giovedì 27 giugno 2013

MEGLIO NEOBORBONICI CHE NEOGIACOBINI






Vi riportiamo l’interessante dibattito storico-culturale tra il Prof. Gennaro De Crescenzo e la dott.ssa Antonella Orefice.
Una inevitabile “resa dei conti” su quella storiografia faziosa e menzognera, intrisa di quell’ideologia giacobina che per secoli ha fatto passare come fonte di progresso e di civiltà, una delle più sanguinose e devastanti dominazioni straniere.


Cap. Alessandro Romano

IL MATTINO e il 1799 Premesse, analisi, proposte.
Meglio neoborbonici che neogiacobini (Parte I)

Antonella Orefice ha pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione).

Orefice è stata assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato
(Corriere della Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo (contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura -scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943… lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”…
Lasciando da parte alcune perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da
Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi!
ESULTA POPOLO LAZZARO.... !
(Ma noi SIAMO ANCORA QUA........... La Nostra Repubblica è VIVA!)”.
Inevitabili alcune lettere di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e minacciose).
Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è esattamente e sistematicamente di casa negli archivi.
E più di un dubbio ci assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799 avvertivano contro quel “popolo lazzaro”
(massacrato dai franco-giacobini con non meno di 60.000 caduti!)
che si ribellò eroicamente a quella invasione: tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra governanti e governati.
Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel 1799.
Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi.
A dimostrazione della "pacatezza" e della sobrietà di intellettuali e giornalisti locali, l'autore dell'articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso piano "neoborbonici e neofascisti"
("tra neofascisti e neoborbonici.. stiamo proprio messi male!")...
E se la scommessa del futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente napoletana e meridionale?
E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico: una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina, liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle nostre idee ci fanno ben sperare… Il solito 1799 e le stragi giacobine (davvero) dimenticate Anche per Mazzini i giacobini erano traditori…
Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle “risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare altre storie.
In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità.
Sempre i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799 macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e avanzi di galera”…
Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi 80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita da pochi giacobini locali
(“una minoranza impercettibile” li definì Luigi Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone), visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano.
E di certo, del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte.
La Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri, quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e definito traditori i patrioti del 1799”.
Solo che da oltre due secoli si tirano fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine, incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault).

Fu Giuseppe Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al di sotto”
(manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento).

Si ricordano, allora, le fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni sempre molisane di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie, Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano, Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani (e l’elenco sarebbe troppo lungo).

Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile.
Solo che in qualsiasi altro posto del mondo si ricorderebbero i difensori della propria patria o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…

Napoli, prof. Gennaro De Crescenzo Movimento Neoborbonico
“Parlamento delle Due Sicilie”

Ancora verità sul 1799, sul Mattino e sui libri "giacobini" (Parte II)

Premessa: e se Il Mattino organizzasse un dibattito?

Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento.

La sig.ra Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi
(dovrebbe chiamarsi “dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da Mario Avagliano.
Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe effettivamente un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma credo che sia necessario evidenziare le lacune di ricerche archivistiche di fonti “dell’altra parte”
(e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di massacri, saccheggi e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se si tratta o no di un libro parziale o imparziale?
Sempre la sig. ra Orefice, poi, mi sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di difesa delle proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io non ho “seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della cultura ufficiale.
Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente, c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche…
La sig.ra Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose
(non è stato mai il mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti hanno manifestato il loro dissenso).
Lei stessa, del resto, in un post pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”.
Chi scrive, oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con pubblicazioni (quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a quelle raccontate dalla Orefice. Tutto qui.
Altro che “storielle” o “verità manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre) incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non amando i tribunali italiani.
In quanto alla mia critica rivolta alle classi dirigenti, la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità politiche” né è alla ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa, si è “classe dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e resta in piedi la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e nonostante un vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a quanto pare, ancora non basta), ha formato culturalmente chi ci ha rappresentato in questi anni e (come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in maniera del tutto adeguata.
Le inviamo, poi, i nostri complimenti per la pubblicazione, di altre recensioni positive del suo lavoro ma la cosa conferma quanto già scritto a proposito del monopolio della cultura ufficiale che, naturalmente, può prevedere anche recensioni positive su Repubblica o magari (è una citazione della sig.ra Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia d’Italia (e cioè di quella massoneria più volte al centro dei nostri studi e delle nostre critiche per le sue responsabilità in merito a certi processi legati all’unificazione).
Per tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle parti del Mattino) piuttosto rara (“dibattito”), come nel mio primo intervento, vorrei evitare le facili, semplicistiche e confortanti etichette (”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel merito di alcune domande alle quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna: non è forse vero che fu Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini?
Non è forse vero quanto affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3 giorni furono massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in meno di 5 mesi) oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica?
Non è forse vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre opere d’arte o che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo per non aver gridato “viva la repubblica”?
Non è forse vero che nella socialmente e culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non superavano le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi fedeli alla dinastia?
Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi (abitanti compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su tutti “l’onda dei morti” di Lauria)?

Non è forse vero che in tutto il mondo chi difende la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un esempio su tutti i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da noi viene ignorato e disprezzato?
Queste sono le domande che abbiamo rivolto alla Orefice e al Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città che, a quanto pare, non ha ancora fatto pace con la sua storia.
Concordo, infine, con la sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine ma cito il suo testo) "un'ulcera perforata" ma solo perché, dopo oltre due secoli, avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte le vittime della rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a migliaia!), dalle baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana o al Mercato stando dalla difficile parte dei vinti, ieri come oggi.
Non era il “popolo lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.

Prof. Gennaro De Crescenzo  

Fonte:


www.reteduesicilie.it

mercoledì 26 giugno 2013

“Rimosso dalla commissione d’esame perché negazionista”: intervista esclusiva al prof.Damiani

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a cura di Massimo Micaletti
 
Rimosso dalla commissione d’esame perché negazionista”: così, con l’usuale sommarietà, viene dipinta dai media locali e nazionali la vicenda del prof. Franco Damiani, docente di italiano, latino, storia e geografia nella scuola superiore e “reo” di professare tesi in qualche modo dirompenti per le coscienze senza dubbio serene e civicamente impeccabili dei ragazzi delle superiori.
 
Ora, chi scrive ha avuto qualche esperienza diretta delle sette od otto spanne che separano la realtà dalla cronaca giornalistica, perciò è stato naturale chiedere allo stesso Damiani come siano andate realmente le cose.
 
Nessun caso – si schermisce immediatamente il professore – solo una vicenda contorta, su cui la stampa ha ricamato per costruire lo “scoop” Sono stato nominato presidente di commissione per gli esami di maturità presso il liceo scientifico “Curiel” di Padova : come mio solito mi sono dunque documentato sull’istituto di destinazione e sui programmi d’esame. Proprio sul sito ho letto che in una delle due classi che avrei dovuto esaminare s’era svolto un laboratorio didattico dal tema “Negazionismi: un problema storico e filosofico”, con riferimento sia all’”Olocausto” sia al genocidio armeno. Relatori del laboratorio erano due autrici di pubblicazioni sull’argomento: per il genocidio degli armeni Antonia Arslan, autrice del libro “La masseria delle allodole”; sulla Shoah, Valentina Pisanty. La signora Pisanty è una docente universitaria di semiologia, esperta di favole, che nel 1998 scrisse, senza alcuna competenza, il libro “L’irritante questione delle camere a gas”: un goffo tentativo di critica storica sotto le apparenze di una disamina semiologica. Era evidente oltretutto che nel seminario non c’era contraddittorio: erano presentate due diverse forme di “negazionismi” ma non c’era nessun relatore, per dir così, “negazionista” (termine in realtà abominevole che in nulla rende giustizia ad una ricerca storiografica accurata ed alle sue reali motivazioni). Si dà il caso che il sottoscritto conosca la replica, dello stesso anno, di Carlo Mattogno alla Pisanty, dal titolo “L’ “irritante questione” delle camere a gas, ovvero da Cappuccetto Rosso ad… Auschwitz. Risposta a Valentina Pisanty[“, nel quale lo storico, uno dei massimi conoscitori della seconda guerra mondiale e in particolare dei campi di concentramento tedeschi, smonta seccamente e in maniera irreprensibile la ricerca della Pisanty dimostrandone l’inconsistenza storiografica e la malafede dell’autrice. Sollevavo questi rilievi in un post su Facebook, dunque non direttamente agli insegnanti o al preside del “Curiel”, ma sulla mia bacheca Facebook, riservandomi di parlarne in sede di commissione, e che cosa accade? Accade che qualcuno – non so chi – legge il mio post su Facebook e ne riferisce a chi “di dovere”. Morale: a due giorni dall’esame vengo convocato dalla scuola – dalla mia scuola, dall’istituto dove insegno io, non dal “Curiel” – ove mi si consegna un provvedimento della direzione regionale che mi notifica la nomina a presidente in un istituto agrario (!) di Montebelluna, fuori dalle province di Padova e Venezia, luogo lontano dalla mia residenza e dove comunque non potrei arrivare perché non guido. Invio così un fax di rinuncia. Il giorno 17 giugno, ad esami ormai iniziati, mi giunge una telefonata della direzione che mi offre la nomina a presidente di commissione in un istituto tecnico nel pieno centro di Padova, dunque facilmente raggiungibile: ma a quel punto, a esami iniziati, non me la sono sentita di arrivare in commissione senza essermi minimamente documentato, e in ogni caso, dopo una simile “destituzione”, non avevo più lo spirito adatto per assolvere un compito così impegnativo come la presidenza di una commissione d’esame. Così ho rifiutato ”.
 
