
    Cacciatori Albanesi dell'Esercito Napoletano
"Molte famiglie albanesi,     macedoni e greche di confessione cristiana-ortodossa e cattolica     nel periodo che va dal XIII secolo al XVI furono costrette alla     diaspora per l'avanzata dei Turchi mussulmani, che occuparono i     loro territori. Per non subire il crudele dominio Ottomano, si     rifugiarono nell'Italia meridionale, terra di popoli di grande     tolleranza ed apertura mentale, che accettarono ben volentieri     queste famiglie costrette all'esilio, le quali ricambiarono     sempre con gratitudine, integrandosi ed assimilando al meglio la     cultura popolare meridionale, pur tenendo sempre presente le     proprie origini e conservando ancor oggi la loro lingua, usi e     costumi. Questa rubrica è un piccolo omaggio a queste famiglie,     affinché non ne vada persa la memoria, che hanno notevolmente     arricchito il nostro patrimonio culturale." 
 | 
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli: nobile, conte di Ugento, col predicato    di Giurdignano 
Dimora: Napoli, Lecce 
La famiglia è originaria della Grecia, trapiantata in    Otranto si crede dal XIII secolo, dove possedeva il feudo di    Giurdignano. Nel 1729 ricevuta nell’Ordine di Malta, nel priorato di    Barletta nell’anno 1801 in persona di Benedetto; dichiarata    ammissibile nel “Corpo delle Regie Guardie del Corpo” in persona di    Giovanni ( Napoli 1806-Napoli 1894) che col grado di    brigadiere era presente nei ruoli attivi dell’Esercito del Regno    delle Due Sicilie nell’anno 1860. Per successione della famiglia    Pandone il casato riconosciuto del titolo di conte di Ugento con    Regio Rescritto dell’11 luglio 1858, nonché in quello di nobile col    predicato di Giurdignano.  
Iscritta nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano    anno 1922. 
Arma: nel primo di rosso al crescente    d’argento accompagnato da tre stelle del medesimo, nel secondo di    nero al leone coronato dello stesso. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
   Titoli:        nobile 
   Dimora:        Napoli, Lecce, Otranto, Sicilia 
   Di origine ellenica, ha come capostipite Aldo valoroso    guerriero greco, venuto dalla Morea (odierno Peloponneso), da cui il    cognome “Aldo-Moresco”, che combatté nelle province bizantine    del Meridione d’Italia. Parteggiò per gli Altavilla, possessore di    diversi feudi da cui ne ottenne le baronie: Arigliano, Belvedere,    Carinola, Formicola, Trentola ed altre. Iscritta nella nobiltà    napoletana al Seggio di Nido. Un ramo si diramò in Otranto, in    Lecce, un altro in Sicilia, a Siracusa e Noto. 
 
   Cecilia    nel 1129 fondò in Napoli la chiesa di santa Cecilia; Pandolfo,    giudice in Napoli, e Gaito furono tra i baroni fedeli a re    Manfredi, posti sotto “inquisizione” da re Carlo I d’Angiò;    Bartolomeo regio consigliere e vescovo di Termoli;    Giovanni consigliere di re Roberto d’Angiò e suo vicario nel    territorio di Albi nel 1334; Marino consigliere, ciambellano    e maggiordomo maggiore della regina Giovanna I d’Angiò, giustiziere    di Terra di Lavoro e del territorio del Molise; Angelo    generale del Mare (ammiraglio) di re Ladislao d’Angiò Durazzo;    Ludovico cavaliere del seggio di Nido, maresciallo del Regno,    grand’ammiraglio di re Ladislao, artefice, al comando della flotta,    della conquista della Dalmazia da parte delle truppe di re Ladislao    nel 1406; Riccardo regio consigliere e maresciallo del Regno    nel 1413. Il ramo napoletano si estinse nel XV secolo. 
Arma:        (Napoli,    Otranto e Lecce) spaccato palizzato d’azzurro e d’argento, al capo    caricato di una croce rossa; alias: (Sicilia) d’oro con una    testa di moro al copricapo d’argento. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
Titoli:     duca di Pescolanciano, nobili dei duchi, principi di Piedimonte,     patrizio napoletano 
Dimora:     Napoli, Pescolanciano, Marigliano 
Motto:      “te sine quid moliar?” 
Si ritiene di     origine Greca, da famiglie elleniche stanziate in Calabria      “Magna Grecia” identificate come “Alexander” (alexein-andròs:     difensore degli uomini) le prime memorie certe risalgono a      Guidone milite Crociato “Miles Christi” nel 1187, barone     di Roccagloriosa (Principato Ultra) menzionato nel “Catalogo”      del Borrelli “tra i feudatari rossocrociati partiti per la     Terra Santa” (terza crociata 1189/92) precettore della     Commanderia del capitolo della provincia di Puglia-Terra di     Lavoro dell'Ordine dei Cavalieri del Tempio (I Templari). 
 
Sorse da qui il ramo pugliese con      Lando de Alexandro, cavaliere     templare della chiesa di San Paterniano Ceprano anno 1269, da     cui Giovanpietro, dottore in legge autore dell'opera “Dimostrazione     de' Luoghi tolti et imitati di più autori di Torquato Tasso     nella Gerusalemme Liberata” anno 1604; Pietro di Trani,     viceconsole del regno delle Due Sicilie per la Francia dal     1803/25, cavaliere di grazia dell'Ordine Costantiniano di San     Giorgio. Alessandro (1461-1523), giureconsulto dell'Accademia Pontaniana; il ramo napoletano si è estinto nel 1936. Ha     posseduto vari feudi tra i quali quello di Castellina con il     titolo di Duca nel 1639 e di Pescolanciano anch’esso col titolo     di duca nel 1658 ancora detenuto dalla famiglia e che deriva     direttamente da quello principale del casato quali patrizi     Napoletani ascritti ai seggi di Montagna nel 1464 con Severo e     successivamente al seggio di Porto nel 1492, iscritta nei     Registri dei feudatari della città di Napoli fino all'abolizione     degli stessi nel 1800. 
 
Tra i     personaggi napoletani si annoverano: Angelo, consigliere di re     Carlo I d'Angiò, luogotenente del Regno dal 1282 al 1885; Giovanbattista fondatore del Monte della Misericordia di Napoli;      Giovanni barone di Casanova, gran camerario di Calabria anno     1415, maresciallo del Regno e giustiziere degli Scolari; Sansonetto familiare della regina Giovanna, governatore di     Montefusco nel 1415, di Lucera e Foggia nel 1423, capostipite     del ramo dei Duchi della Castellina anno 1423; Antonio, giudice     della Vicaria nel 1481 uditore di re Ferrante d'Aragona     (1494/96), presidente della Regia Camera della Sommaria, viceprotonotario del Regno, presidente del Sacro Consiglio nel     1503, professore di giurisprudenza nell'Università di Napoli,     insignito del collare dell'Ordine della Giara, ambasciatore dei     re d'Aragona presso numerose corti europee, compose numerose     opere giuridiche; Alessandro (1461-1523), giureconsulto     dell'Accademia Pontaniana;      Antonio, deputato del Sedile di Porto     contribuì con gli altri Eletti alla costruzione della Cappella     del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli nel 1527. 
 
