellettuale è la stessa autorità di Dio, già proposta storicamente [6]. Si osservi per seconda cosa, che il dogma ha una origine sola, e questa e l'avere Iddio rivelato tale verità; in noi pero deriva per doppia provenienza: dalla parola scritta, o dalla parola detta agli apostoli e dagli apostoli legittimamente sino a noi tramandata. Da ciò segue: 1°) che il ciclo della rivelazione si e chiuso colla scomparsa dalla terra dell'ultimo apostolo: 2°) che a vigilare il sacro deposito della rivelazione divina, consegnato in terra, ed a governarne la economia, è necessario che il Legislatore divino ne abbia confidato il magistero vivo e perenne alla sua Chiesa, vale a dire ai suoi vicari nell'incarico di dirigerla. — Per ultimo si attenda l'animo ad un corollario d'importanza capitale, che dal detto intorno al dogma si deduce. Nel Regnum Dei in terra, ossia nella Chiesa fondata da Gesù, la rivelazione officiale è chiusa, come pure all'introduzione di nuovi dogmi è chiusa la porta. Se un dogma ci venga proposto a credere da Colui, al quale il deposito della fede è stato affidato, esso sarà cavato dal prontuario del verbo divino scritto già o tramandato, ma non verrà altrimenti introdotto per nuova rivelazione: ogni vero, o definito o definiendo siccome dogma di fede, è consegnato già nella Scrittura o nella tradizione apostolica. Ciò dimostra, in un modo quasi perentorio, che il regno di Dio, o la Chiesa fondata da Gesù, e fornito in modo compiuto di tutto il corredo che il suo Fondatore ha giudicato dover essere conveniente e necessario alla sua amministrazione, e conservazione, e funzionamento. Esso regno dunque, essa Chiesa di Gesù durerà così com'è, immobile ed immutata, sino alla seconda parousia, o venuta di Gesù, dei tempi escatologici.
La ierarchia non è altro se non l'acconcia disposizione mutua dei vari membri componenti il regno di Dio, o la Chiesa, in ordine al retto funzionamento delle parti sociali che lo integrano, ed alla più agevole consecuzione del fine alla società proposto. La ierarchia comprende dunque la serie dei ministri, ai quali e assegnato il governo e la direzione del regno o della Chiesa. Il quale, avendo la natura comune a tutte le società, è evidente che esso pure si compone di governanti e di governati; ma atteso il fine speciale che Gesù gli ha dato, e la delicatezza insieme e la rilevanza degli uffizii, onde Gesù volle rivestiti i ministri del suo regno, in ordine appunto alla migliore conducenza al conseguimento di esso fine, ne segue necessariamente nella costituzione dei ministri una qualità diversa da quella dei ministri delle altre società. Del rimanente la ierarchia essendo un fatto, e un fatto che ha Gesù per autore, essa sarà tale, almeno nelle sue linee maestre, quale Gesù fondatore ha voluto che fosse.
I sacramenti, socialmente parlando, sono il cemento che congiunge le pietre dell'edifizio colla base e colla cima. Fuori di figura, sono gli strumenti effettivi della perfezione dell'individuo cristiano, e quindi strumenti consecutori del fine del regno di Dio in ogni individuo ad esso appartenente. Abbiamo detto il fine del regno di Dio essere la perfezione individuale di ogni membro; questa perfezione si opera formalmente coll'infusione nell'anima del principio formalmente perfezionatore, che è la grazia santificante: ora i sacramenti sono stati istituiti da Gesù siccome veri strumenti che la grazia santificante infondono nell'anima: dunque i sacramenti sono gli strumenti effettivi della perfezione formale cristiana, che si dice santificazione, o giustificazione del cristiano, che è tutt'uno.
Ho parlato dei sacramenti, come entranti nella comprensione dei costitutivi del regno di Dio, non però della grazia: perchè questa è invisibile, e non appartiene, per così esprimermi, alla modanatura esterna dell'edifizio piantato da Gesù; sebbene la grazia ne informi il santuario intrinsecamente, sia come a dire l'anima del cristianesimo, come un vero rispecchiamento della stessa divinità nella sostanza dell'anima giusta, e adempia la significazione di quell'onda salutare onde l'orto cattolico si riga.
Invece i sacramenti appartengono storicamente alla costituzione del regno, avendoli Gesù storicamente istituiti, comecchè sieno cose sostanzialmente soprannaturali.

IV.