E’ stato un caso isolato? Ha avuto in precedenza altre vicende che in qualche modo possano rifarsi all’impostazione che dà alle sue lezioni?
 
Data la delicatezza del tema e le reazioni che suscita ho imparato a lasciare accuratamente da parte il tema olocaustico. Cerco soprattutto di ispirare il mio insegnamento ai principi (anche pedagogici) del Cristianesimo, che troppo spesso vengono deformati da una certa storiografia (e non solo: l’impronta laicista nella scuola di Stato è pesante in tutte le materie). Indico testi e autori di riferimento, e agli studenti (almeno ad alcuni) il messaggio arriva; certo si deve dar loro materiale di prima mano, non rielaborazioni. Non ritengo peraltro sia un caso io sia stato spostato da tempo dal triennio al biennio, ove la storia contemporanea non si insegna (anche se, dopo il mio trasferimento al liceo, dove la storia al triennio è associata alla filosofia, cattedra per cui non ho l’abilitazione, quella del biennio è una scelta). Quando insegnavo a Mestre lessi agli studenti dell’ultimo anno (istituto turistico) alcune righe di un testo revisionista nell’ambito di una lezione sulla seconda guerra mondiale: la cosa si riseppe a fine anno durante gli esami di maturità e finì sulla stampa: ne nacquero una campagna di stampa contro di me della durata di tre mesi, una manifestazione di duemila persone contro la mia scuola per chiedere il mio licenziamento e due ispezioni ministeriali; ci furono anche due  interrogazioni parlamentari (favorevoli: on. Serena e on. Delmastro Delle Vedove). In tutto le ispezioni da me subite sono state cinque, due delle quali approdate al consiglio di disciplina a Roma: in entrambi i casi la presidente di tale organismo, dopo aver esaminato i dossier, mi chiese sorridendo perché mai l’ispezione fosse stata richiesta e che cosa ci facessi lì: non c’era infatti nessuna mancanza disciplinare, ma soltanto questioni ideologiche e metodologiche che rientravano nella sfera della libertà d’insegnamento. Quando poi, vinta la cattedra liceale, insegnavo a Piazzola sul Brenta, nel 2004, accadde quanto segue: in una lezione di storia di seconda liceo sulle origini del Cristianesimo,  giacché il libro di testo affermava che il Cristianesimo era una deviazione del giudaismo e che la Resurrezione era un fatto “metastorico”, non realmente accaduto, mi permisi di chiarire che i dati storici sulla Resurrezione esistono e che anche gli argomenti propri della religione cattolica non sono esclusivamente di fede. Aggiunsi un’approfondita spiegazione dei rapporti teologici tra Cristianesimo e giudaismo. Ebbene, a séguito di quella lezione si arrivò al punto che i genitori ordinarono agli studenti di uscire dall’aula quando io entravo, mentre il preside non prendeva alcun provvedimento: i ragazzi andavano in giro per l’istituto e nessuno faceva niente! Andò avanti per due mesi. Alla vigilia degli scrutini del primo trimestre, non avendo io potuto neppure interrogare gli allievi,  si prospettava lo spettro del “non classificato” per tutti, al  che il preside pensò bene di far sospendere (“cautelarmente”, ma comunque a metà stipendio) me (non gli studenti che andavano a spasso per la scuola!) senza neppure precisare quanto sarebbe durata la sospensione; solo a séguito di ricorso in Tribunale fu ordinato (dopo sei mesi e mezzo di sofferenze e battaglie) il mio reintegro, con pieno ripristino e rimborso anche del trattamento economico, ma si era ormai a giugno e le lezioni erano state tenute da un altro insegnante, ritenuto evidentemente innocuo”.
 
Per quali ragioni un insegnante di scuola superiore dovrebbe complicarsi la vita fino a questo punto? Cosa la spinge a continuare su questo binario?
 
Non ritengo di far nulla di straordinario. Certo, quel che insegno rappresenta un’eccezione rispetto a quello che i ragazzi si sentono dire quotidianamente, è un’impostazione diversa, ma solida e documentata; non si tratta di stravolgere i fatti, ma di raccontarli nella loro interezza. E non posso tacere che la motivazione principale è la mia fede. Mi sono accostato alla tradizione cattolica non per una via estetica, come altri, ma per una via morale, amareggiato e disorientato dallo scadimento che vedevo attorno a me, anche da parte di certo clero. Mi avvicinai a “Famiglia e civiltà” tramite il caro amico Palmarino Zoccatelli (che fu anche mio testimone di nozze) e da lì ho conosciuto diverse persone (cito in particolare Maurizio G. Ruggiero e Antonio Diano) che mi hanno introdotto ad un modo di vivere la fede che ho sentito subito mio ed autentico, una sorta di ritorno alle origini della mia educazione “preconciliare”, poi annacquata da un ambiente familiare, scolastico e studentesco (i “gruppi cattolici”) modernista, ma mai sepolta del tutto. Ricordo in particolare un convegno “legittimista” organizzato da  Pucci Cipriani a Firenze nel 1994, in cui conobbi tra l’altro il collega e scrittore Enrico Nistri, e più ancora il giorno in cui  su “Controrivoluzione” lessi una recensione di “Sodalitium”. Queste “scoperte”, specialmente la seconda,  mi entusiasmarono al punto che contattai don Francesco Ricossa, direttore di “Sodalitium” e superiore dell’IMBC,  per chiedere… se potesse concelebrare il mio matrimonio! Potete immaginare come rispose… Il 26 novembre 1995 ci fu un grande convegno “unitario” della tradizione cattolica a Ferrara, in cui conobbi lo stesso don Ricossa, don Nitoglia, Paolo Baroni, Siro Mazza, Luigi Copertino, Raimondo Gatto e tante altre figure di rilievo di questo mondo. Nell’ottobre ’96 partecipai per la prima volta al convegno di Rimini della FSSPX, dove l’amico Antonio Diano mi informò che a Lanzago di Silea (TV) c’era tutte le domeniche una Messa tradizionale. Da allora non ho più assistito, se non per dovere di stato, a “messe” moderne. Devo aggiungere che le maggiori “complicazioni” – se il vocabolo calza – non sono state sul piano professionale, ma su quello umano: ho dovuto rivedere molti rapporti, troncare amicizie di una vita, riconsiderare molte scelte. Niente peraltro sarebbe stato possibile se non avessi avuto al fianco mia moglie Daniela, una compagna serena e forte (razza friulana) che mi ha sempre convintamente assecondato nelle scelte di vita e mi ha sostenuto con il suo amore nei momenti difficili (che sono stati tanti: parlo ovviamente del piano professionale) dandomi la forza e il coraggio di non cedere allo sconforto e di proseguire la battaglia. E’ certamente un immeritato dono del Signore.
 
 
Potrebbe indicare qualche testo di riferimento per chi volesse documentarsi sulla storiografia integrale sulla Shoa, sui rapporti tra cattolicesimo ed ebraismo e sulla Tradizione cattolica?
 