Alcuni     membri della famiglia, tra cui i fratelli Baldassarre e      Lorenzo, parteciparono alla congiura filo-francese contro la     dinastia austro-iberica di Carlo V, ed espropriati dei loro     beni, non avendo potuto usufruire dell'indulto del 1530;      Fabrizio per aver partecipato ai tumulti contro il Tribunale     dell'Inquisizione del 1547 venne giustiziato su ordine del     viceré don Pedro da Toledo; in seguito, il figlio di Lorenzo,           Giovanni      Francesco riscattò la confisca e la sopravvenuta     decadenza familiare, acquisendo la baronia di Santa Maria dei Vignali e di Pescolanciano nel 1576, egli fu il capostipite del     ramo tutt'ora fiorente dei duchi di Pescolanciano, i cui     discendenti ottennero il titolo di duca con Fabio Juniore nel     1654; tra i quali vanno ricordati:      Fabio      (1626-1676) duca di Pescolanciano, che ristrutturò il castello avito e edificò una     chiesa dove trasferì nel 1656 le reliquie del martire     Sant'Alessandro;      Giovanni      Maria (1824-1910) appassionato di     belle arti e di storia, Soprintendente Regio nel 1857 ed     apprezzato dall'archeologo tedesco Theodor Mommsen, fedelissimo     a casa Borbone, nominato Capo Plotone della “Guardia Cittadina”      nel 1847, consigliere provinciale del Molise nel 1855;     presidente Consigliere del Distretto d'Isernia nel 1858,     coinvolto nei moti legittimisti del Molise contro l'esercito     invasore      piemontese, seguì re Francesco II di Borbone nel suo esilio in Roma,     ritornando a Napoli nel 1865, decorato della gran croce     dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio; il figlio Mario     (1883-1963) personaggio noto alla società napoletana,     appassionato cavallerizzo, collezionista di carrozze e finimenti     che donò nel 1962 al museo Civico di Villa Pignatelli in Napoli.     Il ramo di Pescolanciano è rappresentato nel XXI secolo da           Giovanni      (1921) dottore in legge, generale a riposo della     Polizia di Stato, decorato della croce di merito di guerra,     croce d'oro per servizio, medaglia d'argento per comando, membro     della Confraternita dei “Bianchi allo Spirito Santo” in Napoli,     contrasse matrimonio nel 1951 con Gelsomina Ercole di Torre del     Greco da cui nacquero Anna Maria e Ettore anch'egli membro della     Confraternita dei Bianchi dello Spirito Santo e delegato per la     Toscana e cavaliere di giustizia del S.M.O. Costantiniano di San     Giorgio. Il casato è ascritto all’Ordine di Malta, iscritto nel     Libro d’Oro della Nobiltà italiana ed iscritto nell’Elenco     Ufficiale Nobiliare Italiano anno 1922. Un ramo della famiglia     nel XV secolo passò in Marigliano, altri in Sorrento, in     Calabria, in Cardito, in Castellino del Biferno. Muzio nel XVI     secolo possedeva il feudo di Cisterna. 
Iscritti nel     libro d’Oro della Nobiltà Italiana anno 1933 col titolo di duchi     di Pescolanciano, principi di Piedimonte, con il trattamento di      “Don” e “Donna”. 
N.d.A.: si ringrazia il signor Alessandro D'Alessandro per le     ulteriori notizie fornite per l'ampliamento della storia del     casato. 
Arma: d’oro al leone di rosso con la banda di nero caricata di tre stelle del campo. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Alifi    o     Galifi 
 
