mercoledì 28 dicembre 2011

MEMORIE PER LA STORIA DEL GIACOBINISMO SCRITTE DALL' ABATE BARRUEL TRADUZIONE DAL FRANCESE. TOMO I. 1802 (Parte 2°).

                                            DISCORSO PRELIMINARE.

Col malaugurato nome di Giacobini è comparsa nei primi giorni della rivoluzione francese una setta che insegna che gli uomini sono tutti eguali e liberi, e che in nome di questa libertà ed uguaglianza disorganizzanti calpesta altari e troni, spingendo tutti i popoli alle stragi della ribellione ed agli orrori dell'anarchia.
Dai primi istanti della sua comparsa, codesta setta si trovò forte di trecentomila adepti e sostenuta da due milioni di braccia, che metteva in azione in tutta l'estensione della Francia armate di fiaccole, picche e scuri e di tutti quanti i fulmini della rivoluzione.


Incoronazione di Carlo Magno (800): la Francia diventa figlia primogenita della Chiesa. I suoi re hanno il compito di difendere e proteggere la vera religione contro i suoi nemici.


Sotto gli auspici, con le mosse, l'impulso, l'influenza e l'attività della medesima setta si sono commesse tutte le grandi atrocità che hanno inondato un vasto impero del sangue dei suoi vescovi, di sacerdoti, di nobili e ricchi e di ogni sorta di suoi cittadini di ogni rango, età e sesso. A causa di questi settari il re Luigi XVI, la regina
sua sposa, la principessa Elisabetta sua sorella, coperti di oltraggi e d'ignominia in una lunga prigionia, sono poi stati solennemente assassinati sul patibolo, e tutti i sovrani del mondo sono stati minacciati della medesima sorte. Per mezzo loro la rivoluzione francese è divenuta il flagello dell'Europa e il terrore delle potenze inutilmente alleate per porre un termine ai progressi delle armate rivoluzionarie più numerose e più devastatrici dell'invasione dei Vandali.
Chi sono dunque questi uomini usciti, per così dire, dalle viscere della terra con i loro dogmi ed i loro fulmini, con tutti i loro progetti e mezzi per realizzarli e con tutta la loro feroce risolutezza? Quale setta
divorante è mai questa? Da dove arrivano in una sola volta e quello sciame di seguaci, e quei sistemi e quel rabbioso delirio contro tutti gli altari e tutti i troni, contro tutte le istituzioni religiose e civili dei
nostri antenati? Così nuovi come il loro stesso nome, i Giacobini sono forse divenuti i più terribili strumenti della rivoluzione in quanto ne sono stati i primogeniti e figli prediletti, o forse, se già presenti
anteriormente alla rivoluzione e se essa è opera loro, che cosa furono loro stessi prima di mostrarsi? Quale fu la loro scuola e quali i loro maestri? Quali sono i loro ulteriori progetti? Finita che sia questa
rivoluzione francese, finiranno poi di tormentare la terra, di assassinare i re, di rendere fanatici i popoli?
Codeste questioni non sono per nulla indifferenti per le nazioni e per chi è incaricato della loro felicità e della conservazione della società, ed io ho creduto che non fosse impossibile risolverle; ma per
meglio riuscirvi ho reputato necessario studiare la setta, i suoi progetti, sistemi, complotti e mezzi per realizzarli proprio facendo uso dei suoi annali e rivelando tutto ciò in queste Memorie.
Anche se avessi veduto i giuramenti e le cospirazioni dei Giacobini limitarsi solo ai disastri da loro già prodotti, ed avessi osservato il sorgere di giorni più sereni ad annunziare il termine dei nostri mali
con la cessazione della rivoluzione francese, non sarei meno persuaso dell'importanza e della necessita di svelare i tenebrosi complotti dalle quali è derivata.
Le luttuose epoche della peste e dei grandi flagelli che hanno desolato la terra non sono il semplice oggetto di un'inutile curiosità, perfino quando i popoli se ne trovano liberi e sembrano tranquilli. La
storia dei veleni di solito ci insegna anche gli antidoti necessari, quella dei mostri ci dice con quali armi sono stati domati. Qualora risorgano gli antichi flagelli, e finché vi sarà timore di vederli ricomparire, giova sempre conoscere le cause che ne hanno agevolato le devastazioni, quali mezzi avrebbero potuto arrestarne il
corso e quali errori possano ancora riprodurli. Dalle trascorse disgrazie le attuali generazioni traggano spunto per premunirsene, e nella storia delle nostre sciagure abbiano i posteri a trovare i necessari insegnamenti per essere più felici. Ma vi sono adesso mali più urgenti da prevenire per noi stessi, bisogna che l'odierna generazione dissipi certe illusioni che possono raddoppiare il flagello nel momento in cui essa se ne credesse
liberata. Abbiamo veduto uomini che si rifiutavano di vedere le cause della rivoluzione francese, ne abbiamo conosciuto altri impegnati a persuadere che qualunque setta rivoluzionaria e cospiratrice anche precedentemente alla presente rivoluzione è una chimera. A detta dei primi, tutti i mali della Francia e tutte le sciagure dell'Europa si succedono e si concatenano per il semplice concorso di circostanze impreviste ed impossibili da prevedersi, e sembra loro inutile sospettare dei complotti o degli agenti che abbiano ordito la trama e diretto il susseguirsi degli avvenimenti. Secondo costoro gli attori che dominano al presente ignorano i progetti dei loro predecessori, e quelli che a loro succederanno ignoreranno a loro volta i progetti
antecedenti.
Pieni di zelo per un'opinione così falsa e ricolmi di un pregiudizio così pericoloso, questi pretesi osservatori direbbero volentieri alle diverse nazioni: Non vi sgomenti più la rivoluzione francese. Essa è un vulcano apertosi senza che si possa conoscere il focolaio in cui si è formato, ma che si spegnerà da se stesso insieme con ciò che l'ha alimentato nelle contrade medesime che l'hanno visto nascere. Cause ignote nei vostri climi, elementi meno suscettibili di fermento, leggi più adatte al vostro carattere, una ricchezza pubblica meglio
consolidata vi assicurano una sorte differente da quella della Francia; e se mai doveste un giorno averne parte, invano cerchereste di evitarla, perché il concorso e la fatalità delle circostanze vi trascinerebbero vostro malgrado, e forse ciò che avreste fatto per sfuggirla chiamerebbe sopra di voi il flagello e non farebbe altro che anticipare le vostre sciagure .
Si crederà mai che io abbia veduto immersi in un simile errore cosi atto a rendere le nazioni vittime di una fatale sicurezza proprio le persone scelte da Luigi XVI per aiutarlo a deviare i colpi che la rivoluzione non cessava di vibrargli contro? Ho tra le mani il memoriale di un ex-ministro consultato sulle cause della rivoluzione e particolarmente sui principali cospiratori, che egli avrebbe dovuto conoscere meglio di ogni altro, e sul piano della congiura; l'ho inteso dire che sarebbe inutile cercare sia degli uomini sia un'associazione di persone che potessero aver premeditato la rovina dell'altare e del
trono ovvero sviluppato un qualche piano che si potesse chiamare congiura. Infelice monarca! Quando gli stessi che debbono vegliare per voi ignorano persino il nome e l'esistenza dei nemici vostri e del vostro popolo non sorprende che voi e il popolo ne siate le vittime! Noi però, basandoci sui fatti e provvisti delle prove sviluppate in queste Memorie, parleremo ben diversamente; diremo e dimostreremo ciò che i popoli ed i loro capi non devono ignorare facendo loro sapere che nella rivoluzione francese tutto, perfino i
delitti più terribili, fu preveduto, meditato, concertato, deciso e stabilito; tutto fu l'effetto della più profonda scelleratezza, poiché tutto fu preparato e realizzato da uomini i quali soli tenevano le fila delle cospirazioni da molto tempo ordite nelle società segrete, e che hanno saputo scegliere ed affrettare i momenti favorevoli ai loro complotti. In questi avvenimenti contemporanei, se anche alcune circostanze sembrano meno un effetto di cospirazioni, ciò non esclude che vi sia una causa e degli agenti occulti che richiedevano questi
stessi avvenimenti e che hanno saputo profittare di queste circostanze o addirittura le hanno fatte nascere e le hanno dirette tutte verso lo scopo principale. Tutte queste circostanze hanno potuto perfino servire da pretesto e da occasione, ma la causa fondamentale della rivoluzione, dei suoi grandi delitti ed atrocità ne è sempre stata indipendente: questa causa prima la si ritrova in complotti orditi già da lungo tempo.