Sono  filoni molto ricchi. Per limitarmi all’essenziale, posso indicare gli scritti di Carlo Mattogno e di Robert Faurisson, quanto alla questione olocaustica; gli studi di don Curzio Nitoglia e di don Ennio Innocenti sull’ebraismo e sulla gnosi spuria; il testo di Epiphanius “Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia” più gli altri consimili di Pierre Virion, di Mons. Delassus, di Mons. Meurin e di Etienne Couvert; certi studi di Roberto de Mattei e di Massimo Viglione, nonostante la differente posizione dottrinale; i preziosi volumetti divulgativi curati dall’amico Paolo Baroni (oh, i bei banchi cattolici dei convegni tradizionalisti, sempre pieni di tanta buona stampa e di tante chicche librarie!); ”tanti articoli di “Sodalitium” di “Sì sì no no” e di “Chiesa Viva”, qualcuno della “Tradizione cattolica” e di “Instaurare omnia in Christo”; le omelie stesse dei nostri sacerdoti. Di grande importanza fu per me, già nel lontano 1985, il volume “Iota unum” di Romano Amerio, che mi aprì gli occhi su quelle che egli chiamava “le variazioni della Chiesa nel XX secolo” (ero allora catechista in una parrocchia di Venezia e mordevo il freno sentendomi sempre meno in sintonia con l’ambiente). Negli anni successivi (seconda metà dei Novanta) di altrettanta importanza furono la rubrica “Vivaio” di Vittorio Messori su “Avvenire” (poi confluita nel libro “Pensare la storia” e negli altri due della stessa serie) e la fitta corrispondenza con l’Autore, benché questi poi abbia fatto scelte che mi hanno deluso; per il filone “fascista” almeno i libri di Rutilio Sermonti, di Franco Monaco, di Enzo Erra e di Filippo Giannini, quelli di Massimo Filippini su Cefalonia, la rivista “L’Uomo libero” … e potrei continuare a lungo. Credo in conclusione di avere avuto una speciale grazia del Signore, tramite la Beatissima Vergine, quella cioè di vedere con occhi  nuovi la mia vita e il mio lavoro, e il mio compito è solo quello di non essere troppo impari a questo singolare dono ricevuto”.
 
 
Fonte:
 

Gli scout inglesi “senza Dio”

Promessa
di Fabrizio Saracino
***
«Nessun uomo è buono se non crede in Dio e non obbedisce alle sue leggi. 
Per questo tutti gli Scouts devono avere una religione».
Robert Baden-Powell – Scautismo per ragazzi

La Girlguiding, l’organizzazione nazionale del Regno Unito delle “girl scout” creata dallo stesso B.P. (Baden Powell) e da sua moglie Agnes, ha annunciato che, a seguito di una consultazione approfondita, dal 1 settembre 2013 tutte le ragazze che vorranno aderire al movimento delle guide sul suolo di San Giorgio, dove lo scoutismo nacque, dovranno recitare la seguente promessa:
 
 
     I promise that I will do my best:
     To be true to myself and develop my beliefs,
     To serve the Queen and my community,
     To help other people and
     To keep the (Brownie) Guide Law.
 
In sostanza la parte in cui prima c’era “To love my God” (per amare Dio) è stata sostituita con “To be true to myself and develop my beliefs” (per essere sincera verso me stessa e far crescere le mie convinzioni). Tralasciando le altre modifiche, la cosa sconcertante che si nota leggendo l’annuncio, che trovate in inglese qui, è il fatto che non verrà data la possibilità di professare altre versioni, sostenendo come la “Promessa aggiornata” continui ad enfatizzare la crescita spirituale offerta dall’associazione.
 
Ora mi sorge spontaneo chiedermi come possa un’associazione, che per garantirsi un maggior numero di aderenti rinuncia ad uno dei suoi valori fondamentali come la fede in Dio, la cui importanza è stata spesso sottolineata dal suo stesso fondatore, garantire una qualsiasi forma di spiritualità?
Chi ha letto Baden Powell sa bene come l’agnosticismo fosse profondamente disprezzato dal fondatore  dello scoutismo e che addirittura venisse considerato come un ostacolo, una pietra di inciampo lungo il percorso educativo.
 
Il fatto che questa decisione sia stata accolta con plausi ed ovazioni da molti esponenti del Regno Unito è la riprova di una sempre più condivisa concezione individualistica e relativistica della società e, cosa ancor più preoccupante, di un fenomeno sempre più radicale di scristianizzazione e di soppressione di qualsiasi riferimento che possa essere accostato alle radici cristiane della vecchia Albione.
Ritengo che non passerà molto tempo prima che anche i nostri fratelli “boy scout” saranno costretti a seguire la stessa sorte delle sorelle guide.
 
Fonte:
 

Confessioni di un medico ex abortista

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Confessione di un ex-abortista
del dr. Bernard Nathanson
 
Sono personalmente responsabile di aver eseguito 75.000 aborti. Ciò mi legittima a parlare con autorevolezza e credibilità sull’argomento. Sono stato uno dei fondatori della National Association for the Repeal of the Abortion Laws [Associazione Nazionale per la legalizzazione dell’aborto ndr] (NARAL), nata negli Stati Uniti, nel 1968. A quel tempo, un serio sondaggio d’opinione aveva rilevato che la maggioranza degli Americani era contraria a liberalizzare l’aborto. In capo a soli 5 anni, noi riuscimmo a costringere la Corte Suprema degli Stati Uniti ad emettere la decisione che, nel 1973, legalizzò l’aborto completamente, rendendolo possibile virtualmente fino al momento del parto.
Come ci riuscimmo? È importante capire le strategie messe in atto perché esse sono state utilizzate, con piccole varianti, in tutto il mondo occidentale al fine di cambiare le leggi contro l’aborto.
 
La prima strategia fu conquistare i massmedia
 
Cominciammo convincendo i massmedia che quella per la liberalizzazione dell’aborto era una battaglia liberale, progressista ed intellettualmente raffinata. Sapendo che se fosse stato fatto un vero sondaggio ne saremmo usciti sonoramente sconfitti, semplicemente inventammo i risultati di falsi sondaggi. Annunciammo ai media che dai nostri sondaggi risultava che il 60% degli Americani era favorevole alla liberalizzazione dell’aborto. Questa è la tecnica della bugia che si auto-realizza: poche persone, infatti, desiderano stare dalla parte della minoranza. Raccogliemmo ulteriori simpatie verso il nostro programma inventando il numero degli aborti illegali praticati ogni anno negli Stati Uniti. La cifra reale era di circa centomila, ma il numero che più volte ripetemmo attraverso i media era di un milione. Ripetendo continuamente enormi menzogne si finisce per convincere il pubblico.
Il numero delle donne morte per le conseguenze di aborti illegali si aggirava su 200-250 ogni anno. La cifra che costantemente indicammo ai media era 10.000.
Questi falsi numeri penetrarono nelle coscienze degli Americani, convincendo molti che era necessario eliminare la legge che proibiva l’aborto.
Un’altra favola che facemmo credere al pubblico attraverso i media era che la legalizzazione avrebbe significato soltanto che quegli aborti, allora eseguiti illegalmente, sarebbero divenuti legali. In realtà, ovviamente, l’aborto è divenuto ora il principale metodo di controllo delle nascite negli Stati Uniti e il loro numero annuale è aumentato del 1500% dalla legalizzazione.
 
La seconda strategia fu giocare la “carta cattolica”
 
Sbeffeggiammo sistematicamente la Chiesa Cattolica e le sue “idee socialmente arretrate” e scegliemmo la Gerarchia cattolica come colpevole dell’opposizione contro l’aborto. Questo argomento fu ripetuto all’infinito. Diffondemmo ai media bugie del tipo “tutti sappiamo che l’opposizione all’aborto viene dalla Gerarchia e non dalla maggioranza dei cattolici” e “ i sondaggi dimostrano ripetutamente che la maggior parte dei cattolici vuole la riforma della legge sull’aborto”. I media bersagliarono insistentemente il pubblico americano con queste informazioni, persuadendolo che qualsiasi opposizione alla liberalizzazione dell’aborto doveva essere sotto l’influenza della Gerarchia ecclesiastica e che i cattolici favorevoli all’aborto erano illuminati e lungimiranti. Da questa affermazione propagandistica si deduceva che non esistessero gruppi antiabortisti non cattolici; il fatto che altre religioni cristiane e non cristiane fossero (e ancora sono) unamimemente antiabortiste era costantemente sottaciuto, allo stesso modo delle opinioni pro-life espresse da atei.
 
La terza strategia fu la denigrazione e la soppressione di tutte le prove scientifiche del fatto che la vita ha inizio dal concepimento.
 