E qui non posso non notare la vera insipienza di alcuni nuovi esegeti, cattolici, i quali si sono proposti seriamente non già di escludere, almeno a parole, la soprannaturalità dai fatti evangelici che pigliano a commentare; ma per un lavoro di mente, che dicesi precisione, o atto di prescindere nello studio di una cosa un rispetto da un altro, attendono a separare in un fatto il lato storico dal soprannaturale, fermandosi a considerare il fatto solo storicamente, e prescindendo dalla vestitura del soprannaturale onde quell'avvenimento possa essere coperto. Costoro usano un tal metodo in un modo universale e come un universale canone di ermeneutica, che applicano a tutto studio nell'interpretazione dei fatti evangelici, ed in un modo speciale nello esame dei miracoli operati da Gesù, e nella fondazione dei sacramenti. Così nella risurrezione di Lazzaro ti presentano il sepolcro, gli uomini circostanti e le donne lagrimose, Gesù atteggiato a mestizia, e poi un movimento materiale, e Lazzaro in compagnia delle sorelle. Nella fondazione dell'Eucaristia, tu vedi Gesù in piedi col pane e col calice in mano, lo odi pregare e parlare, stabilire il segno di una memoria: ossia hai dinanzi agli occhi gli scheletri dei fatti di Gesù!
Cotesti nuovi interpretatori applicano la loro critica ed il loro criterio sopra la storia evangelica, come usa l'anatomico del suo bisturi sopra il tessuto di una carne vivente, il quale disgrega le parti, discerne nervi e tendini, sfiora le ossa e cava il sangue dalle vene; ma di vita, di anima, di soffio spirituale agitante la mole carnosa, il chirurgo non si cura più che tanto, prescinde, e trincia, come se non ci fosse. Del pari il neoterico esegeta adopera il suo acume nell'accumular fatti e circostanze locali, nel presentare gli elementi tutti di un fatto, e discernerli e lumeggiarli materialmente; ma dell'anima ossia del soprannaturale che quei fatti penetra come vita la carne, egli non si occupa altrimenti, egli prescinde, e tira innanzi.
Che s'ha egli a dire di cotesto metodo? S'ha a dire che è un metodo, il quale riflette l'idea protestantica, un metodo falso in sè, pericoloso ed assurdo in un interprete cattolico.
Un tal metodo è ora in uso nel mondo intellettuale del protestantesimo; se non che, come metodo protestantico non solo è legittimo, ma trovasi in perfetta consonanza logica coi principii di quella grande eresia, la quale ai nostri giorni fa tavola rasa del soprannaturale. Questa verità spaventosa è una verità di fatto, invalsa dallo Strauss, nel mezzo del secolo scorso, e continuata fino ai Sabatier e agli Harnack de' giorni nostri: e qui mi basti l'averla asserita come fatto, intorno al quale non può cadere ombra di dubbio. Il cattolico, che nell'interpretare il verbum Dei vuole compiere la significazione del suo nome, non può negare apertamente ciò che nel Vangelo è soprannaturale, perchè sarebbe un negare addirittura il Vangelo stesso sostanzialmente, essendo il soprannaturale la stessa sostanza del Vangelo, la stessa sua natura. Ma imbevuto com'è di umore protestantico, il cattolico neoterico troverà un mezzo di non negare il soprannaturale colle parole, ma di negarlo col fatto. Un tal mezzo è il metodo del prescindere dal soprannaturale nella esposizione dei fatti evangelici.
Ora un tal metodo è falso, anche storicamente parlando.
Infatti altra cosa è prescindere, ed altra cosa è escludere. Il primo è lecito in ogni questione, secondo l'adagio «abstrahentium non est mendacium»: ma si suole far sempre, in una speculazione filosofica, per transennam, per mo' d'ipotesi, per metodo dimostrativo, sempre però colle dovute presupposizioni. Invece altra cosa è l'escludere, o il non tenerne conto per modum facti, la esistenza di una cosa che è il substratum comune a tutte le considerazioni rispettive che sopra di essa si possono fare per abstractionem mentis. Quando per es. una cosa è tutta intellettuale, tutta volitiva, tutta spirituale, come l'anima umana, si può prescindere per abstractionem mentis dall'uno di questi concetti o dall'altro, mentre la mente si fissa in uno di essi; ma non si può, senza commettere una falsità, escludere, neppure per un momento, il fondo a tutti e due comune, che è la natura spirituale dell'anima, questo fondo trovandosi imbibito nel concetto reale di tutti e due. In ciò consiste la differenza tra il prescindere e l'escludere, il primo non commette errore, bensì il secondo. Così nello studiare fisiologicamente il tessuto di una mano viva, si può prescindere dalla vita, ma non la si può escludere in modo alcuno.