Nello svelare l'oggetto e l'estensione di questi complotti dovrò confutare un errore ancora più pericoloso; vi sono uomini funestamente illusi i quali convengono facilmente che la rivoluzione francese sia stata premeditata, ma non temono poi di soggiungere che, nell'intenzione dei suoi primi autori, essa doveva tendere solo al bene e alla rigenerazione degli imperi, che se ai loro progetti si sono  frammischiate grandi sciagure la colpa è dei grandi ostacoli che si sono frapposti, che è impossibile rigenerare un gran popolo senza
grandi scosse, ma che infine le tempeste non sono eterne, i flutti, si placheranno e ritornerà la calma: allora le nazioni, meravigliate di aver potuto temere la rivoluzione francese, non dovranno far altro
che imitarla attenendosi ai suoi princìpi.
Questo è proprio l'errore che i corifei dei Giacobini si sforzano di accreditare; ciò ha loro attirato come primi strumenti della ribellione tutta la coorte dei costituzionalisti, i quali considerano ancora i loro decreti sui diritti dell'uomo come un capolavoro di diritto pubblico e che non hanno ancora perduto la speranza di vedere un giorno tutto l'universo rigenerato da questa rapsodia politica. Questo stesso errore ha pure offerto loro un numero prodigioso di adepti di quel tipo di uomini più ciechi che furiosi i quali potrebbero passare per gente onesta se la virtù potesse abbinarsi alla ferocia in un'unica intenzione di un avvenire migliore, e ha dato loro anche quegli uomini stupidamente creduli che, con tutte le loro buone intenzioni, considerano gli orrori del 10 agosto ed il macello del 2 settembre solo una necessaria sciagura; infine ha loro associato tutti coloro i quali anche oggi si consolano di tre o quattrocentomila assassinii e di quei milioni di vittime che la guerra, la carestia, la ghigliottina, le angosce rivoluzionarie sono costate alla Francia, tutti quelli che ancora oggi si consolano di quest'immenso spopolamento col pretesto che tali orrori produrranno alla fine un miglior ordine di cose.
A tale erronea speranza e a tutte queste pretese intenzioni della setta rivoluzionaria io opporrò i suoi veri progetti e le sue cospirazioni per realizzarli. Dirò, poiché è necessario dirlo, e le prove di ciò sono acquisite, che la rivoluzione francese è stata proprio ciò che doveva essere nelle intenzioni della setta, che ha fatto tutto il male che doveva fare, e che tutti i suoi delitti e le sue atrocità non sono altro che la conseguenza necessaria dei suoi princìpi e dei suoi sistemi. Dirò in più che, ben lungi dal preparare anche da lontano un avvenire felice, la rivoluzione francese non è altro che un saggio delle forze della setta, le cui cospirazioni si estendono su tutto l'universo. E se ciò dovesse provocare ovunque altrettanti delitti, essa è pronta a commetterli, e sarà egualmente feroce, perché così esigono  i suoi progetti, in qualunque luogo in cui il progredire dei suoi errori le prometterà i medesimi successi.
Se tra i nostri lettori qualcuno concluderà: È dunque necessario distruggere la setta dei Giacobini, oppure che la società tutta intera perisca e dappertutto senza eccezioni ai nostri attuali governi
succedano altre convulsioni, scompigli e stragi e si riproduca l'infernale anarchia della Francia, io risponderò: Sì, ci si deve aspettare questo disastro universale, oppure si deve distruggere la
setta; ma mi affretterò ad aggiungere: Distruggere una setta non significa imitare i suoi furori, la sua rabbia sanguinaria e l'entusiasmo omicida con cui inebria i suoi apostoli; non significa sgozzare, immolare i suoi adepti e dirigere contro di loro tutte le folgori con cui essa li armava. Distruggere una setta significa attaccarla nelle sue scuole medesime, dissipare il suo prestigio, evidenziare l'assurdità dei suoi principi, l'atrocità dei suoi mezzi e soprattutto la scelleratezza dei suoi maestri. Annichilite pure il giacobino, ma lasciate vivere l'uomo. La setta consiste tutta nelle sue opinioni e non esisterà più e sarà doppiamente distrutta qualora i suoi seguaci l'abbandonino per ritornare ai principi della ragione e della società.
La setta è mostruosa, ma non tutti i suoi discepoli sono mostri; la cura stessa che aveva di occultare ai più i suoi progetti ultimativi, le precauzioni estreme usate per non confidarli che agli eletti tra i suoi
eletti ci dimostrano a sufficienza quanto essa temesse di vedersi senza mezzi e senza forza e di essere abbandonata dalla maggior parte dei suoi discepoli se costoro fossero riusciti a comprendere tutto l'orrore dei suoi misteri. Non ho mai dubitato un solo istante che, qualunque fosse la depravazione che regnava tra i Giacobini, la maggior parte di loro avrebbe abbandonato la setta se avesse saputo prevedere a quali conseguenze li si voleva condurre e con quali mezzi. E il popolo francese specialmente, come avrebbe potuto seguire simili capi se fosse stato possibile dirgli e fargli intendere: Ecco i progetti dei vostri capi, ecco fin dove si estendono i loro complotti e le loro cospirazioni! Ora che la Francia, chiusa come l'inferno, non può più ascoltare altre voci che quella dei demoni della rivoluzione, almeno si è ancora in tempo per avvertire una parte delle altre nazioni che hanno già
sentito parlare dei misfatti e delle sciagure di questa rivoluzione; è necessario che sappiano la sorte che le attende qualora prevalesse la setta dei Giacobini, ed è necessario far loro presente che anche le
loro proprie rivoluzioni fanno parte del grande complotto quanto quella di Francia, e che tutti i delitti, l'anarchia e le atrocità seguite alla dissoluzione dell'impero francese non sono altro che una parte della dissoluzione che si prepara per tutti gli altri regni. Debbono sapere infine che la loro religione con i suoi ministri, i loro templi, i loro altari e i loro troni sono l'obiettivo della stessa congiura dei Giacobini proprio come la religione, i sacerdoti, gli altari e il trono dei francesi.
Quando dei simulacri di pace sembreranno porre fine alla guerra tra i Giacobini e le potenze alleate, occorrerà anche che queste ultime sappiano fino a qual punto possano contare sui loro trattati; allora
più che mai sarà importante riflettere sullo scopo delle guerre provocate da una setta che spediva le sue legioni non tanto per conquistare degli scettri quanto per spezzarli tutti, che non
prometteva in premio a suoi adepti le corone dei prìncipi, dei re e degli imperatori, ma che da loro esigeva il giuramento di stritolare le corone, i prìncipi, i re e gli imperatori; allora più che mai sarà
necessario considerare che con le sette la guerra più pericolosa non è quella che si fa sul campo di battaglia. Quando la ribellione e l'anarchia sono fra gli elementi costitutivi dei settari, le braccia si
possono disarmare ma l'opinione resta e la guerra è nei cuori. Una setta ridotta a nascondersi od a starsene oziosa non cessa però di essere setta; potrà anche dormire, ma il suo le sonno sarà come la
calma dei vulcani che non vomitano più torrenti di lava e fiamme all'esterno, ma i fuochi sotterranei serpeggiando elaborano nuove eruzioni e preparano nuove scosse.
L'oggetto di queste Memorie non è dunque né questo tipo di pace né la guerra che si fanno le potenze tra loro; anche quando il pericolo continua a sussistere tutto intero, so che vi sono momenti in cui la
spada va posata, e che vi sono risorse che vengono a mancare, e così lascio che siano i capi dei popoli a discutere sui mezzi atti ad impiegare la forza. Ma, di qualunque tipo siano i trattati di pace, so che vi è un tipo di guerra che la sicurezza generata da questi trattati può rendere ancor più funesta: è la guerra dei complotti, delle cospirazioni segrete con i loro auspici e giuramenti che i trattati pubblici non sono in grado di eliminare. Guai alla potenza che avrà fatto la pace senza aver nemmeno saputo perché il suo nemico le aveva dichiarato la guerra! Ciò che hanno fatto i Giacobini prima di manifestarsi una prima volta lo faranno anche prima di ricomparire; perseguiranno nelle tenebre l'obiettivo primario delle loro cospirazioni, ed in questo modo nuovi disastri faranno comprendere ai popoli che la rivoluzione francese non era che l'inizio della dissoluzione universale meditata dalla setta.

L’incoronazione di Luigi XV nel 1715. Sebbene già corrosa dal libertinismo, la monarchia francese
riconosceva ancora le fonti della sua legittimità nel Cattolicesimo romano.