Spesso mi viene chiesto che cosa mi abbia fatto cambiare idea. Come, da esponente abortista di punta, mi sono trasformato in un difensore pro-life? Nel 1973, sono diventato direttore di Ostetricia in un grande ospedale di New York City ed ho fondato l’unità di indagine prenatale, proprio quando stava prendendo il via una nuova grande tecnologia che oggi usiamo quotidianamente per studiare il feto nell’utero. Una delle principali tattiche pro-aborto è insistere sull’impossibilità di definire quando la vita abbia inizio, e che questa sia una domanda di carettere teologico o morale o filosofico ma non scientifico. La fetologia ha reso innegabilmente evidente che la vita inizia dal concepimento e che richiede tutta la protezione e la salvaguardia che ognuno di noi desidera per se stesso. È chiaro che la liberalizzazione dell’aborto è la deliberata distruzione di quella che indiscutibilmente è una vita umana. È un inaccettabile atto di violenza mortale. Si può comprendere che una gravidanza non pianificata sia uno straziante dilemma, ma cercare la soluzione in un deliberato atto di distruzione significa buttare via l’infinita ricchezza dell’ingengno umano e sottomettere il bene pubblico alla classica risposta utilitaristica ai problemi sociali.
Come scienziato so – non “credo”, ma “so” – che la vita ha inizio con il concepimento. Benché io non sia praticante [articolo scritto precedentemente alla conversione del dr. Nathanson al Cattolicesimo del 1996], credo con tutto il cuore alla sacralità dell’esistenza che ci impone di fermare in modo definitivo ed irrevocabile questo triste e vergognoso crimine contro l’umanità.

La Monarchia e le sue degenerazioni (Monarchia Assoluta e liberale) - (Parte 2°).





(Per accedere alla prima parte: http://associazione-legittimista-italica.blogspot.it/2013/06/la-monarchia-e-le-sue-degenerazioni.html).


III
 
I Borbone e l'Assolutismo in Francia.
 
 
 
 
 
 
L'ascesa di Enrico IV .
 

 
Enrico IV di Borbone
Enrico IV di Francia.
Enrico di Borbone nacque nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 1553 a Pau, all'epoca capitale del Viscontado di Béarn,  situato in Aquitania. Era figlio di Antonio di Borbone, Duca di Vendôme e di Giovanna III Regina di Navarra. La madre Giovanna, convertitasi al Calvinismo decise di educare il figlio secondo i precetti di questa eresia religione. Tutto ciò influenzò fortemente la personalità di Enrico e le sue future scelte politiche.
Nel 1572, alla morte della madre,  ereditò la Corona di Navarra , divenendo Enrico III di Navarra. Quando il Re di Francia  Enrico III, ultimo membro del ramo dei Valois-Angoulême rimasto privo di eredi, per individuare il legittimo pretendente alla Corona di Francia secondo la legge salica si dovette risalire a Luigi IX, il Santo. Attraverso il figlio cadetto di quest'ultimo, Roberto di Clermont si discese fino ad Enrico III di Navarra che, divenendo Re di Francia, assunse il nome Enrico IV. Egli fu il primo Re di Francia della Dinastia dei Borbone.
Enrico, che era ugonotto e che era stato educato in questo senso dalla convinta calvinista della madre e che  aveva allevato il figlio in questa eresia,  dopo la "Notte di San Bartolomeo" (24 agosto 1572) abiurò l'eresia e riabbracciò  la fede Cattolica. Quattro anni dopo tuttavia (1576) egli rinnegò l'abiura, tornando all'eresia protestante.
Quando giunse l'occasione di salire sul Trono di Francia,  Enrico , che non poteva diventare Re di Francia rimanendo un eretico , si convertì nuovamente al Cattolicesimo il 25 luglio 1593, scelta suggeritagli dal Granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici. Enrico , al momento della sua scelta di conversione , è famoso per aver detto una frase che , ahimè, rispecchia l'opportunismo più bieco: "Parigi val bene una messa" .
Enrico in realtà rimase ugonotto fino alla fine. Egli pose fine alle Guerre di religione iniziate diversi anni prima (1562) tra cattolici ed eretici  ugonotti con un compromesso : nell'aprile 1598 emise il cosiddetto Editto di Nantes con il quale, a certe condizioni e con certi limiti anche territoriali, veniva concessa la libertà di culto in tutto il territorio francese, ed i protestanti poterono infiltrarsi indisturbati in ogni istituzione del Regno minandola.
 
Il Duca di Sully verso il 1630.
In politica Enrico IV si affidò al suo ministro Massimiliano di Béthune, Duca di Sully, un ugonotto anticattolico  il quale  riuscì si a realizzare l'opera di ricostruzione interna in una Francia stremata da più di trent'anni di guerre civili ma ad un prezzo che la Francia avrebbe pagato nel tempo .
 
Nel 1604 introdusse la tassa detta paulette pagando la quale il funzionario acquistava, oltre agli emolumenti che gli sarebbero derivati dalla sua attività, anche la possibilità di trasmettere in eredità il suo ufficio. Rinasceva in questo modo una nobiltà di approfittatori , come aveva fatto Filippo il Bello, la noblesse de robe (nobiltà di toga), un corpo di funzionari borghesi  distinto e contrapposto all'antica nobiltà feudale, la noblesse d'epée (nobiltà di spada), la quale si vedeva nuovamente sottrarre potere e prestigio soprattutto a livello locale. In questa prospettiva, la monarchia poteva disporre, per i suoi progetti assolutistici, della fedeltà di questo nuovo ceto contro le spinte contro-assolutistiche dell'antica nobiltà: infatti, l'obiettivo che la monarchia si proponeva era esattamente quello di dissociare a livello locale gli obblighi verso l'aristocrazia feudale e la loro funzione primaria di "Corpi intermedi dello Stato". Così facendo , oltre a distruggere antiche e sagge consuetudini, siccome il denaro guadagnato non veniva più investito ma finiva in terreni e titoli, si assistette ad una graduale frenata dello sviluppo economico del paese.
L'assassinio di Enrico IV.
Raggiunta una certa stabilità interna, Enrico IV nuovamente si occupò di politica estera secondo un programma anti-spagnolo : prese accordi con gli Olandesi (protestanti), con Venezia, con Carlo Emanuele I di Savoia (Trattato di Bruzolo del 25 aprile 1610) e con Principi calvinisti tedeschi. Il progetto era ormai pronto quando nel 1610 un esasperato  cattolico, di nome François Ravaillac, accecato  dalle teorie del legittimo tirannicidio, uccise Enrico IV, mandando a monte il disegno pro-protestante del Re.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Regno di Luigi XIII
 
 

Luigi XIII di Borbone
Luigi XIII di Francia.
 
Nato nel Castello di Fontainebleau, Luigi fu il primo figlio di Enrico IV e di Maria de' Medici. Ascese al Trono all'età di nove anni dopo l'assassinio del padre. La madre diventò reggente per il figlio minorenne finché questi non compì i sedici anni e le subentrò nel governo.
 
 
 
 
 La reggenza e gli inizi al governo :
 
La politica della Reggente, ispirata da Concino Concini, e in linea con quella del marito, fu fieramente avversata dalla nobiltà, specialmente dai Condé che si sollevarono in armi fra il 1614 ed il 1616.
L'assassinio, del quale si incolpa come mandante il mite e casto Luigi XIII, di Concino Concini (24 aprile 1617), che aveva avuto una grande influenza nella politica di Maria, tolse effettivamente alla Regina Madre la sua posizione di potere. Da allora, per circa quattro anni, il governo fu nelle mani del favorito del nuovo e Cattolico  Re, Carlo, Duca di Luynes. Dopo una guerra contro la madre durata un paio di anni, Luigi si riconciliò con lei nel 1621. Nel 1624 iniziò la collaborazione con Armand-Jean du Plessis, il Cardinale Richelieu, il quale metteva gli interessi dello stato al di sopra della Chiesa stessa , che durò fino alla morte di quest'ultimo (1642). Pur pretendendo , come legittimo che sia, che ogni decisione fosse sottoposta alla sua approvazione, Luigi XIII lasciò di fatto il governo al brillante ed energico Cardinale che giocò un ruolo prevalente nell'amministrazione del suo Regno e cambiò decisamente il destino della Francia per i venticinque anni successivi, identificando con sé la politica francese di quel periodo. Richelieu ebbe due scopi preminenti in politica interna ed uno in quella estera: in politica interna, ridurre l'influenza ugonotta sulla monarchia e ridimensionare fortemente l'influenza della nobiltà francese sottomettendola al potere Regale; in politica estera, lottare contro l'Impero degli Asburgo (Sacro Romano Impero).