E tanto accade nel separare la soprannaturalità da un miracolo riferito storicamente: si commette un errore contro la legge della storia, la quale esige menzione adequata di tutti gli elementi che costituiscono un fatto: ora, essendo verissimo che il soprannaturale s'identifica sostanzialmente col miracolo che è un fatto, perciò appunto il soprannaturale non può essere escluso in nessun modo dalla relazione storica che se ne faccia. Quando io considero per es. la risurrezione di Lazzaro, non posso, nella relazione della parte storica che concerne quell'avvenimento, prescindere dal nesso che congiunge il fatto di un cadavere tornato a vita colla causa produttrice di quel fatto, che è la parola «Lazare, veni foras». Il prescindere da quel nesso, vale a dire il non considerare in quel fatto la causa di esso effettiva, in quanto effettiva, è un togliere o tralasciare nello stesso fatto un elemento storico, poichè nel fatto stesso entra come parte integrante quell'elemento che lo ha prodotto. D'altra parte quell'elemento produttore del fatto, vale a dire la parola umana che comanda ad un morto di farsi vivo, è una causa sproporzionata a quell'effetto; per conseguenza in quella causa, o in quella parola, si deve trovare una forza superiore la quale elevi quella causa, ossia la renda proporzionata all'effetto. Ora quella forza è cosa del tutto soprannaturale, ossia soperchiante la potenza di una semplice parola; dunque non può venir pretermessa nella relazione storica del fatto, senza mancare alla legge della storia. E per tanto non si può, nella relazione storica di un fatto miracoloso, prescindere dal soprannaturale, anche storicamente parlando.
Che poi un tal metodo sia pericoloso, anzi assurdo in un esegeta cattolico, non è difficile a dimostrare. Infatti nella stessa erezione del regnum Dei o della Chiesa, ogni cosa è soprannaturale: esso Fondatore nella sua lunga aurora, nel suo formarsi e nel suo primo sorgere, nel suo essere teantropico, nella sua dottrina, nel dogma, nei sacramenti, nel fine immediato ed ultimo del suo regno. La nostra aggregazione al regno, il vivere in esso, l'uso dei mezzi per crescere nel suo seno e vigoreggiare... costituiscono come una vera atmosfera, nella quale viviamo, ci muoviamo, e stiamo in un modo del tutto soprannaturale. L'economia presente, secondo la quale Iddio creatore e riscattatore del genere umano conduce e governa i destini della umana famiglia, è, per confessione di tutti i teologi, soprannaturale. Essendo così la cosa, può il semplice senso comune permettere o anche solo suggerire ad un esegeta cattolico il prescindere dal soprannaturale nel trattar di una cosa che è tutta intimamente soprannaturale? Sarebbe come il trattare della circonferenza prescindendo dalla rotondità, di un triangolo prescindendo da' suoi tre angoli, del lume prescindendo dalla luce, dell'intelletto umano prescindendo dal senso comune.
Studiar dunque il regnum o il verbum Dei ed insieme prescindere dal soprannaturale non è lecito assolutamente, non lo acconsente la teologia, nè il senso comune, a nessun esegeta cattolico, tanto quanto che sieno conosciuti i termini della questione, e ch'egli voglia conservar fiore del nome cattolico.
Una tale opera invece è lecita ad un protestante, il quale è condotto ad una tanto enorme abdicazione del sentimento cristiano per un discorso di logica molto bene filata. Quindi giustamente scriveva il teologo protestante David Federico Strauss nella ultima edizione della sua Vita di Gesù: «Il cristianesimo intero corre pericolo di naufragare, sotto la pressione incalzante dello spirito moderno, se non e distaccato dal soprannaturale... Deve valere il seguente giudizio: l'investigazione storica e il mezzo più sicuro di rinfrancamento per tutti coloro, che sentono come una oppressione l'idea dell'avere il cristianesimo in conto di rivelazione soprannaturale, di attribuirgli a fondatore l'Uomo-Dio, e di reputar la vita di esso fondatore una serie non interrotta di fatti miracolosi.»