Ecco perché i voti segreti dei Giacobini, la natura stessa della loro setta, i loro sistemi, i loro sordidi e tenebrosi procedimenti e le loro cospirazioni sotterranee sono l'oggetto speciale delle mie indagini. Sono ben noti il delirio, la rabbia e la ferocia delle legioni della setta, che sono conosciute come strumenti dei delitti, delle devastazioni e delle atrocità della rivoluzione francese; ma per lo più si ignora quali maestri, quale
scuola, quali auspici e quali complotti le abbiano progressivamente inferocite. Per molto tempo ancora i posteri calcoleranno con facilità l'orrore del flagello a giudicare dai suoi effetti; il francese che vorrà delineare il quadro delle stragi, per molto tempo non dovrà far altro che guardarsi intorno; e lungamente i resti dei palazzi e dei templi, le macerie delle città, le rovine di un vasto impero sparse nelle province attesteranno la barbarie dei moderni vandali. La spaventosa lista del principe e dei sudditi caduti vittime dei decreti di proscrizione, la solitudine delle città e delle campagne rammenteranno per molto tempo ancora il regno delle fiaccole fatali, della vorace ghigliottina, dei banditi assassini e dei legislatori carnefici.
Tuttavia questi particolari umilianti per la natura ed infamanti per l'anima umana non faranno parte di queste Memorie; ciò di cui tratterò in modo particolare non è quello che hanno commesso le legioni infernali dei Marat, dei Robespierre, dei Sieyes, ma sono le cospirazioni ed i sistemi, le scuole ed i maestri che hanno prodotto i Sieyes, i Condorcet, i Péthion, e che stanno ancora preparando a ciascun popolo dei nuovi Marat e dei nuovi Robespierre. Ciò che mi propongo è di far conoscere la setta dei Giacobini e di scoprire le sue
cospirazioni: allora i suoi delitti non avranno più nulla di sorprendente, e si comprenderà che la sua facilità nello spargere il sangue, le sue empietà contro l'altare, i suoi frenetici furori contro il trono e le sue atrocità contro i cittadini sono tanto naturali quanto le stragi della peste, in modo che i popoli facciano attenzione d'ora innanzi ad evitare l'una come dall'altra.
Per giungere a questo importante oggetto, invece di soffermarmi sui dettagli della rivoluzione, ho creduto meglio concentrare le mie ricerche sulla setta e sui suoi capi, sulla sua origine e sui suoi sistemi,
sulle sue macchinazioni, sui mezzi che usa, sui suoi progressi e su tutto ciò che ha fatto per giungere alla rivoluzione.
Da queste ricerche e da tutte le prove, tratte per lo più dagli archivi dei Giacobini e dei loro primi maestri, risulta che la loro setta con le sue cospirazioni di per sé non è altro che l'insieme, la coalizione di tre sette cospiratrici nelle quali, molto prima della rivoluzione, si tramava e tuttora si trama la rovina dell'altare, del
trono e di ogni società civile.
1°. Molti anni prima della rivoluzione francese, alcuni uomini sedicenti filosofi cospirarono contro il Dio del Vangelo e contro tutto il cristianesimo, senza eccettuare e distinguere tra cattolico e
protestante, anglicano o presbiteriano; questa cospirazione aveva come obiettivo essenziale la distruzione di tutti gli altari di Gesù Cristo, e fu quella dei sofisti dell'incredulità e dell'empietà.
2°. In questa scuola dei sofisti empi si formarono ben presto i sofisti della ribellione, i quali alla cospirazione dell'empietà contro gli altari di Cristo aggiunsero la cospirazione contro tutti i troni dei re, riunendosi all'antica setta i cui complotti costituivano tutto il segreto delle retro-logge della Massoneria, ma che da lungo tempo si
prendeva gioco perfino dell'onestà dei suoi adepti principali, riservando agli eletti degli eletti il segreto del suo profondo odio contro la religione di Gesù Cristo e contro i monarchi.
3°. Dai sofisti dell'empietà e della ribellione nacquero i sofisti dell'empietà e dell'anarchia, e costoro non soltanto cospiravano contro il cristianesimo, ma contro qualsivoglia religione, compresa quella naturale, e cospiravano non soltanto contro i re ma contro ogni governo, contro ogni società civile ed anche contro ogni tipo di proprietà.
Col nome di Illuminati, questa terza setta si unì ai sofisti congiurati contro Cristo, ai sofisti ed ai massoni congiurati contro Cristo e contro i re, e la coalizione risultante degli adepti dell'empietà, degli adepti della ribellione e degli adepti dell'anarchia formò i club dei Giacobini; con questo nome ormai comune gli adepti
riuniti nella triplice setta continuano a tramare la loro triplice cospirazione contro l'altare, il trono e la società.
Tale è l'origine, tali i progressi ed i complotti di questa setta divenuta disgraziatamente famosa col nome di Giacobini.
L'oggetto dunque di queste Memorie sarà di svelare separatamente ciascuna di queste cospirazioni, i loro autori, i mezzi impiegati, i loro progressi, i loro adepti e le loro coalizioni.
So bene che ci vogliono prove per denunziare al pubblico dei complotti di tale natura e di tale importanza, e per quanto le prove che ho qui estratto dalle prime edizioni delle mie Memorie sul giacobinismo possano essere abbreviate, saranno ancora più che sufficienti per autorizzarmi a dire ai miei lettori: "A qualunque
religione, governo e condizione della società civile voi apparteniate, se il giacobinismo la vince, se riescono i progetti e i giuramenti della setta, la vostra religione ed il suo sacerdozio, il vostro governo e le vostre leggi, le vostre proprietà ed i vostri magistrati, tutto è perduto. Le vostre ricchezze, i poderi, le case, perfino le capanne, ed anche i vostri figli, tutto cessa di essere vostro. Avete creduto che la rivoluzione si limitasse alla sola Francia, mentre la rivoluzione francese non è che un primo saggio della setta; i voti, i giuramenti e
le cospirazioni del giacobinismo si estendono dalla Francia all'Inghilterra, alla Germania, all'Italia e a tutte le nazioni."
Non ci si affretti a gridare al fanatismo!, all'entusiasmo!; io non ne voglio né in me, né nei miei lettori. Chiedo solo che si giudichino le mie prove con tutto il sangue freddo di cui io stesso ho avuto bisogno per raccoglierle e per redigerle.
Per svelare le cospirazioni che denunzio seguirò lo stesso ordine che la setta ha seguito per tramarle, iniziando da quella che ha elaborato da principio e che ancora persegue contro la religione del
Vangelo e che chiamerò cospirazione anticristiana.


 

Recensione : “Il Re martire” – “Le sacrifice du soir”

Cristina Siccardi recensisce il volume di Emiliano Procucci Il Re martire. Vita, passione e memorie di Luigi XVI di Francia (Il Cerchio) e quello di Jean de Viguerie Le sacrifice du soir. Vie et mort de Madame Élisabeth soeur de Louis XVI (Les Éditions du Cerf).