Titoli:     barone 
Dimora: Messina, Palermo 
Di    origine greca, come riferisce il Mugnos, con il cavaliere    Baldovino al servizio dell’imperatore Paleologo, trasferitosi in    Sicilia al tempo di Ruggiero il Normanno, stabilendosi in Messina    ove iniziò la sua famiglia; Roberto, suo figlio, arcivescovo    in Messina; Guglielmo, altro fratello, si stabilì in Palermo;    Benerio cavaliere al servizio di Enrico VI il quale lo    compensò con il”baliato” (Signoria) di un feudo in provincia di    Messina con privilegio del 1196; Antonio gentiluomo di camera    di re Pietro II d’Aragona e portulano (responsabile della    Capitaneria di Porto) del caricatore di Girgenti (Agrigento);    Francesco letterato e cardinale nel 1380; nel 1506 il casato    ebbe la concessione del monopolio della zecca di Messina;    Guiscardo cavaliere dell’Ordine di San Giacomo della Spada. La    famiglia ha dato vari senatori nobili, capitani, occupando i primi    uffici dello Stato. 
Arma:        d’oro    all’elefante di nero passante da sinistra,il sole di rosso    nell’angolo destro del capo. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli:     duca di Castrofilippo (tale titolo    apportava la “dignità” di Pari del Regno di Sicilia); marchese di    Sammartino, Alimena, Trentola, Realmonte; signore di Pellizzera e    Bulgara, patrizio cosentino. 
Dimora:     Cosenza, Montalto, Sammartino, Amantea 
Motto:     “Herculis    labor” 
Famiglia di origine greca, venuta in Calabria con Eustachio,    cavaliere dell’imperatore d’Oriente Basilio, con la carica di    esarca. Edificò il paese di Alimena che poi diede il nome ai suoi    discendenti, ma il paese venne distrutto da una scorreria di    saraceni al tempo di re Guglielmo II; riedificato da Altilio,governatore    delle Calabrie, il paese venne detto Altilia, mentre restò col nome    di Alimena il fiume che scorre nelle vicinanze. Suo discendente    Giancorrado anch’egli governatore delle Calabrie regnando    Guglielmo II; Francesco cubiculario – maggiordomo personale –     di re Carlo II d’Angiò; Simone giustiziere in Puglia nel    1400, amico di San Francesco di Paola, fondò alcuni monasteri di    Paolotti; la famiglia custodisce ancora oggi due epistole di San    Francesco di Paola dirette a Simone. Giambattista giustiziere    in terra di Otranto sotto la regina Giovanna II d’Angiò Durazzo. Il    casato ha dato vari cavalieri all’Ordine Gerosolimitano: Luzio    nel 1590, Pompeo nel 1597, Lucio nel 1663 prefetto    del Castello di Malta e commendatore di Castrovillari, Giuseppe    nel 1699, Giovanni nel 1699, Domenico nel 1732. Il    casato è iscritto nel patriziato di Cosenza. Agli inizi del XX    secolo la famiglia era rappresentata da Alfonso marchese di    Sammartino e patrizio di Cosenza. 
Arma:        d’azzurro    al leone d’oro, alla banda di rosso caricata da sette teste di idra    d’argento attraversante il tutto. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
   Titoli:     patrizio    di Sorrento 
   Dimora:     Sorrento,    Napoli 
Il casato    si ritiene di origine greca detta d'Aymon. Le prime notizie si hanno    con Lanfranco capitano di milizie nel 1135 al seguito di re    Ruggiero il Normanno. Stabilitasi nel Regno di Napoli si divise in    due rami: il primo in Sulmona che diede un castellano di Sulmona nel    1260, il quale ramo si estinse nel 1797 con Angelantonio, il    secondo ancora esistente in Sorrento ed iscritto al seggio di Porta    con: Paolo cavaliere angioino; Giovan Bernardino e    Giovan Battista sindaci presso il sedile di Porta, Giovanni    arcidiacono di Sorrento, passato alla storia per aver salvato    durante un'invasione saracena nel 1558 tutte le suppellettili della    Cattedrale della città; Lorenzo capitano di cavalleria al    servizio dell'imperatore Carlo V; Giannandrea, Pietropaolo    e Francesco sindaci dei nobili nei secoli XVII e XVIII;    il casato venne ricevuto nell'Ordine di Malta nel 1731, ascritto nel    Registro delle Piazze Chiuse, dichiarato ammissibile nelle “Guardie    del Corpo” di sua maestà il re del Regno delle Due Sicilie nel 1843    in persona di Nicola. 
Viventi    nella prima metà del XX secolo: Eugenio, Alfredo,    Guglielmo, Elvira. 
Il casato    iscritto nell'Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano anno 1922. 
Arma:           inquartato: nel primo e nel quarto d'argento a cinque onde di nero;    nel secondo e terzo d'azzurro ad una A d'oro. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
   Titoli:     nobile 
   Dimora:     Napoli 
Antica    famiglia nobile di origine greca, proveniente da Corfù, dal cognome    ANDROUSS italianizzato poi in ANDRUZZI, stabilitasi nel napoletano    fin dal XVII secolo, ha dato vari militari di ottima levatura    nell’Esercito del Regno delle Due Sicilie tra cui si ricordano    Demetrio capitano dello Stato Maggiore, morto da valoroso nella    campagna del 1848/49 in Sicilia. Marco (Corfù 11 dicembre    1816) capitano dello Stato Maggiore della “1° Divisione Marra” che    ha partecipato alla campagna di difesa del Regno contro l’invasione    piemontese del 1860/61; Costantino (Corfù 4 gennaio 1831 –     Napoli 13 marzo 1901), figlio di ATTANASIO, tenente colonnello    dell’Arma del Genio, proveniente dalla Scuola Militare della    Nunziatella, a nove anni entrò nella Scuola militare di San Giovanni    a Carbonara ed a undici anni venne ammesso gratuitamente alla    Nunziatella, fu tra i migliori del suo corso, tenente nel 1850,    partecipò da valoroso alla difesa del regno, l’11 settembre del 1860    nominato capitano ed assegnato al comando del Genio nella 1ª     Divisione del Genio Afan de Rivera dove prese parte ai combattimenti    sul Volturno. Alla difesa di Gaeta dall’ottobre, comandante delle    batterie 1ª e 2ª Regina e Trabacco, promosso per meriti prima    maggiore e poi tenente colonnello ed in seguito nominato direttore    del genio del fronte terra della piazza di Gaeta; dopo la resa di    Gaeta, avvenuta il 14 febbraio 1861, subì la prigionia a Capri, una    volta libero si stabilì a Roma ed assunto come ingegnere nelle    Ferrovie Pontificie, ritornò a Napoli dopo il 1870 dove svolse la    libera professione, circondato dalla sua numerosa prole di ben 24    figli, alcuni suoi discendenti vivono tutt’ora nel Meridione    d’Italia. 
Arma:        non    reperita 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli: nobili 
Dimora:     Sicilia 
Di    origine greca, si crede da una filiazione dell’imperatore Isacco    Angelo Comneno, venuta in Napoli al tempo delle prime invasioni    turche in terra bizantina e stabilitasi in Amalfi; si diramò in vari    rami tra cui: D’Angelo (vedi)    baroni e marchesi di Bertolino; i De Angelis (vedi)    originando i marchesi di Ceglie, i principi di Carbonara. Un ramo    passò in Sicilia dando numerosi uomini di valore con integro il    cognome originale. 
Arma:        d’azzurro    alla fascia d’oro accompagnata da due stelle dello stesso in punta    ed in capo. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli: marchesi e patrizi    di Trani. 
Dimora: Napoli, Trani. 
Secondo il Mugnos e il Palizzolo    il casato discende dall’imperatore bizantino Isacco Angelo, i cui    parenti dovettero rifugiarsi in Italia; tesi avvalorata da re    Ferrante d’Aragona che concesse a Francesco de Angelis il    comando di mille cavalieri senza alcuna plausibile spiegazione, ma    solo per “lo splendore dei suoi gloriosi avi”. Stanziata ad Amalfi    nel XIII secolo, da cui si diramò in varie città d’Italia. Ascritta    a Napoli al seggio di Porto, in Trani al seggio di Campo dei    Longobardi, in Tropea al seggio di Portercole, Foggia, Aquila,    Malfatta, Teano ed in Romagna. Possedette numerosi feudi. Cavalieri    di Malta, Calatrava, Santo Stefano e dell’ordine Costantiniano.     Bartolomeo     cavaliere della Pentecoste nel 1272; Giacomo    barone del contado di Teano nel 1303; Guglielmo capitano    della città dell’Aquila nell’anno 1332; Antonio e    Giovanbernardino cavalieri aurati (cavalieri della Guardia    Onorifica) di Carlo V nel 1546.     Il    ramo di Teano si estinse nel XVII secolo, mentre prosperò quello di    Trani e Bari che, quest’ultimo, aggiunse il cognome Effrem. Il ramo    di Trani ottenne il titolo di marchese di Ceglie nel 1633, principe    di Bitetto nel 1649, principe di Mesagne passati poi ad altre    famiglie. Il casato ottenne il marchesato di Trentenara nel 1710 e    di Torreruggiero nel 1797. Girolamo si stabilì in Bari nel    1700 e nel 1749 venne iscritto al suo patriziato, sposò donna Anna    Teresa Effrem ultima erede di questa famiglia di origine greca, ed i    suoi discendenti diretti ne aggiunsero il cognome. Rappresentanti    del casato nella ultima metà del XIX secolo il marchese di    Trentenara e duca Francesco, il marchese di Torreruggiero e    patrizio di Bari Girolamo De Angelis Effrem. Iscritti nel    1804 al Registro delle Piazze Chiuse. Tommaso alfiere    (sottotenente) del “6° Reggimento Farnese” partecipò alla campagna    del 1860 per la difesa del Regno delle Due Sicilie, distintosi nella    battaglia di Castelmorrone, cadde prigioniero a Caserta il 2    ottobre. 
Monumenti celebrativi del casato    sorgono in Napoli nelle chiese di: Santa Maria La Nova, cappella    gentilizia in Sant'Agostino alla Zecca, in San Giovanni a Carbonara    ed in Santa Maria del Consiglio; in Bari con cappella gentilizia    nella Chiesa del Carmine; in Trani con cappella gentilizia nella    chiesa di Santa Croce; in Molfetta nella chiesa di San Bernardino da    Siena. 
Il casato è iscritto nel libro    d’oro della nobiltà italiana; iscritto nell’Elenco Ufficiale    Nobiliare Italiano anno 1922. 
Arma:    d’azzurro alle tre fasce d’argento. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Baffa    Trasci 
 