La lotta contro l'eresia ugonotta:


Cardinal Richelieu (Champaigne).jpg
Il Cardinale Richelieu.
Già con la pace di Montpellier (1622), a conclusione di una rivolta appiccata dagli eretici protestanti, i privilegi dei protestanti emergenti dall'Editto di Nantes furono decisamente e saggiamente  ridimensionati. Richelieu continuò poi a perseguire la sua politica attaccando le roccaforti protestanti ed in particolare quella di La Rochelle, la cui posizione sull'Atlantico (era allora il primo porto francese sull'oceano) consentiva ad essi di ricevere armi e viveri dalla flotta inglese. Dopo 14 mesi di assedio, spesso curato personalmente dal Cardinale (fu sua l'idea dello sbarramento che avrebbe impedito l'attracco alle navi inglesi), La Rochelle cadde (ottobre 1628), segnandone il declino commerciale, e la pace di Alès (1629), pur confermando agli ugonotti la libertà di culto, tolse loro il sostegno militare delle piazzeforti.









La lotta contro gli Asburgo e contro la nobiltà interna :

Sistemata la questione del potere protestante, la Francia di Luigi XIII e del Richelieu si rivolse , con gravissimo errore , contro Il Sacro Romano Impero  ed il pretesto fu la successione del Duca di Mantova, rimasto privo di eredi maschi, per la quale Richelieu prese le parti del Duca di Nevers. Ne conseguì l'invasione del Ducato di Savoia, alla quale partecipò lo stesso Re Luigi, con la quale Carlo Emanuele fu costretto (pace di Susa, 11 marzo 1629) a schierarsi con la Francia contro l'Impero. La Francia entrò poi nella Guerra dei trent'anni al fianco degli eretici che, dopo un inizio incerto, consentì alla Corona francese di incorporare nel Regno l'Artois ed il Rossiglione. Nel frattempo furono fronteggiate vittoriosamente le rivolte della nobiltà quali la cospirazione di Chalais del 1626, la ribellione del Montmorency del 1632 e quella del fratello del Re, Gastone d'Orleans, nel 1642.





 Lo sviluppo della potenza francese :

File:LouisXIII.jpg
Luigi XIII di Francia
 (tra il e il
Come risultato dell'opera di Richelieu e della sua raison d'Etat, Luigi XIII diventò uno dei primi esempi europei di monarca assoluto. Sotto Luigi XIII gli Asburgo furono costretti alla difensiva, fu costruita una potente flotta, la nobiltà francese fu fermamente tenuta sotto l'autorità del Re ed i privilegi speciali garantiti dal padre agli eretici Ugonotti furono decisamente ridotti. Furono compiute numerose opere fra le quali la modernizzazione del porto di Le Havre. Il Re fece anche tutto il possibile per cambiare la tendenza dei promettenti artisti francesi a studiare ed a lavorare in Italia. Luigi commissionò ai grandi artisti Nicolas Poussin e Philippe de Champaigne la decorazione del Palazzo del Lussemburgo. Nel 1629 fu varato il Codice Michau e nel 1635 Luigi, su ispirazione del Richelieu, creò l'Accademia di Francia. In politica coloniale Luigi XIII organizzò lo sviluppo e l'amministrazione della Nuova Francia, espanse gli insediamenti del Quebec occidentale lungo il fiume San Lorenzo dalla città di Québec a Montréal, in Africa e nelle Antille. Nel 1640 intervenne in Catalogna con l'esercito, il cui sostegno fu sollecitato dai promotori della rivolta colà esplosa fatta esplodere  contro il Regno di Spagna, il che portò all'annessione alla Francia della città di Perpignano (1642) e della regione del Rossiglione (1652).
Luigi XIII di Borbone, detto il Giusto , morì a Saint-Germain-en-Laye il 14 maggio 1643, all'età di 42 anni, e lasciò il Trono di Francia al figlio primogenito Luigi Deodato di soli 5 anni che divenne Luigi XIV di Francia.  
 

 
 
 
 
Luigi XIV e la Monarchia Assoluta
 
 
 
 
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Luigi XIV di Francia (1648).
 
 
 
Luigi XIV di Francia (Saint-Germain-en-Laye, 5 settembre 1638 – Versailles, 1º settembre 1715) , il ‘Re Sole’, è diventato la figura del monarca assoluto per antonomasia e, durante il suo Regno, la Francia divenne la maggiore potenza europea.
La Francia fu il paese dove il modello assolutistico si realizzò più ampiamente ed in maniera integrale, con l’operato di Richelieu e Mazzarino prima e, dal 1661, di Luigi XIV. Con Luigi XIV il paese più esteso e a quell’epoca più popolato d'Europa si avviò verso le forme più avanzate dell'assolutismo, offrendo un modello agli altri sovrani.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L'assolutismo integrale:
 

Mazarin-mignard.jpg
Giulio Mazarino.
Durante la prima fase del Regno di Luigi XIV, quando il Re bambino non governava, Mazzarino condusse con successo la guerra contro gli Asburgo e uscì vittorioso dalle rivolte dell'alta magistratura e della grande nobiltà: la cosiddetta ‘Fronda’, il movimento politico che aveva cercato di arrestare la politica assolutistica e l'estendersi dell'autorità regia. Nel 1661, alla morte del ministro, Luigi XIV assunse effettivamente il potere, ereditando dunque una posizione di grandissima forza sia rispetto ai nemici esterni sia rispetto ai rivali interni della monarchia.
Il programma assolutistico di Luigi XIV è sintetizzabile nella famosa frase a lui attribuita “lo stato sono io”. Per attuarlo e imporre alla Francia l'uniformità amministrativa, legislativa e religiosa, nonché il controllo dell'economia e della cultura, Luigi XIV allontanò il vecchio personale politico e si circondò di una squadra di ministri da lui presieduta,tra i quali Jean-Baptiste Colbert e François-Michel Le Tellier, agendo così in diversi settori.
Accrebbe il corpo dei funzionari alle sue dirette dipendenze e i loro compiti di controllo. In particolare, ampliò le funzioni degli intendenti: ne accrebbe il potere sull'amministrazione della giustizia nelle province, sull'ordine pubblico, sull'amministrazione finanziaria.
Promosse una politica economica di espansione mercantile, navale e coloniale, di lavori pubblici (il Canal du Midi) e di fondazione di manifatture statali (la fabbrica di cristalli di Saint-Gobain o quelle di arazzi di Beauvais).
Combatte  la minoranza ugonotta e revocò l'editto di Nantes (1685), costringendo gli eretici  protestanti  a emigrare. Inoltre, riprese la tradizione gallicana, appoggiandone le tendenze autonomistiche.
Perseguì una politica estera espansionistica e bellicista estendendo le frontiere, alla ricerca del prestigio e della grandeur politica e militare.
Una malattia si sviluppo dentro di lui, una malattia della mente , e dove prospera la malattia seguono brutte cose.
 
 
 
 
La politica dell'apparenza:
 

 
Luigi XIV di Francia (1661).
Luigi XIV praticò una deliberata politica dell'immagine e della propaganda e mise al proprio servizio scrittori, poeti, artisti utilizzando il mecenatismo culturale, la repressione (censura sulla stampa), il controllo (concessione di privilegi e monopoli agli editori), la promozione diretta di attività che esaltassero la Corona. Statue, dipinti, arazzi, medaglie, poesie, opere letterarie e musicali celebrarono sistematicamente il Re vittorioso e magnifico, ormai definito il Re Sole per lo splendore di cui si circondava.
Il risultato maggiore fu la costruzione dell'imponente reggia di Versailles, nei dintorni di Parigi, dove Luigi XIV si trasferì dal 1682. Versailles divenne nel contempo la residenza del Re e della famiglia reale; la residenza di centinaia di nobili che avevano il privilegio di un appartamento nella reggia e potevano in questo modo frequentare la corte, essere vicini al Re con tutti i vantaggi che ne derivavano; la sede di gran parte dei ministeri, dove si svolgeva l'attività di governo; il cuore culturale della Francia.
Costruendo Versailles, Luigi XIV perseguì il progetto politico di ‘addomesticare’ la più antica nobiltà del sangue ovvero di tenerla sotto controllo e sorvegliarla nella splendida cornice della dispendiosa vita di corte e, soprattutto, di allontanarla dalle proprie terre, dove aveva ancora la sua posizione tradizionale.
Nel 1683 , quando il bisogno di coesione tra le potenze cattoliche era fondamentale in un clima di pericolo mussulmano rappresentato dalle armate ottomane che assediavano Vienna, Luigi XIV , troppo preso da se stesso e dal suo prestigio, in conflitto con il Sacro Romano Impero , si alleo con il turco piuttosto che correre in aiuto della Cristianità.  
 