Il mondo moderno, che obbedisce perlopiù alle leggi ideologiche pianificate dalla Rivoluzione Francese, ha eliminato il Regno Sociale di Nostro Signore e con esso anche il ruolo che lungo i secoli ha avuto la monarchia. La Rivoluzione Francese decapitò la corona e con essa Luigi XVI (1754-1793). Ha scritto Monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro, nel documento riportato nel volume di Emiliano Procucci Il Re martire. Vita, passione e memorie di Luigi XVI di Francia (Il Cerchio), prefato da Luigi Duca d’Angiò: «Il mondo moderno con la Rivoluzione Francese ha dimostrato in modo gigantesco, negli sforzi e anche negli orrori, che era possibile creare una società e uno Stato secondo quella ragione illuministica, che è sostanzialmente una ragione scientifico-tecnologica. In particolare lo Stato costituisce l’obiettivo ultimo dello sforzo per razionalizzare la vita dell’uomo nella società. Lo Stato diviene dunque la realtà che raccoglie tutti i valori razionali, culturali ed etici: diviene dunque il vero fatto che dà valore totale alla persona e alla società». Non più la Trinità dà ragione di essere alla persona, bensì un’entità terrena e burocratica.
Ma chi era Luigi XVI? Un sovrano cattolico che perì non solo perché monarca e rappresentante di un mondo che i giacobini volevano eliminare, ma che essi odiavano soprattutto perché testimone della Fede cattolica e garante della cattolicità nel Regno di Francia. Lo Stato totalitario, secondo l’ideologia rivoluzionaria, creò un uomo senza Dio, autonomo ed autosufficiente, idolatra della dea ragione e della politica.
Attraverso un nutrito apparato di documentazione storica e di testimonianze dirette, Procucci dipinge il vero profilo di Luigi XVI, il quale venne educato, fin dall’infanzia, secondo quel principio che afferma: «La Religione [cattolica] deve essere la sola politica dei Re. Là dove c’è la Religione, non c’è bisogno di un’altra politica. Io non regnerò per gusto ma per dovere ed esigerò che la religione Cattolica, Apostolica e Romana continui ad essere la religione dello Stato…». L’Assemblea costituente non poteva tollerare un simile pensiero. Spiega l’autore: «Il legame tra la Chiesa e la Monarchia francese era molto forte e i nemici di queste due istituzioni erano perfettamente consapevoli del fatto che, per abbattere il cattolicesimo in Francia, occorresse eliminare prima il Re che ne era il difensore naturale».
Luigi XVI fu sempre un buon cristiano, ma la sua Fede crebbe allorquando si rese conto che la Rivoluzione aveva una natura diabolica che si esplicò con la promulgazione della Costituzione civile del Clero e proprio da qui il sovrano prese la decisione di contrastare l’insurrezione che aveva il preciso obiettivo di rovesciare l’ordine tradizionale cristiano in favore di un ordinamento materialista e nemico di Dio.
In questo testo emergono le virtù cristiane del sovrano francese, virtù che emergono con netta evidenza nei diversi documenti riportati e di fronte ai quali non si può rimanere indifferenti. Risulta chiaramente che Luigi XVI venne messo a morte in odium fidei, infatti, il 21 gennaio 1793 venne ghigliottinato perché reo di voler ristabilire in Francia il culto cattolico.  Affrontò il martirio con coraggio, salendo il patibolo con fierezza. Gli scalini che portavano alla ghigliottina erano ripidi; giunto all’ultimo gradino attraversò con passo fermo tutto il patibolo, imponendo il silenzio con il solo sguardo a quindici/venti rullatori di tamburo che stavano di fronte al sovrano e con voce altisonante affermò: «Muoio innocente di tutti i crimini che mi sono imputati. Perdono i responsabili della mia morte e prego Dio che il sangue che state per versare non ricada mai sulla Francia».
Scrisse il suo testamento nella Torre del Tempio di Parigi il giorno di Natale del 1792 e in esso ritroviamo le tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità:
«Nel nome della Santissima Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. […]. Lascio la mia anima a Dio mio creatore; lo prego di accoglierla nella sua misericordia, di non giudicarla per i suoi meriti, ma per quelli di nostro Signore Gesù Cristo, che si è offerto in sacrificio a Dio Suo Padre, per noi uomini, benché non ne fossimo degni e io per primo.
Muoio nell’unione con la nostra Santa Madre, la Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, che riceve la propria autorità, per una successione ininterrotta, da San Pietro, al quale Gesù Cristo l’aveva affidata.
Ho ferma fede e riconosco ciò che è contenuto nel Credo, i Comandamenti di Dio e della Chiesa, i Sacramenti e i Misteri, come la Chiesa Cattolica insegna e li ha sempre insegnati…».
 
Jean de Viguerie ci propone, invece, l’altrettanto documentato volume Le sacrifice du soir. Vie et mort de Madame Élisabeth soeur de Louis XVI (Les Éditions du Cerf). Il libro, in lingua francese, ci presenta la bellissima figura di Elisabetta (1764-1794), sorella di Luigi XVI, donna di forte volontà e di grande spiritualità. Avrebbe desiderato abbracciare lo stato monacale, ma non le fu concesso, perciò, conoscendo l’inclinazione della sorella per la solitudine e il raccoglimento e per evitare che ella non se li procurasse nel silenzio del chiostro, Luigi XVI le donò una piccola villa a Montreuil, alle porte di Versailles. Ogni giorno recitava tutto l’ufficio divino, inoltre leggeva libri religiosi, esercitava pratiche devote, componeva preghiere, scriveva considerazioni spirituali.
La corte di Portogallo iniziò le pratiche per chiedere Elisabetta come sposa di un principe reale; così fece anche Casa Savoia, mentre l’Imperatore di Germania, Giuseppe II (fratello della regina Maria Antonietta, 1755-1793, moglie di Luigi XVI) si recò due volte a Versailles per vedere la bella e buona principessa. Tuttavia nessuna trattativa matrimoniale andò in porto: Elisabetta aveva già scelto. Non potendo consacrarsi a Dio, decise di stare sempre accanto al fratello Luigi e, dunque, al proprio Paese: «Ho giurato di non abbandonare mai mio fratello e manterrò il mio giuramento. […]. Preferisco rimanere qui ai piedi del trono di mio fratello, piuttosto che salire io stessa su di un altro trono».
Già molti anni prima della Rivoluzione, Elisabetta percepì che la Francia sarebbe caduta nella tragedia. Compiangeva la nazione, il popolo, la sua famiglia. Si rese conto che la monarchia sarebbe stata distrutta e che la persecuzione si sarebbe abbattuta sulla religione cattolica, turbando le cosciente e gettando nel caos l’intero Paese. Suo rifugio era Dio, al quale si rivolgeva incessantemente, implorando il soccorso.
Elisabetta fece un apostolato molto intenso e indicava nel Sacro Cuore di Gesù la fonte delle misericordie divine. In ogni lettera richiamava sempre l’attenzione al Sacro Cuore di Gesù (la cui devozione era stata diffusa grazie a Giovanni Eudes, 1601-1680, e da santa Margherita Maria Alacoque, 1647- 1690), che considerava unico rifugio, il solo rimedio per le sofferenze del popolo e la salvezza della nazione. Compose vari atti di consacrazione della Francia al Divin Cuore e fu anche molto devota al Sacro Cuore di Maria Santissima. Persuasa che l’irreligione e l’immoralità attirassero sul Paese i castighi di Dio, raccomandava di condurre una vita onesta, di pregare, di rinunciare al lusso e di soccorrere il prossimo.
La famiglia reale di Francia venne catturata nella notte del 6 ottobre 1789, quando un’orda inferocita ed avvinazzata di 20 mila persone, armate di cannoni, fucili, sciabole, forche e bastoni da Parigi si diresse a Versailles, invadendo il castello. Mentre si verificavano scene orribili di violenza e crudeltà, con massacri, teste decapitate e portate sui picchetti come trofei, Luigi XVI e i suoi congiunti vennero trasportati a Parigi fra le urla, le minacce e le imprecazioni. Cosciente di dover esercitare la missione, per la quale si era votata, di «angelo tutelare» della famiglia reale di Francia, Elisabetta si comportò virilmente, senza alcun cedimento. Da quella notte la famiglia reale rimase prigioniera nel palazzo delle Tuileries. Mentre tutti i principi e le principesse cercarono di fuggire fuori dalla capitale e dalla Francia, Elisabetta rimase al proprio posto, vicino al fratello, alla cognata, al piccolo Delfino di Francia e alla nipotina Carlotta, assolvendo la propria missione di consolatrice.
Nella notte del 2 agosto la Regina Maria Antonietta fu condotta nella prigione della Conciergerie. Le due nobildonne furono separate. Dopo umiliazioni indicibili e sofferenze inaudite, Maria Antonietta venne decapitata il 16 ottobre. La sua ultima lettera fu proprio indirizzata ad Elisabetta: «È a voi, sorella mia, che scrivo per l’ultima volta; sono condannata non ad una morte infamante, perché tale è soltanto per i criminali, ma a raggiungere vostro fratello». E dopo averla pregata di essere la seconda madre dei suoi orfani, si accommiatò con queste parole: «Addio, mia buona e tenera sorella; speriamo che questa vi giunga! Pensate sempre a me; vi bacio con tutto il cuore, insieme con quei poveri e cari bambini!». La lettera non fu recapitata al destinatario.
Splendida la lettera di riconoscenza che la nipote Maria Teresa Carlotta (1778-1851), Madame Royale, scrisse sulla zia, colei che, in cuor suo, si era consacrata a Dio all’età di 15 anni e altrettanto importante, quanto celebre e toccante nella sua beltà e verità, è la preghiera che Elisabetta compose e che recitò quotidianamente, fino al giorno della sua cruenta dipartita: «Che mi accadrà oggi, o mio Dio? Lo ignoro; so soltanto che nulla mi accadrà che Voi non abbiate previsto, stabilito, voluto e ordinato sin dall’eternità. Questo mi basta, o mio Dio, per essere tranquilla. Adoro i vostri disegni eterni e impenetrabili, ai quali mi sottometto con tutto il cuore per amor vostro. Voglio tutto, accetto tutto. Vi faccio un sacrificio di tutto ed unisco questo sacrificio a quello del vostro diletto Figlio e mio Salvatore. Vi domando in nome del suo Caro Cuore e dei suoi meriti infiniti la pazienza nelle mie pene e la perfetta sottomissione a Voi dovuta per tutto quello che vorrete e permetterete. Così sia».
Era il 10 maggio 1794 quando vennero portati alla ghigliottina 24 condannati a morte, fra i quali c’era anche Elisabetta di Borbone-Francia, che fu costretta ad assistere a tutte le decapitazioni prima di subire anche lei il supplizio. Non soltanto non si coprì gli occhi di fronte allo scempio, ma rimase sorridente e orante fino alla fine. Ad alta voce chiamava, una ad una, le vittime, invitandole ad aver Fede in Dio e, se erano donne, le abbracciava oppure le salutava con un sorriso. Poi toccò a lei. E quando il biondo capo cadde, aggiungendo sangue a sangue, nessuno osò gridare «Viva la Repubblica!».

domenica 25 dicembre 2011

MEMORIE PER LA STORIA DEL GIACOBINISMO SCRITTE DALL' ABATE BARRUEL TRADUZIONE DAL FRANCESE. TOMO I. 1802 (Parte 1).