Titoli: nobile 
Dimora: Santa Sofia d’Epiro, Cosenza 
Motto: “Spera in Deo” 
Famiglia di origine greco-albanese, emigrò dalla    Tessaglia nel 1393 a seguito dell’invasione turca nel despotato    dell’Epiro, da dove dovette emigrare verso il 1473 a seguito    dell’espansione dell’Impero Ottomano e si trapiantò tra il XV e XVI    secolo insieme agli altri Arvaniti (albanesi residenti in Grecia)    sulle coste dell’Italia meridionale, nel paese di Santa Sofia in    provincia di Cosenza. La famiglia si imparentò con altre nobili    famiglie albanesi del luogo: Trentacapilli di Bisignano, Marchiarò    de Coronei di San Demetrio Corone, Damis, Stratigò e De Benedictis    di Lungro, Cadicamo di San Demetrio Corone. Il casato ebbe origine    con il matrimonio nel 1573 tra Stefano Baffa (+1610),    sacerdote greco uxorato (autorizzato a coniugarsi), e Theodolinda    Maddalena Erina Trasci (1555 - 1593), ultima discendente della    famiglia d’origine greca, insignita dall’imperatore Carlo V del    cavalierato di Coroneo in data 22 novembre 1533 in persona di    Giorgio Trasci e del titolo di nobili dei despoti di Trachis,    sebastocratori di Melide, gran conestabile del Regno di Tessalonica,    il cui primo capostipite Spiridione aveva sposato una figlia    naturale, poi legittimata, di Michele II Angelo despota d’Epiro.    Primo rappresentante della famiglia Baffa-Trasci fu Pietro    Antonio (1573 - 1640) cui il sesto principe di Bisignano,    Niccolò Bernardino, concesse l’apposizione del doppio cognome;    Ferruccio sacerdote di rito latino, educatore di casa del barone    Falangola di Fagnano; Lucrezia monaca clarissa ad Acri nel    XVII secolo; Dianora poetessa; Pietro Stefano tra i    fondatori della chiesa di San Nicola della Grangia in Santa Sofia,    distrutta in seguito al terremoto del XVIII secolo; Giorgio    filantropo, fondatore del primo ospizio per poveri in Santa Sofia    nel XVII secolo; Ignazio e Mercurio ferventi    giacobini, membri della guardia civica di Santa Sofia, che nel 1806    arrestarono il famoso capo brigante Antonio Santoro detto “Re    Coremme”; Giorgio Costantino paleologo (Santa Sofia 1728 -    Palermo 1815) fedelissimo alla corona borbonica ed investito della    carica di "Cappellano Reale," decise pur anziano, di seguire la    famiglia reale durante il suo esilio in Sicilia unitamente al cugino    Giuseppe Jeno de Coronei (1783-1860) medico personale della Regina    Maria Carolina; i fratelli Demetrio e Benedetto autori con    altri compaesani di una spedizione contro i briganti nelle gole di    Antrodoco nei pressi di Rieti nel 1820; Gabriele membro della    Guardia Civica di Santa Sofia; Vincenzo e Giovanni parteciparono ai    moti del 1848 e alla battaglia di Campotenese; Gabriele    (1833-1907 consigliere comunale, poeta ed autore di numerosi    componimenti in lingua “arberesh” (albanese). Attuali rappresentanti    della famiglia: Atanasio (1948) medico, Demetrio    (1985) dottore in giurisprudenza, Giovanni (1986) laureando    in ingegneria gestionale. 
N.d.A.: Si ringrazia il dottor Demetrio Baffa Trasci    per le utilissime notizie relative al casato. 
Arma: d’azzurro, al basilisco di verde posto    su di un aratro d’argento. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
Nel 1799    un ramo della famiglia Baffa Trasci, in persona del già ricordato    Gabriele (1770 -1816), aggiunse al proprio, il cognome di    Amalfitani di Crucoli, risultando da allora Baffa Trasci    Amalfitani di Crucoli subentrando, a seguito dell’estinzione    della famiglia, nel patrimonio storico-araldico della stessa. 
La    famiglia Baffa Trasci Amalfitani di Crucoli alza la seguente arme    decorata dalla corona di Marchese. Partito. Nel 1° d’azzurro al    basilisco al naturale volto a sinistra sormontante un vomere    d’argento. Nel 2° d’oro a due bande di rosso, su ciascuna un leone    passante, quello di sotto rovesciato, il tutto di rosso. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli:     nobile 
Dimora:     Napoli, Palermo 
Motto:     “Spiritus intus alit” 
Famiglia di origine greca, venuta in Italia al tempo    della dominazione ellenica dell'Italia Meridionale, stanziatasi poi    nel Regno di Napoli, in Palermo ed in Parma con fra Pietro    Basili da Parma commendatore dell’Ordine di Malta in Modena nel 1347    (ruolo Generale dei Cavalieri Gerosolimitani) . Il casato è    citato nel “Vindex Neapolitanae Nobilitatis” al tempo di re    Guglielmo il Buono nel XII secolo “Filius Riccardi Basilii, tenet    in Castellaneto domidium feudum, milits, et, cum augumento, abtulit    militem uno”. Il casato fu sempre fedele alla “Patria    Napoletana” e alle sue istituzioni. 
Nobili fuori piazza in Napoli, Basilio creato    cavaliere del Cingolo Militare il     25 dicembre 1383    da re Carlo d'Angiò nel Duomo di Napoli; si hanno notizie di un    Basile castellano della Torre di San Vincenzo nel 1496;    Sebastiano de Basili preposto all'Ufficio di Cavalierato della    città di Napoli il     18 agosto 1499    (Archivio di Napoli Vol. 17 del Comune del Collaterale, fol.    146); CARLO “continuo” ossia Guardia del Corpo del Re nel    1545. Bellisario marito della magnifica Veronica Passaro, con     “istrumento” del     14 aprile 1592    emancipava il figlio Antonio , nato a Napoli il     2 aprile 1574,    e con Decreto della Regia Camera della Sommaria del 14 maggio 1592    veniva dichiarato cittadino Napolitano, col diritto di godere tutte    le immunità, franchigie, libertà ed esenzioni che godevano i    cittadini napoletani (Registro del Comune del Collaterale vol. 31    fol. 80, istrumento del     14 aprile 1592)     
Giambattista Basile 
 
La figura più illustre della famiglia è senz'altro il    grande letterato Giambattista (Giugliano in Campania 1566 –     Giugliano in Campania 1632) conte di Torone, cavaliere del Cingolo    Militare detto anche della “Milizia Aurata”. Da giovane fu soldato    mercenario al servizio della Serenissima Repubblica Veneta, tra    Venezia e l'isola di Candia, odierna Creta. L'ambiente, in cui venne    a trovarsi, gli permise di frequentare la società letteraria “dell’Accademia    degli Stravaganti”. I primi documenti della sua attività    letteraria risalgono al 1604 e sono costituiti da alcune lettere    scritte come prefazione all’opera “la Vaiasseide” dell'amico e    letterato     Giulio Cesare Cortese. L'anno seguente viene messa in    musica la villanella “Smorza crudel amore”. Rientrato a    Napoli nel 1608 pubblica “Il Pianto della Vergine”. Nel 1611    era alla corte di principe Luigi Carafa di Stigliano, al quale    dedicò un testo teatrale “Le avventurose disavventure”; seguì    la sorella Adriana, celebre cantante dell'epoca, alla corte    dei Gonzaga in Mantova, entrando a far parte della Accademia    degli Oziosi, dove viene nominato “gentiluomo di Corte” il 13    marzo 1613 e cavaliere il 6 aprile dello stesso anno. Qui fece    stampare madrigali dedicati alla sorella, le “Egloghe amorose e    lugubri”, la seconda edizione riveduta ed ampliata de “Il    Pianto della Vergine” e il dramma in cinque atti “La Venere    addolorata”. Tornato a Napoli fu governatore di vari feudi per    conto di alcuni Signori del luogo; nel 1618 pubblicò “L'Aretusa”,     dedicato al principe Caracciolo di Avellino, e l'anno seguente un    testo teatrale in cinque atti “Il Guerriero amante”. Le sue    opere più famose sono scritte in lingua Napoletana si intitolano "Le    Muse Napolitane" e “ Lo Cunto de li cunti ovvero lo    trattenimiento de peccerille”, noto anche come il “Pentamerone”,     chiamato così da un editore e non per scelta del Basile.    Quest'ultimo, anche nel titolo, si ispira alla raccolta di novelle    del “Decamerone” di Boccaccio, ma con alcune differenze: la cornice    interagisce con le favole-novelle, le giornate sono la metà (5    anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50    anziché 100, di cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da    cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette    caratterizzate da difetti fisici; le storie narrate da Basile sono    delle fiabe tratte dalla tradizione popolare che trasforma in    prodotti letterari, con l'uso della lingua napoletana più colta di    quella effettivamente parlata e con l'inserimento di annotazioni    ironiche e commenti moralistici, la scelta di scrivere in napoletano    corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare    nuovi e più attuali modi espressivi oltre al fatto che il     “Napoletano è sempre stata una lingua” sminuita solo dall'unità    d'Italia dove è stato forzatamente usato il ”toscaneggiante”.     Gianbattista morì a Giugliano, nel 1632 , ed è qui sepolto nella    chiesa di Santa Sofia, eppure Gian Alessio Abbattutis, anagramma col    quale si firmava Giovan Battista Basile, morì senza la gioia di    vedere la propria opera pubblicata e conosciuta. 
 
“L'Italia possiede nel Cunto de li Cunti    del Basile, il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti    i libri di fiabe popolari." Così Benedetto Croce definì il     «Boccaccio Napoletano», Giambattista Basile: scrittore unico nel suo    genere per il Seicento italiano. Dalla penna e dall'immenso estro    letterario e linguistico dell'autore da una parte, e    dall'osservazione meticolosa della realtà e dei racconti popolari    del suo tempo, il suo capolavoro multi fiabesco in antico dialetto    napoletano, «Lo Cunto de li Cunti», o «Pentamerone», è da sempre uno    dei principali punti di riferimento scritti della più classica    tradizione italiana della Fiaba. La sua Opera, insieme a    quella del Boccaccio e soprattutto di Gianfrancesco Straparola, è    tra le più antiche e importanti del nostro patrimonio letterario    nazionale, e la sua rilevanza è tale, da essere riuscita persino ad    influenzare il lavoro di altri illustri raccoglitori, rielaboratori    e scrittori di fiabe del Continente, tra i quali i tedeschi Grimm”.     Ma l’Italia non se ne ancora accorta, ancora oggi il Cunto de li Cunti     non è diventato un testo di studio    ampiamente diffuso. 
 