 
 
 
Santa Margherita Maria Alacoque, il Sacro Cuore di Gesù e la negazione del Re Sole:
 
 
Antonio Ciseri, La "Vision del Cuore di Gesù di Margherita Maria Alacoque", (1888). Firenze, Chiesa del Sacro Cuore.
Antonio Ciseri, La "Vision del Cuore di Gesù di
Margherita Maria Alacoque", (1888). Firenze,
Chiesa del Sacro Cuore.
Nel 1689,  Santa Margherita Maria Alacoque , ricevette da Gesù una rivelazione , con il compito di trasmetterla al Re francese. Margherita Maria scrisse che Gesù le aveva detto, riferendosi al Re: “Fa sapere al figlio primogenito del mio Sacro Cuore che, come la sua nascita temporale fu ottenuta grazie alla devozione ai meriti della mia santa Infanzia, così la sua nascita alla grazia e alla gloria eterna berrà ottenuta mediante la consacrazione che egli farà di se stesso al mio adorabile Cuore, che vuole trionfare sul suo e, mediante questo, sui cuori dei grandi della terra”. Continuava Nostro Signore Gesù Cristo: “Il Sacro Cuore desidera entrare con pompa e magnificenza nei palazzi dei principi e dei Re, per esservi oggi onorato tanto quanto venne oltraggiato, umiliato e disprezzato durante la sua Passione. Egli desidera di vedere i grandi della terra tanto abbassati e umiliati ai suoi piedi, quanto allora venne annichilito”.
Va notato che la consacrazione non doveva restare confinata nel suo aspetto privato, ma doveva  ridonare nella vita pubblica del Regno di Francia. Aggiungeva infatti il messaggio a Luigi XIV: “Il Sacro Cuore vuole regnare nella sua reggia, essere raffigurato sui suoi stendardi e inciso sulle sue armi, per renderle vittoriose su tutti i suoi nemici, abbattendo ai suoi piedi le teste orgogliose e superbe, per farlo trionfare su tutti i nemici della Chiesa”.
Margherita Maria così descriveva agli omaggi religiosi che il Re doveva compiere: “Volendo riparare le amarezze e le angosce sofferte, fra le umiliazioni e gli oltraggi della sua Passione, dal Cuore adorabile del suo Figlio nei palazzi dei potenti della terra, l’Eterno Padre vuole stabilire il suo impero nella Corte del nostro gran sovrano, servendosi di lui per eseguire un gran progetto, da realizzare in questo modo: far costruire un tempio nel quale venga esposto un quadro raffigurante il Cuore divino, affinché Esso possa ricevervi la consacrazione e gli omaggi del Re e di tutta la Corte”.
Luigi XIV di Francia (1684).
“Gesù ha scelto lui [il Re] come suo fedele amico, per ottenere dalla Santa Sede Apostolica l’autorizzazione della Messa in suo onore, con tutti i privilegi che devono accompagnare la diffusione di questa devozione. In questo modo, Egli vuole dispensare i tesori delle sue grazie di santificazione e di salvezza, cospargendo di benedizioni tutte le imprese del Re, rivolgendone a sua gloria e rendendone vittoriose le armi”. Non sappiamo se Luigi XIV ricevette effettivamente questa richiesta. Quello che è certo, è che questa richiesta del Sacro Cuore non venne esaudita.
E le conseguenze di questa inadempienza furono tragiche. Gli anni che seguirono la mancata corrispondenza di Luigi XIV alle richieste del Sacro Cuore segnarono l’inizio della decadenza del Regno, con l’arrivo di umiliazioni e sconfitte.
Dopo la sua morte, quella Francia che avrebbe dovuto diventare promotrice della riscossa cristiana, cedette alla crescente influenza del razionalismo e del libertinismo, che la indebolirono spiritualmente e moralmente.
Ma anche l’intero continente entrò in un lungo periodo di crisi, indicato dagli storici come  inizio della decadenza europea, e che sfociò nella tragedia della Rivoluzione Francese che cercò di cancellare ogni traccia cristiana dalla civiltà francese.
 
 

 
La morte di Luigi XIV e la successione:
 
 
 
Luigi XIV di Francia
Luigi XIV di Francia (1701).
I problemi legati alla successione ed il cattivo stato di salute intristirono gli anni finali del suo Regno. Nel 1711 era morto suo figlio il Gran Delfino; oltretutto, l'anno seguente ci fu un focolaio di vaiolo di cui morirono Luigi, Duca di Borgogna (figlio del Gran Delfino) assieme alla moglie Maria Adelaide di Savoia e al loro figlio maggiore, il Duca di Bretagna. Rimaneva, unico Principe di sangue reale erede legittimo di Luigi XIV, il figlio minore del Duca di Borgogna, Luigi, Duca d'Angiò, divenuto poi Re come Luigi XV.
Degli altri due figli del Gran Delfino, uno, Re di Spagna con il nome di Filippo V di Spagna, portatore dell'assolutismo nel Regno di Spagna,  dovette rinunciare alla successione al Trono di Francia in forza della Guerra di successione spagnola, (Trattato di Utrecht del 1713) e l'altro, Carlo, morì anch'egli prima di Luigi XIV. Il Re decise allora di estendere il diritto di successione a due dei sette figli avuti dalla Montespan, Luigi Augusto di Borbone, Duca del Maine (1670-1736), e Luigi Alessandro, Conte di Tolosa (1678-1737), anche per impedire che salisse al Trono suo nipote, l'arrivista  Filippo II d'Orléans (che comunque ebbe la reggenza per il piccolo Luigi XV).
Luigi XIV morì di cancrena ad una gamba, derivante dalla gotta contratta nell'ultimo periodo della sua vita, pochi giorni prima del suo settantasettesimo compleanno e dopo 72 anni 3 mesi e 18 giorni di Regno. Gli successe il pronipote Luigi, Duca d'Angiò con il nome di Luigi XV; poiché aveva solo cinque anni, fu posto sotto la reggenza (fino alla maggiore età nel 1723), del Duca Filippo II d'Orléans, nipote e genero del defunto Re Sole.
Pare che, alla notizia della sua morte, quella parte della Francia che durante il suo Regno venne umiliata (Parte della Nobiltà e borghesia) esultò e festeggiò, accendendo dei fuochi di gioia; si diche il suo feretro, trasportato a Saint Denis, fu oltraggiato da sputi e fango lanciato da alcuni facinorosi tra la folla: il suo Regno era stato caratterizzato non solo da successi e prestigio ma anche , e purtroppo, da errori i quali non permisero a tutti di poterlo rimpiangere. Il suo corpo fu sepolto nella Basilica di Saint Denis, dove, durante la Rivoluzione i resti vennero barbaramente dispersi dagli sgherri  rivoluzionari.




Continua...


Fonte:

Wikipedia.
www.viveleroy.fr
http://www.miliziadisanmichelearcangelo.org/


Scritto da:

Presidente e fondatore dell'A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.

Asburgo-Lorena Re di Catalunya?

L'attuale famiglia Imperiale d'Austria(sulla sinistra Carlo II d'Asburgo-Lorena).



C'è una notizia della quale siamo venuti a conoscenza da poco e che ci ha suscitato non pochi quesiti e perplessità.
La notizia consiste nel fatto che l'attuale  Famiglia Imperiale d'Austria  venga considerata dal movimento legittimista Catalano come in possibile pretensione per la "restaurazione" di un Regno di Catalunya indipendente. Ora , sapendo che la Catalunya legittimamente fa parte del Regno di Spagna andando ad aggiungersi alla grande famiglia delle "Spagne" , di che restaurazione stiamo parlando? E di quali legittimisti? Forse una "restaurazione" a modello di quelle che determinarono il negativo del Congresso di Vienna, e di legittimisti a livello del Talleyrand.
Capisco che l'attuale ed illegittimo governo spagnolo con l'altrettanto illegittimo "re Juanito" sia una piaga dalla quale liberarsi ma è altrettanto vero che liberandosi di un governo illegittimo per crearne o "restaurarne" uno che calpesti la legittimità del legittimo Reggente di Spagna Sisto Enrico, dei sui diritti  e dei suoi legittimi successori, è altrettanto negativo e , appunto , illegittimo.
Probabilmente questi legittimisti Catalani seguono il filone di coloro che si opposero al testamento di Carlo II d'Asburgo-Spagna, ultimo della sua  casata, che designò come legittimo successore Filippo d'Angiò (Filippo V di Spagna)  , nipote di Luigi XIV di Francia, e che appoggiarono le pretese degli Asburgo d'Austria.
Qualunque sia la loro motivazione , l'atto di "restaurazione" di un sedicente "Regno di Catalunya" risulterebbe un atto puramente illegittimo. L'estremismo Catalano che si separò dal saggio Carlismo per degenerare in un movimento indipendentista non ha a che fare con il legittimismo.