Questo e uno scrivere da sapiente loico [= logico, N.d.R.], da figlio genuino del protestantesimo. Il quale da questo primo passo, dell'essere cioè la investigazione storica il mezzo più efficace per la distruzione del soprannaturale, è condotto a regalarci il primo frutto logico di una tale storica investigazione, ed è, che di storia nel Vangelo non ce n'è punta. «Una cosa, dice egli, si può scorgere indipendentemente (dalle controversie intorno ai sinottici), ed e che la storia evangelica non esiste.» E per un tal passo logico egli fu condotto ad un esito tale con un argomento, il quale schiettamente ha dello sbalorditoio. Eccone le parole: «Per il nostro punto di vista, che non è puramente storico, che non è rivolto verso il passato (addio storia!), ma verso l'avvenire, un tal risultato negativo è precisamente il punto essenziale. E consiste nel riconoscere, che non vi fu nella persona e nell'opera di Gesù nulla di soprannaturale, nulla che legittimasse una fede cieca, nulla che imponesse alla umanità sopra le spalle il pondo di un'autorità immutabile [7]».
Così il teologo di Ludwigsburg assurdissimamente, ma protestanticamente bene: e tal sia di lui, e di qualche cattolico annacquato per ciò che riguarda quell'«autorità immutabile» che si vuol far riuscire gravosa siccome una piaga della Chiesa cattolica, nell'immaginazione di un «Santo» certamente spurio. Pure sulle pedate di lui incamminatisi, i dottori protestantici dell'età nostra ne hanno ritrovato le orme, ed i Sabatier, gli Harnack, e gli altrettali hanno condotto la Riforma protestantica al punto culminante della sua traettoria: al semplice deismo nel dogma, e alla filo-tero-antropia nella morale, come vedremo.
Ma ritorniamo alla costituzione del regnum Dei da Gesù eretto sopra la terra.
Il dogma e la morale evangelica, la ierarchia, i sacramenti abbiamo detto costituire il regnum Dei in terra, e comprenderne adequatamente tutte le parti che ne integrano l'edifizio. Sono le note che compongono la comprensione essenziale della società cristiana, eretta da Gesù in quel corpo sociale formato da lui e distinto da tutte le altre società umane, e denominato da lui medesimo regnum Dei o Chiesa cattolica. Come questa uscì dalle mani di Gesù, e come era in quel primo momento che iniziò la sua origine nel mondo, così ora si mostra dilatata e sparsa in tutto l'universo. Essa può venir paragonata ad un corpo vivente, nel quale il dogma e la morale insieme costituiscono come a dire l'anima ed il cuore, i sacramenti sono il sangue, la ierarchia i centri nervosi e il sistema circolatorio, e i fedeli ne compongono le membra e ne formano tutto il tessuto.
Quanto siamo venuti esponendo non è se non la rappresentazione grafica del regno di Dio o della Chiesa, come si ricava dallo studio obbiettivo dei fatti evangelici; per conseguenza la costituzione della Chiesa, nella comprensione delle sue note fondamentali, non può esser soggetta a dubbio o a polemica. Ora dobbiamo aggredire altra questione, che può essere materia di controversia; quella cioè di una qualche evoluzione, lungo la quale la Chiesa sia passata per giungere dalla sua nascita, alla sua perfezione adulta; e quella di una evoluzione o progresso, di cui ora sia capace o bisognosa sino al tempo della sua trasformazione escatologica. — Lo faremo in un prossimo studio.
[CONTINUA]
Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo: Fascicolo Data: Anno Volume
Del progresso evolutivo nella Chiesa Cattolica 1345 26 giugno 1906 57° III
L'evoluzione della Chiesa 1348 8 agosto 1906 57° III
Della evoluzione del dogma 1350 4 settembre 1906 57° III
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento 1371 24 luglio 1907 58° III
Enciclica Pascendi testo latino 1374 18 sett. 190758° III
Enciclica Pascendi traduzione italiana 1375 28 sett. 1907 58° IV
Il modernismo filosofico (I parte) 1377 22 ottobre 1907 58° IV
Il modernismo filosofico (II parte)1379 28 novembre 1907 58° IV
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it 137927 novembre 190758° IV
Il modernismo teologico (I parte) 1381 26 dic. 1907 59° I
Il modernismo teologico (II parte)1382 8 genn. 1908 59° I
Il modernismo teologico (III parte)1384 5 febbr. 1908 59° I
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano 1386 12 marzo 1908 59° I
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione 1388 10 aprile 1908 59° II
Il modernismo ascetico1390 6 maggio 1908 59° II
Il modernismo apologetico1391 29 maggio 190859°II
Il modernismo riformista 1401 29 ottobre 1908 59°IV




NOTE:

[1] La divisione ordinaria dei membri componenti la Chiesa, soleva essere di una parte detta docente, e dell'altra denominata edotta o ammaestrata. Se non che uno scrittore inglese ebbe a dire con una certa lepidezza, che la Chiesa cattolica tiene somiglianza di un treno della via ferrata, il quale sarebbe tirato dal Papa come da locomotiva, ed in cui i vescovi, i preti, ed i laici non la farebbero che da carrozzoni. Allora il Weekly Register nel suo n. de' 19 luglio 1901, credette miglior senno, che invece di edotta la parte della Chiesa che va ammaestrata si dicesse chiesa discente, docens discendo: nomenclatura, che non manca di sale nuovo. Cf. Magnier, Dissertations et discussions éxégetiques (1904). II, 205; Bainvel, De magisterio vivo et traditione (1905), p. 116.