La sorella Adriana, fu celebre cantante e    poetessa che raggiunse il primato del canto in Italia ai tempi in    cui si impose la figura della “virtuosa”. 
I Basile si dividono in vari rami: il ramo di    Giovan Andrea (1651), ramo iscritto anche al Patriziato di    Bologna si estinse con Isabella deceduta in Napoli il        3 dicembre 1847; nella Cappella in Santa Restituta ne Duomo di    Napoli vi è la sepoltura di Giovan Andrea, patrizio di    Bologna, deceduto il 7 maggio 1781. Altro ramo fa capo a Giovan    Antonio marito di Maria Coscinà De Luna, ed aggiunse il cognome    de Luna, quindi Basile De Luna, appartiene a questo ramo Federico    Basile De Luna (     1833-1878)    1° tenente dello Stato Maggiore della Divisione “Marra”, proveniente    dalla scuola militare della Nunziatella, partecipò alla difesa del    Regno dall’invasione sabauda, presente a Catania il 31 maggio 1860,    dove per il suo valore ottenne la croce di cavaliere di diritto    dell’Ordine di San Giorgio, fu uno dei pochi ufficiali dello Stato    Maggiore a presentarsi a Capua, nei combattimenti di Castel Morrone    del 1° ottobre venne dato per disperso, ma fatto prigioniero e alla    fine del conflitto entrò nel costituendo esercito del regno    d’Italia, non fece mai carriera restando semplicemente capitano.     
   Aniello        sergente maggiore d'artiglieria, prese parte all'assedio di Pescara    nel 1711, promosso capitano per meriti di guerra ( grado che    corrisponde agli odierni ufficiali superiori), ebbe “la missione    di ispezionar tutte le città e le piazzeforti del Regno per    dimostrare la nuova artiglieria da guerra, in cannoni e mortai”     (Regi Diplomi vol. 225, vol. 31 - Archivio di Stato di Napoli). Il    figlio Giovan Andrea, capitano, prese parte all'assedio di    Orbetello, e per ricompensa del suo valore gli venne concesso dal Re    il titolo di “don” per sè ed i suoi discendenti con Privilegio dato    in Madrid del 3 luglio 1665 e reso esecutivo in Napoli il 30    settembre 1667. Giuseppe, fratello di Aniello, razionale    della Regia Camera della Sommaria nel 1711, sopraintendente della    Regia Darsena dal 1711 al 1732, credenziere della Regia Dogana;    Francesco prorazionale della Regia Camera; Antonio (1710)    governatore di Vico Equense, sposò l'8 febbraio 1730 Giuseppa Vico    figlia del filosofo Giambattista (Parrocchia di Santa Maria a    Piazza , Vol. IX dei matrimoni fol. 64). Nicolò (1713)    capitano di giustizia, governatore di Castelforte e nel 1740    Governatore di Giustizia della città di Monteleone, possessore della     “Mastrodattia” del S.R.C.; il figlio Filippo (1735)    ottenne il privilegio della cittadinanza Napoletana, cadetto nel     “Reggimento Real Farnese”, governatore di Lauro e Polla; Basilio    barone di San Massimino in Abruzzo, giudice onorario della Gran    Corte della Vicaria con Sovrano Dispaccio del 7 agosto 1789,    soprintendente generale della Guardia del Re, e dei Regi deputati    della città di Napoli, nominato “Presidente Onorario di Cappa e    Spada della Regia Camera” dalla Regia Camera di Santa Chiara; il    figlio Ferdinando (1751) cadetto nel “Battaglione Reale” nel    1772, primo maggiore e governatore del castello di Licata, decorato    della medaglia di bronzo di fedeltà per aver seguito re Ferdinando    IV in Sicilia, morì nel castello di Licata il 20 ottobre 1817. Il    figlio Nicola cadetto nel “1° Reggimento Siciliano” nel 1813,    decorato della medaglia di bronzo per aver militato in Sicilia con    R.D. del 9 agosto 1816, “Guardia del Corpo a Cavallo” con R. D. del    29 luglio 1819, tenente colonnello con R. D. del 23 febbraio 1856.    DOMENICO (1825-1865) 2° tenente del “8° Reggimento Fanteria di Linea    Calabria” partecipò alla difesa del Regno dall’invasione piemontese    nei combattimenti del 1 ottobre sul Volturno, il reparto venne    sciolto in Capua il 2 novembre. 
Il casato    venne riconosciuto di “nobiltà generosa” dalla Consulta Araldica con    D. M. del 26 giugno 1916. Iscritto nel Libro d’Oro della Nobiltà    Italiana, iscritta nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano anno    1933 
Arma:    d’azzurro al basilisco d’argento, movente con la zampa sinistra da    un monte di tre cime d’oro e sormontato da tre stelle dello stesso    ordinate in fascia. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli: patrizio di    Cosenza 
Dimora: Cosenza 
Famiglia di origine greca,    stabilitasi in Cosenza nel XI secolo, come da ricordato dal Candida    da un atto notarile cosentino del notaio Bartolo Serritano. Il    casato ottenne per diversi secoli l’ufficio di “correttore delle    Puglie”. Giovanni inviato dalla città di Cosenza a prestare omaggio    a re Carlo I d’Angiò; Emilio vescovo di Briatico nel1579;    Paolo generali dell’Ordine dei padri Somaschi, famoso letterato;    Antonio governatore di Maratea nel 1750; Michele Antonio    vescovo di Cassano nel 1829 e presidente dell’Accademia di    Cosenza. Il casato aggregato al patriziato di Cosenza da “antico    tempo” fino all’abolizione dei Sedili; ricevuto nell’Ordine di Malta    nel 1591; FRANCESCO iscritto nell’Elenco nobiliare col titolo di    patrizio di Cosenza con i cugini Giuseppe, Pasquale    nella prima metà del XX secolo. 
Iscritta nell’Elenco Ufficiale    Nobiliare Italiano anno 1922. 
Arma:    d’azzurro alla croce di Sant’Andrea d’oro accompagna da due stelle    d’oro una in capo ed una in punta. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli:    nobili 
Dimora:    Corleone 
Si crede di origine greca,    famiglia già nota dal XV secolo in Sicilia. Domenico ottenne    il titolo di barone di San Filippello il 25 maggio 1789 e nominato    pretore di Corleone dal 1797 al 1799. Il casato venne riconosciuto    di “antica nobiltà” dalla Real Commissione dei Titoli di Nobiltà del    Regno delle Due Sicilie il 9 marzo del 1858. 
Iscritta nell’Elenco Ufficiale    Nobiliare Italiano anno 1922. 
Arma:    d’azzurro al castello d’oro, sostenuto da due leoni d’oro    controrampanti e affrontanti, sormontati da tre stelle dello stesso. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
    Titoli:     nobile, signore 
    Dimora:     Bari, Bitonto, Napoli, Taranto, Palermo e Trieste.  
    motto:      “Salus     et Gloria” 
Si     ritiene di origine greca dal soprannome Kalos italianizzato in     Calò, che in greco vuol dire “bello” e stava ad indicare una     persona di bell’aspetto. Passata nel Regno di Napoli nel XII     secolo si crede con il generale di Bisanzio Johannes Ducas     (Kalòs), il quale fu sconfitto in battaglia e fatto     prigioniero nelle Puglie. Secondo altri autori venne nel XIII     secolo con un altro Johannes Kalò, chiamato “Nobilis     Vir”, ambasciatore degli imperatori Comneni e Paleologi. 
    Possidenti terrieri in Bitonto, nobili in Ostuni, Bari,     Gallipoli, Brindisi, Oria, Taranto, signori di Torricella e     Insilito, ed infine in Trieste nel XVI secolo, con un'altra arma     del casato, con iscrizione nel 1626, in Napoli iscritta nel     1805; feudatari di Calò e Torricella. La famiglia si stabilì in     Bari nel 1592 ed aggregata alla nobiltà della città nel 1716     aggiungendo, un ramo del casato, al proprio cognome quello dei     Carducci per parentela acquisita con detta famiglia. Ricevuta     nell’Ordine di Malta per “giustizia” e nel 1805 ascritta al     Registro delle Piazze Chiuse del Regno. Bernardo     castellano di Taranto per conto di Carlo II d'Angiò, Alfonso     seniore sindaco di Gallipoli 1515/6, stessa nomina     Alfonso juniore 1590/1 1600/1, 1609/19, Maurizio     1690/1, 1708/9; Matteo prese parte alla battaglia di     Lepanto nel 1571,Francesco Antonio sindaco di Taranto nel     1795, Pietrantonio ufficiale di guarnigione in Taranto     nel 1580, Annibale consigliere imperiale in Trieste,     appartiene alla famiglia il beato Giacomo. I personaggi     più illustri del casato sono: 
 