Nota previa dei curatori.

Questo testo si basa sulla traduzione italiana delle "Memorie" effettuata nel
1802; molte espressioni, costruzioni, riferimenti o frasi desuete o poco
comprensibili sono state chiarite, per lo più con l'aiuto del testo in francese
(pubblicato ad Amburgo nel 1798). I criteri che ci hanno guidato sono la massima
fedeltà possibile unita però alla massima comprensibilità di un testo che così
com'era avrebbe potuto risultare pesante e talora oscuro a chi non possieda le
debite nozioni riguardanti la lingua, la cultura e l'ortografia dell'epoca, piuttosto
distanti dalla nostra. E’ stata aggiunta qualche breve nota, riconoscibile da quelle
originali del Barruel per la dicitura finale N.d.C. [Nota dei Curatori].
Ci auguriamo che questo lavoro, ben più impegnativo della mera
digitalizzazione del testo, possa riproporre ai cattolici l'opera principale dell'abate
Barruel in tutta la sua chiarezza e precisione.
Raimondo Gatto
Roberto Guaccione
Genova, 31 luglio 2009, nella Festa di Sant’Ignazio di Loyola
Vista l'importanza dell'opera, abbiamo ritenuto necessaria un'ulteriore revisione dei cinque volumi
delle Memorie in base all'ultima edizione francese riveduta e corretta dall'autore (Lione, 1818-1819).
I curatori Genova, luglio 2010


Introduzione
(Brano tratto da “Il problema dell'ora presente” di H. Delassus Tomo I
Cap. IX, 1907)


(...) I maneggi della framassoneria in questi ultimi tempi ci hanno fatto
aprire gli occhi. La si vede preparare nuovi sconvolgimenti e nuove rovine.
Ognuno si domanda se le sventure e i delitti che hanno segnato la fine del
XVIII secolo non siano ad essa imputabili. Maurizio Talmeyer tenne
recentemente una conferenza che poscia pubblicò in opuscoletto sotto questo
titolo: La Framassoneria e la Rivoluzione francese. Copin-Abancelli, Prache ed
altri si applicarono, in differenti pubblicazioni, a far uscire dalle tenebre
diligentemente conservate, la parte presa dalle società segrete nella
Rivoluzione. Per dimostrarlo, essi poterono attingere nell'opera pubblicata
trent'anni fa, da N. Deschamps, sotto questo titolo: Les sociétés secrètes et la
société, completata nel 1880 da Claudio Jannet. E questi avevano largamente
usufruito di un'opera anteriore, pubblicata in piena Rivoluzione, nel 1798, da
Barruel: Mémoíres pour servir à l'histoire du Jacobinisme.
Queste Memorie non offrono, come potrebbe far credere il titolo,
documenti da usare per comporre la storia dei delitti commessi dai
Giacobini; Barruel, nei suoi cinque volumi, si applicò a fornire ai futuri
storici del Terrore, le informazioni o gl'indizi che loro permettessero di
stabilire il punto di partenza, i primi agenti e le cause segrete della
Rivoluzione. "Nella Rivoluzione francese - egli dice - tutto, persino i suoi
misfatti più spaventevoli, tutto era stato preveduto, meditato, combinato,
risoluto, stabilito; tutto fu l'effetto della più profonda scelleratezza, poiché
tutto è stato condotto da uomini che soli tenevano il filo delle cospirazioni
ordite nelle società segrete, e che hanno saputo scegliere e studiare il
momento propizio alle congiure".
Il convincimento di questa premeditazione e di queste congiure risulta
dalla lettura dei cinque volumi. Sul frontespizio del quarto, nel "Discorso
preliminare", egli domanda: "In qual modo gli adepti segreti del moderno
Spartaco (Weishaupt) hanno presieduto a tutti i misfatti, a tutti i disastri di
questo flagello di brigantaggio e di ferocia chiamato la 'Rivoluzione'? Come
presiedono ancora a tutti quelli che la setta medita per compiere la
dissoluzione delle società umane? (Ciò ch'essa meditava di riprendere
all'indomani della Rivoluzione, lo eseguisce al giorno d'oggi sotto i nostri
occhi. E sono ancora i framassoni che stanno alla testa di tutto ciò che noi
vediamo). Consacrando questi ultimi volumi a rischiarare tali questioni, io
non mi lusingo di risolverle con tutta la precisione e con tutti i particolari di
uomini che avessero avuto la facoltà di seguire la setta 'Illuminata' nei suoi
sotterranei, senza perdere un istante di vista i capi o gli adepti ...
Raccogliendo i tratti che mai sono svelati, ne avrò abbastanza per segnalare
la setta dovunque i misfatti additano la sua fatale influenza".
Si comprende il grande ed urgente interesse che presenta la lettura di
quest'opera nell'ora presente.
Quello che accade, quello di cui siamo spettatori, è il secondo atto del
dramma cominciato un secolo fa; è la stessa Rivoluzione, ravvivata nel suo
focolare, coll'intenzione che Barruel aveva già potuto constatare, di
estenderne l'incendio nel mondo intero. Egli ce ne mostra il proposito, la
volontà espressa fin dal principio del XVII secolo. I congiurati potranno essi
raggiungere i loro fini di annientare la società cristiana? E' il segreto di Dio,
ma è altresì il nostro. Poiché l'esito della Rivoluzione dipende dall'uso che
noi vogliamo fare della nostra libertà, come dai decreti eterni dì Dio.
Gli è per sostenere, per incoraggiare le buone volontà, che Barruel scrisse
le sue Mémoires: "E' per trionfare finalmente della Rivoluzione e ad ogni
costo, e non per disperare che fa d'uopo studiare i fasti della setta. Siate tanto
zelanti pel bene, quanto essa lo è pel male. Abbiate la buona volontà di
salvare i popoli; i popoli stessi abbiano la volontà di salvare la loro religione,
le loro leggi, la loro fortuna, com'essa ha la volontà di distruggerle, e i mezzi
di salute non mancheranno". (...)
Prima di far qui un brevissimo compendio dell'opera del Barruel, è
opportuno che i nostri lettori facciano conoscenza coll'autore, onde sappiano
qual credito gli debbano accordare.
Agostino Barruel nacque il 2 ottobre 1741. Suo padre era luogotenente
del podestà di Vivarais. Egli fece i suoi studi ed entrò nella Compagnia di
Gesù. Quando essa fu minacciata, si recò in Austria dove pronunciò i suoi
primi voti. Soggiornò alcuni anni in Boemia, poi in Moravia e fu
professore a Vienna, nel collegio Teresiano. Più tardi fu mandato in Italia
ed a Roma. Egli ritornò in Francia dopo la soppressione del suo Ordine. Il
suo stato rendendolo indipendente, si consacrò intieramente ai lavori
filosofici e storici, e pubblicò fin d'allora delle opere le quali, sebbene di
più volumi, raggiunsero la quinta edizione.
Dal 1788 al 1792 egli diresse quasi solo il Journal ecelésiastique,
pubblicazione settimanale delle più preziose per la storia letteraria ed
ecclesiastica della seconda metà del XVIII secolo. Nel prenderne la
direzione, Barruel disse a' suoi lettori: "Noi sentiamo tutto il peso e tutta
l'estensione dei doveri che c'imponiamo. Noi prevediamo con spavento
tutta la assiduità che esigono e ci interdiciamo, d'ora innanzi, ogni
occupazione che potesse distrarcene. Ma consacrati per vocazione al culto
del vero Dio, alla difesa delle nostre sante verità, oh! come questi
medesimi doveri ci diventano cari! Si, questo aspetto sotto il quale ci piace
considerare le nostre funzioni di giornalista cattolico, ce le rende
preziose". Egli manifestò in tutte le sue opere questo spirito di fede.
Quanto più i giorni si facevano tristi, tanto più l'ab. Barruel
raddoppiava lo zelo e la vigilanza. Egli cangiava di frequente domicilio
per sfuggire al mandato d'arresto. Dopo il 10 d'agosto dovette sospendere
la pubblicazione del suo giornale e passare in Normandia. Di là, si rifugiò
in Inghilterra.
Pubblicò a Londra, nel 1794, una Storia del Clero di Francia durante la
Rivoluzione. Là ancora concepì il piano della sua grande opera: Mémoires
pour servir à l'histoire du jacobinisme. Lavorò quattro anni a raccogliere e
ordinare i materiali delle prime parti. I volumi I e II comparvero a Londra
nel 1796.
Nel 1798, furono ristampati ad Amburgo, accompagnati da un terzo,
intorno alla setta degli Illuminati. I due ultimi comparirono parimenti ad
Amburgo nel 1803. Barruel ne pubblicò una seconda edizione "riveduta e
corretta dall'autore", nel 1818, due anni prima della sua morte, a Lione,
presso Tèodoro Pitrat.
Bisogna leggerla tutta quanta quest'opera se si vuol conoscere a fondo
la Rivoluzione. Per scriverla, l'ab. Barruel ebbe le rivelazioni dirette di
molti dei principali personaggi dell'epoca, e trovò in Germania una serie
di documenti di prim'ordine. "E io devo rendere al pubblico - dice nelle
Observations préliminaires del terzo volume, quello che tratta degli
Illuminati - un conto speciale delle opere da cui tolgo le mie prove". Egli
presenta una lista delle principali, fino a dieci, con un cenno su ciascuna
di esse, che permette di giudicare della loro autenticità. La lista delle opere
si completa con quella di molti altri documenti meno importanti. Ed
aggiunge: "Ciò è tanto quanto basta per vedere che io non scrivo intorno
agli Illuminati senza cognizione di causa. Io vorrei in segno di
riconoscenza poter nominare coloro la cui corrispondenza mi ha fornito
nuovi aiuti, lettere, memorie che non potrò apprezzare mai troppo; ma
questa riconoscenza diverrebbe per loro fatale".
E più lungi: "Quello che io cito, l'ho davanti agli occhi e lo traduco; e
quando traduco, il che avviene spesso, cose che fanno stupire, cose che
appena si crederebbero possibili, io cito il testo medesimo, invitando
ognuno a spiegarlo, ovvero a farselo spiegare ed a verificarlo. Io raffronto
anche le diverse testimonianze, sempre col libro in mano. Io non fo menzione d'una sola legge nel codice dell'Ordine, senza le prove della
legge o della sua pratica".
Ritornato in Francia, fu consultato sull'argomento della promessa di
fedeltà alla Costituzione, sostituita, con decreto 18 dicembre 1799, a tutti i
giuramenti anteriori. Egli pubblicò il dì 8 luglio 1800, un avviso
favorevole. Le sue ragioni, assai chiare e precise, aggiunte alle spiegazioni
del Moniteur, dichiarato giornale ufficiale, decisero Emery e il consiglio
arcivescovile di Parigi a pronunciarsi in favore della legittimità della
promessa. Alcuni, in quest'occasione, accusarono Barruel di adulare il
Bonaparte per guadagnarsi i suoi favori. Ben lungi dall'adulare, l'ab.
Barruel ha dimostrato un'audacia inaudita: parlando dei primo Console, lo
chiama "il flagello di Dio". Nel 1800 egli aggiunge: "Se tutti i principi
d'Europa riconoscessero la Repubblica, io non voglio per questo che Luigi
XVIII sia meno il vero crede di Luigi XVI. Io sono francese. Il consenso
degli altri sovrani su questo oggetto è per me tanto nullo quanto quello
dei Giacobini; esso può bensì diminuire la mia speranza, togliere i mezzi,
ma non distrugge per nulla il diritto" (L'Evangile et le clergé francaise. Sur
la soumissioti des pasteurs dans les révolutions des empires, p. 75.
Londres).
Barruel non rientrò in Francia che nel 1802. Vi prese a difendere il
Concordato e pubblicò su questo argomento il suo trattato Du Pape et de
ses droits regaux à l'occasion du Concordat (Paris, 1803, 2 vol. in VIII).
Durante l'Impero, Barruel si tenne in disparte, non ricevette alcun posto
né assegno. Intraprese la confutazione della filosofia di Kant. Nell'affare
del cardinale Maury, Napoleone ebbe sospetto che egli avesse propagato il
Breve di Pio VII e lo fece mettere in prigione nell'età di settanta anni. La
polizia lo perseguitò pure nei Cento Giorni. Terminò la sua vita nella casa
dei suoi padri, a Villanova de Bery, nell'età di ottanta anni, il 5 ottobre
1820.
Era necessario entrare in questi dettagli per mostrare quanto questo
autore si meriti la nostra confidenza. (...)