[2] Carlo Darwin (1809-1882) pubblicò il famoso libro «On the origin of species» nel 1859, e «The descent of man» nel 1870. Il Quatrefages, dell'Istituto di Francia, nel suo Cours d'anthropologie (ann. 1889) ne confutava le dottrine in modo competente: «... La variation est partout (dans les espèces): et la trasmutation, le passage d'une espèce à une autre, le transformisme, nulle part. Les transformistes les plus consciencieux en font l'aveu.» — Nel giorno 20 gennaio di quest'anno 1906, nella prolusione al corso di zoologia e anatomia comparata dell'università di Padova, il ch. prof. Carazzi dichiarava provando solennemente, che la dimostrazione delle specie derivate da una specie stipite, del Darwin, è dimostrata per le moderne indagini una grande quanto geniale illusione. E delle teorie del neo-darwinismo, come la cernita germinale del Weissmann, la teoria della mutazione del De Vries, la somatometria, o l'applicazione delle misure matematiche alle scienze biologiche, l'ortogenesi dell'Eimer... espose la fallacia o la contraddizione. E dopo aver provato, che nella paleontologia e nella embriologia si trovano contro la teoria trasformistica le più insuperabili difficoltà, concluse egli stesso con queste parole: «Come si originarono le specie? Risulta da numerose prove, che molte si estinsero: ma non possediamo un fatto solo, che dimostri l'apparizione di una specie nuova...» (Davide Carazzi, Teorie e critiche nella moderna biologia. Padova 1906, p. 34).
[3] Strettamente il regnum Dei e il regnum coelorum denominano la Chiesa in tutta la sua estensione nel tempo e nella eternità, comprendendo quindi la militante, e la gloriosa cogli Angeli eletti e le anime beate. Noi qui ne restringiamo il senso alla chiesa militante, e alla gloriosa per modo di chiarezza, essendo pur chiaro che nel linguaggio evangelico le due nozioni, atteso la loro stretta connessione, sono adoperate indifferentemente per significare la stessa cosa.
[4] Nel dare a Gesù la vita di trenta tre anni, non intendo di entrare nella spinosa questione intorno alla data precisa della sua nascita e della sua passione: seguo ne più ne meno l'opinione popolare. Dagli ultimi lavori dei sapienti risulta che l'anno in cui morì, oscillante finora tra gli anni 29-32 dell'era nuova, possa definitivamente fissarsi all'anno 30 della sua vita vissuta in terra. Ma ogni lettore intenderà non essere qui il luogo opportuno per portare un giudizio su tale controversia.
[5] Rigorosamente i teologi per dogma intendono ogni proposizione de fide catholica, la quale cioè sia di fede non solamente in sè stessa ma eziandio relativamente a noi: e pertanto non solo sia divinamente rivelata, ma inoltre a tutti i fedeli proposta, per essere creduta siccome tale, dalla Chiesa sia coll'ordinario ed universale suo magistero, sia con qualche iudizio solenne. (Ved. Conc. Vatic. Sess. III, cap. 3). Quindi anche una verità di evidenza naturale può essere proposta dalla Chiesa a essere creduta per motivo soprannaturale, come per es. l'esistenza di Dio (Conc. Vatic., Sess. III, cap. 2).
[6] Vedi l'esempio dell'eunuco della regina Candace, al quale Filippo dopo la spiegazione del famoso passo d'Isaia conferisce il battesimo (Act.. VIII, 30-37).
[7] Strauss, Nouvelle vie de Jésus (traduz. dal tedesco di A. Nefftzer e C. Dolfus (1865), vol. I. p. X, XII, XIII.