Per quanto siamo fortemente dubbiosi sul fatto che la famiglia Imperiale accetti tale proposta , considereremo , seguendo i criteri del legittimismo, un eventuale accoglienza di tale proposta da parte di questa casata un atto illegittimo e nefasto.



Di Redazione A.L.T.A.

martedì 25 giugno 2013

Riflessioni circa la disuguaglianza sociale

Uguaglianza
 
 
Il tema della disuguaglianza sociale è delicato ma fondamentale; richiede attenzione e perspicacia affinché, nel trattarne, non si generino equivoci. Esso, infatti, s’incrocia armoniosamente con quello dell’uguaglianza. Ciò che può apparire un paradosso, in verità, nella propria naturalezza (checché ne dicano i pensatori “illuminati”… o fulminati?), è generalmente compreso, anche se inconsciamente. San Tommaso ci dice ancora di più: non solo questa realtà è intrinseca nella natura umana, ma precede anche il peccato originale e, pertanto, appartiene alla perfezione delle cose. Leggiamo nella Summa [Iª q. 96 a. 3]: «SEMBRA che nello stato di innocenza gli uomini sarebbero stati tutti uguali. […] IN CONTRARIO sta scritto: “Le cose che sono da Dio, sono bene ordinate”. Ora, sembra che l’ordine debba consistere soprattutto nella disuguaglianza; infatti S. Agostino scrive: “L’ordine è una disposizione di cose uguali e diverse, che assegna il suo posto a ciascuna”. Dunque, nello stato primitivo, che doveva essere ordinatissimo, non sarebbe mancata la disuguaglianza. […] Da parte di Dio poteva sussistere una causa di disuguaglianza, non in virtú di una punizione e di un premio, ma in vista di un’elevazione più o meno sublime, affinché nel mondo umano risplendesse maggiormente la bellezza dell’ordine. Anche da parte della natura poteva risultare una disuguaglianza, […] senza alcun difetto.»
Se non fosse per certe fisime intellettualoidi figlie di “madama” Rivoluzione, presentare la questione sarebbe futile.
Tenterò di condurre un piccolo e non esaustivo “viaggio” dall’evidenza alla bontà di tale realtà.
Partiamo dal principio. Se la disuguaglianza da noi trattata è una relazione di disparità tra uomini, è da specificarsi il perché gli stessi entrino in relazione. Questo è a causa della necessità: ogni uomo, infatti, non basta a sé stesso per raggiungere il proprio fine, e, pertanto, si unisce ad altri uomini.
In verità l’uomo già nasce in un contesto societario (la famiglia), ed è naturalmente portato a relazionarsi coi propri simili. Per questo possiamo dire che la spiegazione appena data mostra un fatto che oscilla tra il ragionato/voluto ed il naturale/istintivo. Non a caso l’uomo fu da piú filosofi definito “animale intrinsecamente sociale/politico”, ossia: è dovuto alla sua stessa natura che si relazioni coi propri simili, e ciò dà origine ai vari consorzi. San Tommaso [S. Th., Iª q. 96 a. 4] dice: «[…] l’uomo è per natura un animale socievole: quindi gli uomini nello stato di innocenza avrebbero vissuto in società».
La relazione con gli altri, dunque, è esigenza e fonte di vantaggio. Affinché conservi questo suo valore, deve basarsi sulla disuguaglianza. A cosa gioverebbe rapportarsi ad una persona colle medesime qualità/capacità/conoscenze/possibilità nostre? Parimenti non sarebbe in grado di fornirci ciò che ci serve. Anche i rapporti d’affetto —o comunque basati su scambi non materiali— si fondano su ciò.
Se le relazioni non si basassero su di un bisogno-soddisfazione, non sarebbero né utili né piacevoli, poiché ogni piacere umano (e si badi bene a non confondere il piacere sano con quello viziato) è ordinato al soddisfacimento di un bisogno, all’ottenimento d’un bene.
La disuguaglianza è favorevole sia all’inferiore, sia al superiore. Al primo è favorevole perché il superiore ha ciò che l’inferiore non ha, e glielo fornisce. Al secondo è favorevole perché l’inferiore (che accetta la propria inferiorità) offre al superiore un qualche servigio, aiuto. Come si vede: da una parte l’esigenza, dall’altra il vantaggio (che il più delle volte è anche esigenza). Quanto detto non esclude certamente il dono “disinteressato”, puramente caritatevole, che anzi è necessario esista nella società, affinché il suo esempio spinga tutti al perfezionamento.
L’inferiorità offre l’occasione di santificarsi nell’obbedienza e nella sopportazione, mentre la superiorità di farlo nel buon esercizio dell’autorità e dei carismi, e nell’umiltà. Il possesso del bene, di qualsiasi specie sia, impegna chi lo possiede a combattere la superbia, poiché «tutto ciò che c’è di bene in noi è da Dio», mentre la mancanza del bene permette di considerare la piccolezza dell’uomo. A tal proposito, la Scrittura ci mostra come ciò che ci è donato da Dio ci è dato affinché noi lo mettiamo a disposizione dei nostri prossimi: «Ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto» [I Pietro IV,10]. Ciò che ci è dato non proviene da noi. Cionnonostante, è dovere di chi lo riceve farlo fruttare, e dunque “investirlo”, usarlo per suscitare altro bene, «imperocché la cosa è come quando un uomo, partendo per lontan paese, chiamò i suoi servi, e mise il suo nelle loro mani: dette all’uno cinque talenti, e all’altro due, e uno ad un altro, a ognuno a proporzione della sua capacità, e immediatamente si partí. […] Dopo lungo spazio di tempo ritornò il padrone di que’ servi, e chiamolli ai conti» [Mt XXV,14-19]. Tutto ciò ci dimostra come la superiorità sia un onere e ponga di fronte ad una responsabilità, per cui tutte le posizioni gerarchiche implicano un dovere da assolvere. D’altro canto «i giusti comandano non per ambizione di dominio, ma per il dovere di prendere a cuore [il bene altrui]; questo è l’ordine prescritto dalla natura, e così Dio ha creato l’uomo» [S. Agostino, XIX de Civ. Dei].
Il mutuo vantaggio/necessità garantisce l’armonia. Se non si accetta la propria posizione gerarchica, infatti, non può accettarsi il differente stato e nasce un conflitto di forza, animalesco. Presumere l’eguaglianza genera invidia, concorrenza, sfida, mancanza di rispetto e di carità, individualismo, svuotando di senso l’esistenza della società stessa.
La disuguaglianza realizza il consorzio umano, ossia gli conferisce quel continuo dare-ricevere che lega gli uomini e getta le basi per il fiorire di realtà spirituali che superano l’esigenza stessa.
 
Non serve proseguire oltre colla speculazione, perché è noto che la negazione della disuguaglianza è tesa solo a disconoscere l’autorità. Lasciamo parlare la deliziosa penna del Thibon: «Ogni reciprocità d’influenza implica una solida differenza di natura e di posizione. Proprio nelle società fortemente diversificate e gerarchizzate […] si stabiliscono, fra i membri di tali gerarchie, gli scambi piú fecondi e duraturi […]. In simili formazioni politiche ciascuno, in virtú proprio della stabilità, della “fatalità” della sua posizione, è interamente disponibile per lavorare al bene della generalità. Le classi in alto hanno le mani libere per dare, e quelle in basso per ricevere e gli scambi sono tanto più profondi quanto più è difficile a scavalcare il fossato che separa i diversi strati sociali.
La mistica democratica ha rovinato tutto ciò. Come potrebbero sussistere veri scambi all’interno della gerarchia, quando la stessa esistenza di tale gerarchia è messa in dubbio? In tal caso l’inferiore, disgustato del suo ambiente, della sua posizione, di sé stesso, da questo soffio d’aria di palude suscitato in lui dall’insegnamento dell’uguaglianza, non ha piú nulla da ricevere dal superiore, e non mira che a uguagliarsi a lui e a espellerlo. Il superiore, a sua volta, anziché governare avendo di mira il bene di tutti, tendesoltanto a difendere la sua posizione minacciata. Da una parte l’invidia, dall’altra il timore […]. Lo scambio sociale è puro e fecondo solo in un mondo in cui il dirigente si sente sicuro in alto perché il subordinato si sente al suo posto in basso. Ma oggi possiamo ancora parlare di scambi? Oggi, in alto si tratta di difendere, in basso di conquistare. […]
Non è un paradosso affermare che le barriere sociali favoriscono assai spesso la comunione umana».
San Tommaso [S. Th., I ª q. 96 a. 4] scrive ancora: « […] non può esserci vita sociale in una moltitudine senza il comando di uno, il quale abbia di mira il bene comune; poiché di suo una pluralità di persone ha di mira una pluralità di scopi, mentre un individuo mira ad uno scopo unico. Perciò il Filosofo insegna, che in ogni pluralità di cose dirette a un fine, se ne trova sempre una che ha la funzione direttiva e principale». L’autorità, dunque, è un elemento fondamentale della società, senza il quale quest’ultima cessa d’esistere, poiché, senza essa, la società non sarebbe piú un corpo composto di piú e diverse parti interdipendenti, bensí un insensato gruppo di pari che non avrebbero ragione alcuna di legarsi l’un l’altro, né potrebbero trarre vantaggio dallo stare insieme.
 