Sulla cosiddetta “strage” di risorgimentali da parte delle truppe papaline a Perugia nel 1859.



La campagna contro l’Austria e i conseguenti moti nelle Legazioni e nell’Italia centrale, portarono il 14 giugno 1859 a costituire anche in Perugia un governo provvisorio. Ispiratore ne era stato il dittatore sardo a Firenze Carlo Boncompagni su istigazione del marchese Filippo Gualtiero, conviventi un centinaio di novatori locali e l’aiuto di circa 8000 volontari toscani ben armati. La grande maggioranza della popolazione urbana e rurale rimase al solito affatto estranea, ma per la scarsità delle forze dell’ordine l’energico delegato pontificio apostolico mons. Luigi Giordani fu costretto a ritirarsi a Foligno.
Rimase, invece, al suo posto il card. Arcivescovo Gioacchino Pecci, poi papa Leone XIII, che aveva sin dall’aprile precedente ripetutamente avvertito la Segreteria di Stato di quanto s’andava preparando.
Da Foligno, per tempestive istruzioni del card. Antonelli, il Giordani diresse l’opera di sottomissione della città, avvalendosi di 1700 svizzeri comandati dal colonnello Antonio Schmidt, di mezza batteria d’artiglieria, di circa 60 gendarmi e 30 guardie di finanza. Il consigliere di Stato Luigi Lattanzi, altro prezioso testimonio, persona ben nota in Perugia per la sua dirittura e grata agli stesi novatori, fu invano inviato per impedire, il 20 e 21 giugno, una resistenza inutile. Sicchè, poco dopo le 3 pomeridiane del 21, la città venne presa d’assalto e gli Svizzeri riuscirono a superare le difese esterne del Frontone e del monastero di San Pietro.
Proprio allora il comandante degli insorti, Carlo Bruschi, fuggendo con i colleghi della Giunta provvisoria verso il confine toscano, entrò nell’abitato gridando ad alta voce a coloro che erano appostati sui tetti ed alle finestre delle case di continuare la resistenza sino all’ultimo sangue, sparando e gettando sulla truppa quanto venisse loro alle mani, e ciò proprio mentre sul municipio si alzava bandiera bianca. Ne nacque una mischia sanguinosa per le vie e nelle case, e ne furono vittime occasionali anche alcuni innocenti. I pontifici in tre ore di lotta ebbero, in gran parte per colpi proditori, circa 90 uomini fuori combattimento; i novatori circa 70 morti, un centinaio di feriti e 120 prigionieri.
Il fatale equivoco del proseguire il fuoco anche dopo il segno di resa, equivoco imputabile esclusivamente ai capi rivoluzionari, cui si aggiunsero i danni materiali subiti, per sua imprudenza, dalla famiglia americana Perkins alloggiata nella locanda Storti dal cui tetto si sparavano sui soldati, venne largamente e tendenziosamente sfruttato dalla diplomazia e dalla stampa liberale italiana ed estera, e le pretese "stragi" di Perugia costituirono per lunghi anni uno dei "pezzi forti" della polemica anticlericale.

sabato 24 dicembre 2011

Le industrie del Sud:Il primato perduto della siderurgia meridionale (1749-1860 da Carlo III a Ferdinando II).



di

Roberto Maria Selvaggi


L'avventura siderurgica meridionale inizia nel 1749 con Carlo di Borbone che cerca di dare alle Due Sicilie un'impostazione moderna ed autonoma.
A questo fine il sovrano invita a Napoli due gruppi di esperti ufficiali sassoni ed ungheresi perché si rechino in Calabria a studiare la possibilità di estrarre del ferro competitivo dalle preesistenti piccole miniere. Nel 1759 viene aperta la Real Fabbrica d'Armi di Torre Annunziata, dove viene standardizzata la produzione di fucili fino ad allora disordinatamente confezionati con calibri e munizioni diverse da artigiani napoletani.
L'8 marzo 1771 inizia la sua produzione la fonderia di Mongiana, nell'interno delle montagne calabresi per poter sfruttare il combustibile proveniente dalle immense risorse boschive.
Non si pensi però ad uno sfruttamento indiscriminato di queste ultime, perché già da Carlo di Borbone fu varata una legislazione severissima sul controllo dei boschi e delle foreste meridionali, legislazione che, se fosse stata conservata in tempi unitari, non avrebbe visto il massacro delle risorse boschive calabresi e lucane, che tanto danno ambientale hanno poi provocato.