    Giovanni     Calò (Francavilla Fontana 1882-1970) pedagogo e filosofo,     tra le sue opere maggiori si ricorda ”L'individualismo Etico”      e “Dell'alfabeto a Dio” premiate dalla Reale Accademia di     Scienze Morali e Politiche di Napoli, segretario alla Presidenza     della Camera dei Deputati nel 1920/1, sottosegretario alla     Pubblica Istruzione nel governo Facta, membro dell'UNESCO,     dell'Accademia dei Lincei, vice presidente dell'Ufficio     Nazionale per l'Educazione di Ginevra. 
 
    Jacopo Calò Carducci      (Bari     1902 - Misurata Libia 1939) colonnello della regia Aeronautica     Militare Italiana, pilota della “Crociera del Mediterraneo     Occidentale” nel 1928, vincendo      la     Coppa de Pinedo, consegnatagli dalla Regina Elena a Palazzo     Reale, nel 1930 comandante della Squadriglia Verde nella      “Crociera Atlantica Orbetello-Rio de Janerio”, che gli valse la     medaglia d'oro al valor aeronautico, nel giugno 1931 fece parte     della “Crociera     Veloce”     compiuta al comando di Italo Balbo, da Taranto alle     isole Egeo a Tobruk al Tibesti nel Sahara; comandante     della Centuria Alata della trasvolata da     Roma a Chicago; capo di Stato Maggiore in     Libia dal 1937, dove nel 1939 perse la vita per un incidente     aereo nei cieli di Misurata, l'aeroporto militare di Bari è     dedicato alla sua persona (www.calocarducci.it/trasvolateatlantiche.php). 
Un     ramo del casato si stabilì in Palermo ove ottenne vari feudi a     Villa Maio e Olio di Lino. 
 
Un     ramo del casato si estinse nei Sylos di Bitonto, ove sorge     tutt'ora il palazzo Sylos Calò in stile tardo rinascimentale. Vi     sono in Puglia diversi palazzi nobiliari del casato tra cui:     palazzo Calò di Cutrofiano, di Arcudi Soleto, di Gallipoli, di     Origliano d'Otranto e in Taranto.          Carlo,     nobile, vivente nella prima metà del XX secolo iscritto     nell'elenco nobiliare italiano. 
Il     ramo borghese della Casata è attualmente in Napoli, ma     originario di Miglionico (MT): Giuseppe (di Vincenzo)     giornalista professionista, maestro del lavoro, sposa Giuseppina     Mascolo, da cui: Bruno, dottore in Sociologia, sposa     Giuliana Marotta, da cui Emanuele; Massimo,     avvocato cassazionista del Foro di Napoli, sposa Marina Romeo,     avvocato del Foro di Napoli, da cui: Lorenzo, Cristina;     Maria; Gabriella dottoressa in lingue;     Alessandro. (Notizie gentilmente fornite dall'avv. Massimo     Calò). 
 
Altro     ramo borghese della famiglia è quello di Taranto rappresentato     da Silvio Veo Calò (nato nel 1955), figlio di Gelsomina     Calò grande appassionata e collezionista d'arte, il quale è     curatore ed erede del patrimonio artistico di famiglia, raccolto     nella "Collezione Giò Secondo Calò" aperta alle visite su     prenotazione presso il palazzo avito sito in Taranto (sito     internet:         www.collezionegio-secondocalo.it). 
    Iscritta nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano nell’anno     1922. 
    N.d.A.: si ringrazia il signor Michele Calò per le utilissime     notizie sul casato e per la gentile concessione della     pubblicazione delle immagini. 
 
    Arma:     d’azzurro all’albero al naturale sradicato, sostenuto da un     leone d’oro, con fascia d’oro attraversante. 
    Arma:      ramo     di Taranto:     d'azzurro all'albero al naturale movente in punta, accollato nel     busto una biscia al naturale 
    Arma:      ramo     di Trieste:nel     primo partito un leone rampante su di un albero, e nel secondo     tripartito longitudinalmente presentava un’ala a semivolo e     nella fascia mediana tre gigli. 
    Arma:     ramo di Bari e Torricella: all’elefante al naturale     rivolto, passante su di una pianura d’azzurro e sormontato da un     crescente d’argento, nel capo. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
   Titoli:     nobile 
   Dimora:     Molise,    Campania 
La    famiglia Campofreda, venne in Italia, con la migrazione Albanese al    seguito dei Castriota Skanderberg. Si stabilì in Molise, nei pressi    del fiume Biferno, nel paese di Portocannone (CB), che fu ripopolato    dagli Albanesi dopo la sua distruzione in seguito ad un terremoto.    Il cognome più antico della famiglia era Campofegano, così    risulta da documenti parrocchiali. Il primo di cui si conosce    l'esistenza è Giuseppe Campofegano nato nel 1620. Da questi    nacque Paolo, che viene menzionato in un libro risalente al    1688 circa, tra alcuni individui che" tennero la campagna"    agendo contro in Governo Vicereale. Lo stesso è indicato, poi come    chierico ed infine come diacono, morì nel 1707 circa. Teodoro,    figlio di Paolo, sacerdote archimandrita (di rito greco ortodosso).    Altro appartenente alla famiglia era Don Tommaso economo e    curato dal 1631 al 1655. Intorno alla metà del XVIII secolo il    cognome mutò in Campofredano. Un ramo della famiglia, si spostò in    Ururi, dopo che Pasquale Vincenzo Campofredano, "uccise il    Monaco, suo maestro, ed emigrò". Nazario Campofredano    (1773-1813) ha firmato dei documenti, sia come Campofredano che come    Campofreda, educato alle tradizioni albanese della famiglia, egli    formò, dopo la proclamazione della Repubblica Napoletana nel 1799,    una banda armata che osteggiava i Francesi, prendendo parte a    diversi combattimenti, fu comandante della “28ª Compagnia Albanesi”     di Portocannone. La Regina Carolina era a conoscenza di questi    insorti, e ne scrisse al Cardinale Ruffo. L'intendente di Lucera,    Giuseppe Poerio, per costringerlo ad arrendersi, prese in ostaggio    la moglie ed i figli. Egli si presentò a Lucera e consegnò le armi.    Gli fu "chiesto" di servire il Governo nel perseguitare i    briganti che infestavano le campagne del Molise, della Capitanata e    delle Calabrie. Svolse così bene ad i suoi compiti, che nel 1808 il    Generale Caracciolo, lo fece nominare tenente colonnello, e nel    frattempo era anche diventato sindaco del paese di Portocannone. Fu    ucciso in un'insidia brigantesca nel settembre 1813; il governo in    seguito a questo fatto, fece assediare il paese, per catturare gli    omicidi del sindaco Campofreda. Nicola, figlio di Nazario,    fece una rapida carriera militare, ed a 24 anni era Capitano del     “Reggimento Milizie del Molise”, combatté il brigantaggio, ed ebbe    dal re Ferdinando di Borbone una medaglia d'argento in premio al suo    operato; ottenne in seguito le nomine di Guardia Generale Forestale    nel 1830 ed indi di “Controllore dei Dazi”; nel 1847, nonostante    servisse nell'Esercito Borbonico, agiva contro il Governo, insieme a    Carlo Poerio ed altri ufficiali. Per questo motivo patì anche il    carcere. Fu graziato da una condanna, grazie all'operato di una sua    figlioccia, donna Carolina Musacchio, che era Dama di corte a    Napoli; fu “commissionato” da Garibaldi a far insorger il Molise,    capitano garibaldino, ed in seguito capitano della Guardia    Nazionale, in questa sua opera coadiuvato dai figli: Achille,    Luigi ed Antonio. Luigi fu autore di alcune    opere letterarie: “L’eredità obbligatoria e la rivindica del    capitale”, “Massime utili ed istruttive”, “Cenno storico    politico e reclami”; fu sindaco di Portocannone.    Antonio ( 1835-1910) si trasferì in Casandrino (NA) dove sposò    una gentildonna della famiglia Cerrone; fu sindaco di Casandrino dal    1879 al 1889, colonnello dei “Cacciatori del Vesuvio”, conciliatore    e vice pretore, cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Il    ramo di Casandrino è estinto. 
 