La varietà dei carismi, delle attitudini, delle capacità, costituisce veramente una ricchezza inestimabile. Se è vero (com’è) che, in seno alla società, devono esercitarsi diverse e subordinate funzioni, è altrettanto vero che tale realtà sarebbe tremendamente ingiusta, se a dei pari dovessero essere destinate funzioni d’ineguale valore.
È sbagliato ritenere che la disuguaglianza possa causare odio, poiché essa è un mezzo mediante il quale tutti sono favoriti al raggiungere il medesimo fine. La disuguaglianza “prossima”, quindi, è funzionale all’uguaglianza “in ultimo”. Infatti, la società è ordinata ai fini prossimi, che servono come aiuto al raggiungimento del fine ultimo, che è lo stesso per tutti gli uomini. Distruggere —di fatto— la società significa unicamente ostacolare l’uomo nel raggiungimento della beatitudine.
Come abbiamo visto, questo rapporto di subordinazione è essenziale, perché né potrebbero gli uomini essere perfetti —e, quindi, non necessitare d’alcunché—, né, essendo pari nella propria imperfezione, potrebbero aiutarsi.
Leggiamo [S. Th., Iª q. 47 a. 2]: «SEMBRA che la disuguaglianza delle cose non venga da Dio. Infatti è proprio dell’ottimo produrre cose ottime. Ma tra cose buone al sommo l’una non è maggiore dell’altra. Perciò appartiene a Dio che è ottimo, fare tutte le cose uguali. […] IN CONTRARIO sta scritto: “Perché un giorno sopravanza l’altro, e la luce a sua volta supera la luce, e un anno l’altro anno, e il sole il sole stesso? Dalla sapienza del Signore furono distinti”. […] SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Appartiene all’ottima causa produrre ottimo l’intero suo effetto: non già fare ottima per sé stessa ogni parte, ma ottima relativamente al tutto». Ritengo di poter applicare quanto letto anche alla società, che certamente appartiene alle cose fatte da Dio. In essa i suoi membri, ossia gli uomini, sono diseguali per quanto riguarda l’attuale, e ciò è funzionale.
A proposito di quest’ultima osservazione, possiamo citare Papa Leone XIII [Quod Apostolici muneris]: «I socialisti non cessano di proclamare che tutti gli uomini sono eguali fra loro per natura… al contrario, secondo le dottrine del Vangelo, l’uguaglianza degli uomini consiste nel fatto che tutti, dotati della stessa natura, sono chiamati alla stessa eminente dignità di figli di Dio e che avendo tutti lo stesso fine, ognuno sarà giudicato dalla stessa legge e riceverà il compenso o il castigo che meriterà. Tuttavia la disuguaglianza dei diritti tra gli uomini proviene dallo stesso Autore della natura, “dal quale ogni paternità prende il nome, in Cielo come in terra” [Ef III,15]».
 
Inevitabilmente, quanto abbiamo detto deve ricollegarsi al discorso della dignità umana. Come abbiamo distinto una disuguaglianza “prossima” da un’uguaglianza “in ultimo”, così pure distinguiamo nell’uomo due dignità: una ontologica, dovuta alla sua stessa natura ed uguale per tutti gli esseri umani, ed una derivante dagli accidenti, dalle contingenze, dipendente dai meriti e dai demeriti. Tenendo presente ciò, evitando l’errore personalista/egualitarista, si può serenamente affermare che le disuguaglianze temporali sono naturali e lecite (provengono dallo stesso Autore della natura) e non infrangono né offendono per nulla l’uguaglianza per cui «intendete adunque, che quegli che sono nella Fede son figliuoli di Abramo. […]Conciossiaché tutti voi, che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non vi ha né giudeo, né greco, né servo, né libero, non v’ha maschio, né femmina. Imperocché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesú» [Gal. III,28].
Il discorso delle dignità, però, conduce ad argomenti che non riguardano direttamente il tema da noi trattato in questo scritto, pertanto lascio tali approfondimenti al desiderio del lettore ed ad eventuali futuri scritti.
 
Ci siamo fermati a considerare l’evidenza di questa realtà, e abbiamo osservato come essa sia buona e funzionale. Possiamo, a questo punto, ipotizzarne il senso più profondo, pur rimanendo consci del fatto che non sta a noi giudicare dell’opera di Dio.
Anzitutto San Tommaso ci suggerisce: «…non in virtù di una punizione e di un premio, ma in vista di un’elevazione piú o meno sublime, affinché nel mondo umano risplendesse maggiormente la bellezza dell’ordine». Quindi, Dio ha voluto conferire alla propria creazione anzitutto la bellezza. Lessi, a tal proposito (purtroppo non ricordo né dove né di chi fosse), una riflessione. L’autore si chiedeva perché nel mondo esistessero popolazioni più o meno toccate dal Vangelo, e si rispondeva dicendo che in tal maniera le persone piú colpite dal Vangelo potevano “spiccare” in mezzo a quelle meno toccate, manifestare la propria santità come un bel fiore si fa notare in mezzo a tanti fiorellini. D’altronde, se tutti fossimo uguali, quale particolarità, quale unicità, quale bellezza potrebbe avere ciascuno di noi? Pensiamo a Maria, la Tota Pulchra… avremmo noi una Madre da contemplare e amare, se noi non fossimo così insignificanti e lei così Bella, così Santa?
Da una parte la bellezza dell’opera di Dio, dall’altra la nostra volontà. La possibilità di essere diversi è dovuta anche a ciò che noi liberamente scegliamo di fare e di essere… dice, infatti, il Dottore Angelico [S. Th., Iª q. 96 a. 3]: «Ci sarebbe stata una diversità anche nelle anime, sia per la santità, che per la scienza. L’uomo infatti è mosso ad operare non da una qualche necessità, ma dal libero arbitrio; e da ciò deriva la possibilità di applicare l’animo di più o di meno nel fare, nel volere o nel conoscere. Perciò alcuni avrebbero progredito più di altri nella santità e nella scienza». Anche la nostra Tutta Bella è diventata Chi è per la propria volontà d’assecondare il disegno di Dio.
La disuguaglianza è, quindi, manifestazione dell’amore di Dio per la propria creatura, che ha fatto bella e libera. Sicuramente non ci è dato di ribellarci, né giudicare la convenienza di ciò che Egli fa, poiché esistiamo solamente in virtù del Suo Amore e ciò che per noi vuole Dio deve bastarci, in quanto «da Lui, e per Lui e a Lui sono tutte le cose» [Rom. XI,36], e la misura in cui Egli vuole farci partecipi della Propria Beatitudine, dobbiamo accettarla come dono di incommensurabile valore.
Un’altra spiegazione può essere il fatto che le cose temporali siano anche simbolo di quelle spirituali. Per questo motivo, le disuguaglianze servono a mostrarci come Dio sia l’Autorità cui bisogna obbedire, come la Sua Sapienza superi infinitamente la nostra ed Egli sia Perfezione illimitata, come bisogna affidarsi a Lui in ogni nostra necessità. Tanti Santi hanno vissuto i rapporti umani in quest’ottica, poiché come troviamo Cristo nel povero e nel bisognoso da soccorrere, così lo troviamo nel superiore, cui bisogna sottomettersi o di cui bisogna umilmente riconoscerne le migliori qualità. Non pare sbagliato, infatti, supporre che l’esistenza stessa della società debba attribuirsi anche a questo fine, ossia a fornire simboli temporali del nostro rapporto con Dio.
Non serve lasciarsi ammaliare dalle astrattezze, è piuttosto utile apprezzare la realtà e tentare il più possibile di viverla cristianamente, poiché è un’opportunità unica, squisita e gratuita.
 
Marina
 
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