Lo spaventoso terremoto del 1783 causò una interruzione della nascente attività, ma occorre ricordare che la violenza del sisma modificò persino l'orografia della Calabria.
Nel 1789 il governo di Ferdinando IV bandisce un concorso per un viaggio di studi mineralogici e di aggiornamento tecnico per iniziare la preparazione di esperti napoletani. Tra i sei vincitori, tra cui spiccano il pugliese Matteo Tondi - che avrà in seguito notorietà scientifica a livello europeo - ed il salernitano Carmine Antonio Lippi, al quale si dovrà l'ideazione del primo ponte in ferro costruito in Italia, quello sul Garigliano.
Otto anni di viaggio prepararono una piccola classe di tecnici che realizzeranno poi il polo siderurgico calabrese. Nel 1800 re Ferdinando ordina che la nascente ferriera passi sotto il controllo dei militari, e da allora la direzione è affidata a brillanti e preparati ufficiali di artiglieria. Nei primi anni del secolo l'attività ferve e, con alterne vicende legate alla ricerca di prodotti qualitativamente ed economicamente convenienti, inizia il lento decollo: nasce così una nuova comunità civile, il comune di Mongiana, che raccoglie le famiglie degli operai impiegati nella fonderia. Con l'avvento dei militari si trasforma anche la condizione dell'operaio, che dalla paga giornaliera viene trasformato in lavoratore a cottimo, al quale si chiede di consegnare giornalmente una quantità di ghisa proporzionata al minerale ed al carbone ricevuti.


Nel decennio napoleonico Mongiana riceve un notevole impulso, ed inizia una massiccia produzione che viene però imbarcata nel porto di Pizzo, con destinazione diversa da quella originariamente prevista dal suo fondatore. La fame di ferro dovuta alle guerre napoleoniche infatti fa sì che il prodotto prenda quasi sempre la via della Francia. Nel primo periodo della restaurazione si registra un balzo in avanti nella specializzazione della produzione, fino a giungere alla progettazione ed alla realizzazione di armi che non avranno più nulla da invidiare con quelle provenienti da Torre Annunziata. Ma il grande momento per la nascente siderurgia calabro-campana giunge con la salita al trono di Ferdinando II. Sovrano geloso della nazionalità e conscio delle grandi possibilità del Regno, dà subito il massimo impulso alle situazioni preesistenti. Con una accorta politica economico-finanziaria, con il risanamento dell'apparato statale, con ogni sorta di incoraggiamento all'industria privata e pubblica, il giovane Re trasformò in poco tempo quello che era solo artigianato evoluto in industria vera e propria. Sorgono un po' dappertutto nuovi opifici che toccano vari settori industriali, dal tessile alle cartiere, alla siderurgia. Anche in Calabria il privato trae beneficio dalla presenza di Mongiana e, lungi dall'essere ostacolata dal governo, nasce anche una grande fonderia privata ad opera del Generale Filangieri.




Il ponte in ferro sul Garigliano, per quei tempi un piccolo capolavoro, fu progettato dal governo e realizzato con i materiali provenienti dalla fonderia privata di Cardinale, di proprietà Filangieri, in un clima di salutare concorrenza.
Nel 1833 il sovrano visita Mongiana, ma il suo scopo era quello di inaugurare una nuova fabbrica, Ferdinandea. Il crescente successo di Mongiana aveva fatto decidere il governo a istituire una nuova fonderia che, seguendo l'esempio di San Leucio, sarebbe stato un misto tra il casino di caccia e la ferriera. Infatti fu costruita una cittadella dove si mischiarono altiforni, caserme, stalle, chiesa ed appartamenti reali. Ferdinandea fu uno stabilimento di prima fusione a supporto della vicina Mongiana. Nel 1837 si inizia la costruzione della strada che collegherà le fonderie al porto di Pizzo, da dove i prodotti finiti e le grandi barre di ghisa partivano per la capitale.
Non a caso quindi la rete viaria viene migliorata, per la presenza positiva di un nascente apparato industriale. Contemporaneamente nasce a Pietrarsa un'officina di lavorazione che arriverà ad impiegare più di 4000 persone e che produrrà, sempre in concorrenza con il privato, le macchine a vapore di centinaia di bastimenti e delle locomotive delle ferrovie napoletane. E' tuttora visibile una gigantesca statua di Ferdinando II, prodotto di un'unica fusione in bronzo. L'Europa intera rimase meravigliata dalla modernissima fabbrica e dall'efficiente organizzazione. Londra e Parigi non celarono il loro disappunto, ritenendosi depositarie dell'esclusiva in quei settori.

Il piccolo Piemonte invia tecnici a studiare il come ed il perché, in Russia lo Zar ne fece costruire una identica a Kronstad. Piemonte, Liguria e Val d'Aosta impiegavano nel 1845 lo stesso numero di addetti della sola Mongiana, disseminati in una miriade di laboratori artigianali.
Fino al 1860 questa era una industria giovane che appena allora si affacciava verso i mercati internazionali, ed aveva bisogno solo di essere aiutata in questo compito. Il governo unitario, abolendo in un minuto tutti i dazi, le negherà questo appoggio, e si comporterà in maniera opposta a quel "retrogrado" governo borbonico che, nei momenti di difficoltà, quando si allargava il divario con i concorrenti stranieri, correva ai ripari per non farle perdere il contatto con le industrie europee più evolute.
Fu così che i 3000 addetti di Mongiana e Ferdinandea, gli oltre 4000 di Pietrarsa e tutti quelli che lavoravano con le industrie private tessili, estrattive e manifatturiere, si trovarono a vivere una lenta agonia, che in pochi anni li avrebbe visti ridotti alla fame e costretti poi ad emigrare.
E' curioso notare che, alla morte della nascente industria meridionale si accompagna la nascita della grande industria del Nord.

giovedì 22 dicembre 2011

Orrore, la Grecia in schiavitù: è stata venduta agli inglesi.

La scoperta è di quelle agghiaccianti, e ci arrivo fra un attimo. Ma il senso di disperazione di chi scrive è che non so più a chi appellarmi. Questo colpo di Stato finanziario in Europa sta vomitando orrori su orrori man mano che gli si scava all’interno. Il mio lavoro è di scoprire e rendere pubblico ciò che scopro, ma per chi? Chi ha la determinazione di agire? Non voi, non i politici, non i sindacati, non la Chiesa. Chi allora? Chi? Ora la scoperta. I greci sono spacciati, non possiamo far più nulla. Dobbiamo lasciarli andare e vederli morire, come fossimo i pochi che sono riusciti a salire sull’ultima scialuppa rimasta e che devono rassegnarsi ad abbandonare gli altri naufraghi ai pescecani che li stanno già dilaniando.
Lo so, è orrendo allontanarsi mentre quelli urlano da non poter sopportare. Non abbiamo scelta. I criminali dall’Unione Europea, leggi i financialnazisti La regina Elisabettatedeschi e i financialVichy francesi, hanno firmato la condanna a morte dei greci nel summit europeo del 26 ottobre, dove all’insaputa della stampa e delle televisioni la seguente clausola è stata imposta di forza ad Atene: la giurisdizione legale sui titoli di Stato greci ancora in circolazione (cioè non ripagati) passa dalla sovranità greca a quella inglese. Traduco: la Grecia non è più padrona del proprio debito, che da ora è gestito legalmente dalla Corona britannica sotto leggi britanniche.
Conseguenze: primo, la Grecia può essere ora trascinata in tribunale dai suoi creditori senza poter esercitare uno straccio di difesa sovrana con le proprie leggi. Parlamento e giustizia greci valgono ormai meno di nulla. Secondo, la Grecia in questo modo non potrà più rinegoziare il proprio debito per salvare la nazione. Non lo potrà fare né in Euro, né in Dracme (cioè proporre ai creditori di accontentarsi di rimborsi inferiori in Euro o di rimborsi in Dracme). Infatti non è più legalmente proprietaria del suo debito, e verrebbe massacrata dai creditori che per farlo userebbero le leggi di un Il premier inglese David Cameronaltro Paese (notoriamente e sfacciatamente pro-business).
Ma questo significa soprattutto che non può più abbandonare l’Eurozona, perché la condizione essenziale del default sovrano è di poter poi dire al mondo intero: «Rinegozio il mio debito alle mie condizioni e con la mia moneta». L’hanno chiusa dentro a chiave, hanno buttato la chiave, e lì deve morire. Fermi: parliamo di sofferenze vere, gente vera, oggi, e destini troncati. Crimini contro l’umanità.
La cosa che fa urlare di furia è anche che fra l’altro questa condanna a morte gli è stata imposta in cambio di un pacchetto di aiuti che sono proprio ciò che ne torturerà l’economia lentamente fino al decesso, perché sono le… famose misure di austerità che sono oggi piombate anche qui da noi. I greci sono perduti. Mi rimane solo una magrissima speranza: che il sadismo franco-tedesco, dopo aver macellato milioni di famiglie greche, irlandesi, Merkel e Sarkozyportoghesi e italiane, inizi a divorare se stesso, collassando anche la scialuppa dove troneggiano Francia e Germania, che forse comincinano già ora a rendersene conto.
E rimaniamo noi. Cioè voi, perché io la mia parte la faccio. Lavoro gratis per queste battaglie, rischio il vilipendio del Capo dello Stato un giorno sì e uno no, rischio le querele che mi portano via la casa, rischio i manganelli quando vado a urlare a Prodi “delinquente” in pubblico, rischio un bossolo in una busta di carta nella buca delle lettere, certo, perché questi non scherzano, e poi  ho perso reddito, fama, e ciò che amavo fare nella vita, cioè le inchieste in giro per il mondo. Ma voi. Voi su quella scialuppa, ancora interi, adulti vaccinati, che messi di fronte alla fine dei vostri figli in un’Italia kosovizzata state lì inermi, laureati, diplomati, occupati, macchinati, Ipaddati, bravi a tirare scapaccioni ai vostri bambini, ma lì imbelli di fronte al Potere e solo capaci di scrivere a me “Dott. Barnard, ma cosa possiamo fare?”. Cosa potete fare? Siate uomini! Siate donne! E se non sapete difendervi per sopravvivere allora schiattate. Vergognatevi. Carne da pescecani. (e smettete di scrivermi).
(Paolo Barnard, “Carne da pescecani (voi)”, intervento pubblicato sul blog di Barnard il 12 novembre 2011).