Si    ringrazia il signor Renato Campofreda per le notizie sul casato e    per l’autorizzazione a pubblicare le immagini 
Arma:        d’azzurro    ai due leoni lampasssati d’oro controrampanti al pino di verde    terrazzato dello stesso. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli:     nobile 
Dimora:     Messina 
Il    casato discende da un cavaliere greco Critago Cumaglia,    esarca della Sicilia sotto l’imperatore Michele Curapalata nel 812 –     èxsarchos- (governatore civile e militare delle province dell’impero    Bizantino). Nicolò fu tra i Signori di Sicilia che offrì la    corona di Sicilia al Ruggiero il normanno; Pietro, uno dei    quattro sindaci di Messina, e uno dei principali congiurati dei    Vespri Siciliani contro i francesi invasori insieme a Giovanni da    Procida; Sebastiano senatore in Palermo; un personaggio del    casato fu console del mare nel 1437; Martino anch’egli    console del mare nel 1460; si crede sia estinta. 
Arma:        d’azzurro    al leone d’oro, tenente con le zampe anteriori una palma di verde. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Castriota    Scanderberch 
(o    Scanderberg di Sant’Angelo alle Fratte, Signore d’Albania) 
Titoli: principe, marchese di Auletta,    predicato di Sant’Angelo alle Fratte e Signore d’Albania, nobile 
Dimora: Napoli, Lecce 
Famiglia originaria dell’Albania, discendente da    Giorgio (1403-1468) ultimo Despota (principe, sovrano assoluto)    dell’Albania, eroe nazionale albanese, detto “Scanderberg” forma    italianizzata del titolo onorifico di “Iskander Bey” ossia “principe    Alessandro”, quale allusione ad Alessandro Magno, combatté con    successo contro i turchi contrastandoli per circa venti anni, tanto    da essere riconosciuto dagli stessi con Maometto II, nel 1461,    principe d’Albania e d’Epiro; egli giunse in Italia nel 1460    chiamato da papa Pio II Piccolomini in aiuto di Ferrante I d’Aragona    nella lotta contro gli Angioini, riportando una schiacciante    vittoria, venne ricompensato con i feudi di Monte Sant’Angelo e di    San Giovanni Rotondo in Puglia nel 1464. 
 
Il figlio Giovanni    governò l’Albania con la tutela della Repubblica di Venezia fino al    1478 quando i Turchi invasero definitivamente le sue terre. Si    rifugiò in Italia nel Regno di Napoli dove venne accolto da re    Ferdinando II d’Aragona, il quale gli concesse nel 1495 il castello    di Gagliano in Otranto e la città di Oria. Nobile in Amalfi con    Giorgio tesoriere del duca di detta città, che ottenne la    cittadinanza napoletana nel 1513; iscritta al patriziato veneto ed    aggregata al “Maggior Consiglio” di Venezia nel 1493. 
 
Il ramo di    Napoli ebbe come capostipite Achille, figlio di Ferrante    duca di san Pietro a Galatina, i suoi discendenti si    trasferirono in Napoli nel XVII secolo; il ramo di Lecce ebbe come    capostipite un altro figlio di Ferrante, Pardo che visse a    Galatina i suoi discendenti si stabilirono nel XVII secolo in Lecce,    dove Alessandro venne iscritto al suo patriziato ed ascritto    nel Priorato di Barletta dal 1801; ricevuta nell’Ordine di Malta dal    1561, possedettero un’infinità di casali, ottennero i feudi di San    Demetrio, San Cosma e Macchia, decorati per successione della    famiglia De Gennaro del titolo di marchese di Auletta. Costantino,    cavaliere dell’Ordine di Malta, partecipò alla vittoriosa battaglia    di Lepanto del 7 ottobre 1571 dei cristiani della “Lega Santa”     contro i turchi dell’Impero Ottomano, illustre letterato con lo    pseudonimo di Filonico Alicarnasseo; nella chiesa di Santa Maria la    Nova in Napoli vi è la tomba di Costantino vescovo di Isernia    (1408-1500). Appartenente al ramo principesco Francesco al    quale nel 1939 venne offerta, da re Vittorio Emanuele III, la corona    d’Albania ma egli rifiutò; rappresentante del casato nel XXI secolo    è don Giorgio Maria (1928) residente in Napoli. 
Esiste a Napoli "Palazzo Castriota" restaurato    egregiamente dall'albergo "Hotel Piazza Bellini" che ne detiene    tutt'ora la proprietà     (cfr:        www.hotelpiazzabellini.com). 
 
Iscritta nel Libro d’Oro della Nobiltà Italiana,    iscritta nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano anno 1922. 
Arma:    d’oro all’aquila bicipite di nero col volo abbassato, coronata    d’oro, con la pila d’azzurro raccorciata nel capo, caricata di una    stella d’oro. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
   Titoli:     nobili,    baroni, marchesi di Lizzano, marchese di Lizzano, conte di    Roccaforzata e Lizzanello, patrizio di Bari. 
   Dimora:     Bari,    Modugno, Giovinazzo. 
Famiglia    di origine greca detta prima Kyri Elia, da cui l’attuale nome    Chiurlìa. Nell’anno 1085 passò in Bari territorio facente parte dei    possedimenti bizantini nel sud Italia con le famiglie Kyri Iannaci,    Kyri Dottula, Kyri Gizzinosi, Kyri Sergii, Kyri Carofili, Kyri    Amerosi, Kyri Effrem ed altre. Il vocabolo “Kyri o Kyrie”” nella    lingua italiana e tradotto come Signore ed in senso traslato nobile.     
Un ramo    del casato si stabilì in Giovinazzo, nobili di Bari e Giovinazzo,    possedette varie baronie tra cui Giovinazzo, Altamura, Cellino,    Manduria, Latiano, Modugno, Polignano, San Giovanni in Golfo, ed    altre; marchesi di Lizzano.  
   Roberto signore di Modugno, gran protonotaro del Regno nel 1273,    gran contestabile di Sicilia firmò la condanna a morte di Corradino    di Svevia; Nicola    ottenne “maritali nomine” il titolo di marchese di Lizzano,    per il matrimonio con l’ultima della casata dei de Luca marchesi di    Lizzano, donna Porzia nel 1697. 
Ricevuta    nel Sovrano Militare Ordine di Malta il 16 agosto 1703 (Archivio    Ordine di Malta 4185, anno 1704), in persona di Domenico    Antonio (1701-1770) commendatore e Balì di Grazia nel 1767,    promosso nel Baliaggio di Santo Stefano nello stesso anno;    Niccolò Domenico di Bari, nominato paggio il 16 aprile 1750;    Lorenzo commendatore dell’Ordine di Malta per Rimini, Cesena e    Nardò e Balì ad “honorem” il 29 giugno 1751; Vincenzo    commendatore, luogotenente del Baliato di Santo Stefano; Giuseppe    ebbe l’investitura della commenda di Lizzano ed iscritto nei ruoli    del 1789. 
Il casato    si divise in due rami di: Bari e Giovinazzo. Il ramo di Bari si    estinse nel 1891 con la scomparsa di Giovanni canonico    Metropolita di Bari; il ramo di Giovinazzo ereditò la Signoria di    Cellino, la contea di Lizzanello ed aggregata al Patriziato di Bari    nel 1724; tale aggregazione venne dichiarata dal Consiglio    Collaterale quale reintegrazione del casato, compresi i feudi in    terra d’Otranto, e tutti i personaggi del casato vennero    successivamente ascritti al Registro delle Piazze Chiuse. Il casato    era rappresentato nella prima metà del XX secolo dai discendenti di    Pasquale (1793-1855). 
 