Le verità sulla massoneria :Apparizioni di Satana nelle logge.










Pochi anni dopo la scomparsa della Bersone(autrice della sua biografia contenuta nel libro "L'eletta del dragone") si verificarono, in Francia, casi clamorosi di apparizioni di Satana nelle logge massoniche. Ne citiamo alcuni:


 – “A un pranzo presso il duca di Frontignan, all'abate Girod, che metteva in ridicolo tutta la teoria delle apparizioni sataniche, il duca sbottò: ‘Io vi dico che l'ho veduto, il Dio del male, il principe della desolazione; e aggiungo che io posso farvelo vedere!’. L'abate vi si rifiutò sulle prime, ma poi, vinto, accettò! Bendato, venne condotto, in carrozza, fino al luogo delle apparizioni. Tutto ad un tratto, oltre al fremito di carne nuda sul pavimento cerato, sentì la voce di molti uomini che parevano immersi in qualche orribile estasi; queste voci dicevano: ‘Padre e creatore di ogni peccato e di ogni delitto; principe e re di ogni angoscia e di ogni disperazione, vieni a noi, noi ti imploriamo!’ L'abate si strappò il fazzoletto che gli bendava gli occhi. Dodici uomini di ogni età, tutti in tenuta di gala e appartenenti al miglior mondo, erano tutti prostrati sul pavimento con le mani unite. Essi abbracciavano il pavimento; i loro volti, illuminati da estasi infernale, erano mezzo contratti, come se soffris-sero, mezzo sorridenti, come se nuotassero nella gioia di un trionfo. Il freddo aumentò all'improvviso, e l'abate sentì la presenza di un nuovo venuto nell'appartamento. Levando i suoi occhi dai dodici uomini prostrati, che non cessavano le loro bestemmie, l'abate si guardò intorno e scoprì il nuovo venuto: un Tredicesimo, che pareva venuto dall'aria, sotto i sui occhi. Era costui un giovane di una ventina d'anni, di alta statura, imberbe come un giovinetto Augusto; i suoi lunghi e biondi capelli glicadevano sopra le spalle come quelli di una giovinetta. Le sue gote erano rosee e come animate dall'ebbrezza o dal piacere; ma il suo sguardo era di una tristezza infinita, di una disperazione profonda. L'abate era preso da un terrore mortale; la mano destra si alzò goffamente e, quasi meccanicamente, tracciò un segno di croce sopra il petto.
La visione scomparve! I dodici adoratori tacquero e restarono distesi gli uni presso gli altri, come intirizziti e presi da debolezza. Dopo poco, si levarono titubanti e tremanti, guardando l'abate che, pure lui, si sentiva privo di forze.
Si direbbe che il Tredicesimo, si bello, intelligente, sì orgoglioso, melanconico e sì pieno di disperazione, fosse lo stesso personaggio che le logge conoscono sotto il nome d'Hiram, e che la Rivelazione divina chiama Satana, Lucifero, l'Angelo decaduto della luce”.31
– “Un ufficiale francese, giovane e affiliato alla framassoneria, stava per pronunciare i suoi ultimi giuramenti e ricevere l'ultima iniziazione in una retro-loggia. I fratelli erano adunati per la lugubre cerimonia quando, tutto ad un tratto, sotto forma umana, apparve il demonio! A quella vista, il giovane è sconvolto, e dice a se stesso: Poiché il demonio esiste, deve pure esistere Iddio! Ilpensiero della giustizia divina si presenta contemporaneamente al suospirito spaventato. Egli si convertì, abbandonò la milizia ed entrò in un Ordine religioso; fu ordinato sacerdote e consacrò lunghi anni nelle missioni straniere. Fu egli stesso a raccontare l'accaduto al R. P. Giordano de la Passardière, superiore degli Oratori di S. Filippo Neri”.32
– “Predicando a Lione, il P. Alessandro Vincenzo Jandel, poi Maestro Generale dell'Ordine dei Domenicani, insegnò ai fedeli la virtù del segno della croce. Nell'uscire dalla Cattedrale, venne accostato da un uomo che si professava massone e, quindi, incredulo; sfidato a provare la potenza del segno della croce, il massone esclamò: ‘Tutte le sere ci riuniamo (...) e il demonio viene, egli stesso, a presiedere all'adunanza. Venite con me stasera; ci fermeremo alla porta della sala; farete il segno della croce sull'adunanza, e vedrò se quello che avete detto è verità’!
Chiesto consiglio all'Arcivescovo e al suo gruppo di teologi, padre Jandel decise di accettare! La sera del giorno stabilito, andò col massone all'adunanza. Nulla avrebbe dato a conoscere che fosse religioso, poiché indossava abiti secolari; portava, però, nascosta, una grossa croce. Insieme si recarono in una gran sala, ammobiliata con gran lusso, ma P. Jandel si fermò sulla porta... A poco a poco, la sala fu piena; tutte le sedie erano occupate, quando, d'un tratto, il demonio apparve in forma umana. Trasse, allora, subito dal petto il crocifisso che teneva nascosto e con tutte e due le mani lo alzò, formando sull'adunanza il segno della croce.
Lo scoppio d'un fulmine non avrebbe avuto effetti più inaspettati, più subitanei, più strepitosi! I lumi si spensero, le sedie si rovesciarono tutte le une sulle altre, gli intervenuti scapparono... Il massone trascinò il frate, e quando si trovarono lontano,il discepolo di Satanasi gettò alle ginocchia del P. Jandel: ‘Credo - gli disse - sì, credo! Pregate per me!... Convertitemi!... Ascoltatemi!...’” 33

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– Nel 1893, il palazzo Borghese, a Roma, fu dato in affitto al Grand’Oriente d’Italia. Due anni più tardi, in virtù d’una clausola inscritta nel contratto di locazione, la Framassoneria ricevette l’intimazione di sloggiare la parte del palazzo che occupava. Il Corriere Nazionale pubblicò allora quanto segue: “L’incaricato d’affari della famiglia Borghese, essendosi presentato per visitare quegli appartamenti e porli in condizione d’essere occupati da D. Scipione Borghese e dalla duchessa de Ferrari, una sala rimaneva chiusa e non fu potuta aprire che dietro minaccia d’invocare la forza pubblica per sfondare la porta. Essa era trasformata in tempio satanico! Il giornale ne fece questa descrizione: “I muri erano coperti di damasco rosso e nero; nel fondo vi era un grande arazzo sul quale spiccava la figura di Lucifero. Lì vicino, era una specie d’altare o di rogo; qua e là dei triangoli ed altre insegne massoniche. All’intorno erano collocate delle magnifiche sedie dorate aventi ciascuna sopra la spalliera una specie di occhio trasparente e illuminato da luce elettrica. Nel mezzo di questo tempio eravi qualche cosa somigliante ad un trono”.34
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Alla luce di queste poche considerazioni storiche, fatti recenti e documenti ufficiali,sembrerebbe proprio che quanto raccontato ne “L’ELETTA DEL DRAGONE”, lungi dal presentare fatti e situazioni inverosimili, si ridurrebbe, purtroppo, ad un pallido riflesso di realtà e di atrocità ancor più orribili!

Fonte:  http://www.chiesaviva.com/.