Arma:        di rosso    alla banda d'azzurro filettata d'argento caricata di tre gigli d'oro    accompagnata da due leoni dello stesso. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
“buon pittore, tempestoso uomo” 
Una delle figure più carismatiche cariche di talento, violento,    attaccabrighe, passionale apparsa sulla scena artistica napoletana    della prima metà del XVII fu il grande maestro di affreschi    Belisario Corenzio, espressione umana della sua epoca bellicosa,    stravagante, dissoluta, superstiziosa e nello stesso tempo    fanaticamente religiosa. Innovatore per il suo creativo ingegno, per    l’emotività classicheggiante un vero capo scuola, precursore del    Tiepolo, pari grandezza del Veronese e del Tintoretto, con    quest’ultimo studiò durante il suo soggiorno Veneziano durato cinque    anni dal 1582 al 1587; personaggio temibile, oscuro, disposto anche    a sopprimere chi potesse superarlo o semplicemente uguagliarlo. 
   Conscio del suo valore e ricco, si permise ogni lusso e sfoggio di    ogni attività dissoluta, per il Canaletto fu “un buon pittore ma    un pessimo uomo”. La sua spiccata personalità di dominatore lo    pose in grado di comporre tele ed affreschi che recavano l’impronta    ellenistica che aveva assorbito nella sua prima fanciullezza, senza    mai cadere nell’esagerazione. Non c’è una chiesa in Napoli che tra    il primo ed il quarto decennio del XVII secolo non abbia un affresco    dipinto da sua mano o dagli allievi della sua scuola.      
Di    lui ne parla in questi termini il suo biografo Bernardo De Dominici    nel tomo, volume II, “Vita de’ Pittori, Scultori ed Architetti    Napoletani non mai dati alla luce da Autore alcuno” edito in    Napoli nel 1742: “Nacque    Belisario in quella famosa Provincia della Grecia, che fu    particolarmente detta Acaja, circa gli anni del Signore 1558….     Inclinato fortemente al disegno, onde i suoi genitori per fecondare    il suo genio lo posero a scuola di un pittore, e che da alcuni vien    creduto Veneziano… si dice che il Corenzio dimorò cinque anni in    Venezia, e si fà scolaro del Tintoretto, e che tornato poscia nella    Patria facesse alcune pitture; onde lasciata      la Grecia se ne    venne in Italia in compagnia di alcuni Levantini negozianti, che    passavano a Napoli; dove piacendogli estremamente il delizioso paese    fermò nell’animo suo di farvi soggiorno, ed isceglierlo come patria    sua.        Mentre per il suo carattere burrascoso ne parla così:     convenendo ora far parola dell’iniquità di    quest’Uomo… la sua invidiosa ingordigia ne lo distolse di nuovo: non    comportando ella, che niun altro professore fusse in maggior firma    da lui tenuto, ne che alcun forestiero gli fusse preferito nelle    pitture che doveano farsi in Napoli e massimamente nè luoghi più    cospicui… avea compagni nello screditare, e discacciare i Pittori    forastieri, e fino con mezzi violenti occorrendo maltrattarli, e    minacciarli infin della Vita”. 
Si    narra che il Domenichino, famoso decoratore della Cappella del    Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, sia dovuto scappare a    gambe levate per un presunto avvelenamento cagionato dal Corenzio,    come afferma G. Aspreno Galante nel tomo “Guida Sacra alla città di    Napoli” edito nel 1872 pag. 25 “…Il Domenichino mentre dipingeva        la Cupola del    Duomo, gli convenne fuggire da Napoli, per frode tramatagli da    Belisario Corenzio”.     Lo stesso si crede per Guido Reni, che venne a Napoli per dipingere    anch’egli la Cappella del Tesoro. Belisario, temendo nella sua    superiorità pittorica, fece bastonare dai suoi accoliti il servitore    di Reni, facendogli intendere che avrebbe tolto la vita a lui ed al    suo padrone: riuscì nel suo intento e segretamente Guido Reni lasciò    Napoli. Non gli bastò per sfuggire alla morte: aveva infati    precedentemente partecipato ad una delle innumerevoli feste    organizzate da Belisario, sentendosi male al banchetto; pochi giorni    dopo spirò in Roma. Lo stesso trattamento subì Giuseppe Cesari d’Arpino    che si accingeva a decorare anch’egli la Cappella del Tesoro; lo si    narra per Salvator Rosa, il quale accortosi in tempo rifiutò più    volte le coppe di vino offerte per il brindisi finale. Ma la    attività delittuosa di Belisario raggiunse l’apice con    l’avvelenamento di un suo migliore ex allievo, Luigi Rodrigo, che    affrescò magnificamente la chiesa del Carmine Maggiore con “Storie della vita di Nostro Signore”. Belisario colto da    profondo livore lo invitò, ipocritamente, più volte ai suoi convivi,    avvelenandolo lentamente finché non lo condusse alla morte. 
 
   Corenzio detto “Il Greco” ebbe una vita lunga per l’epoca, fu uno    dei pittori più attivi sulla scena napoletana, fermato solo da un    tragico incidente. Nacque nella cittadina di Acaia in provincia di    Lecce, da famiglia benestante greca stabilitisi in Puglia, si crede    al tempo dell’invasione Turca delle terre greco-albanesi. Non si    conosce esattamente l’anno di nascita, 1556 o forse nel 1558. Morì a    Napoli nel 1643. Uno dei suoi primi lavori, che lo affermò nella    sfera napoletana, fu l’affrescatura della volta e della tribuna    della chiesa di San Paolo Maggiore dei Padri Teatini, e da qui in    poi fu tutto un susseguirsi di ininterrotti lavori, fu tra i    benefattori della “Fratia” degli ellenici in Napoli con sede nella    chiesa di San Pietro e Paolo dei Nazionali greci. Nella chiesa di    San Giacomo degli Spagnoli (attualmente inglobata in       Palazzo San Giacomo sede del Municipio di Napoli) dipinse la    Cappella dei Catalani ripartita in nove quadri con storie della vita    della Beata Vergine. Nella chiesa del Gesù Nuovo, anno 1605,    affrescò una volta con la vita di “Sant’Ignazio di Loyola”: il    grandioso cupolone scomparse a seguito del terremoto del 1668, ed    oggi restano due affreschi,     la Luna    ed il Sole, tutt’ora visibili, nell’Oratorio delle Dame, ora    divenuto palestra dell’attiguo Liceo “Genovesi”; operò nella chiesa    di Santa Maria di Costantinopoli nel 1615, affrescandone l’abside, i    pennacchi e sottarchi della cupola con soggetto “La Vergine e San Giovanni” e “I Profeti e le Sibille”; tra il    1603 ed il 1621 operò nella chiesa di Santa Maria La Nova    affrescandone il Coro, i finestroni la controfacciata e numerose    Cappelle con “Storie della Vergine e dei Profeti” ed “Articoli del    Credo”. Nell’Ospedale degli Incurabili la chiesa annessa di Santa    Maria del Popolo: “A 19 dicembre 1609, Belisario Corenzio pittore    promette di pittare la cupola della nostra chiesa per ducati 350 e    nel mezzo di essa pittavi     la Madonna del    Popolo, a 1610 s’obbliga di pittare sotto detta cupola il martirio    dei Ss. Filippo e Giacomo”     [estratto dal tomo “Sull’Universalità dell’Opera ospedaliera    della Santa Casa degli Incurabili”, di S. Ravicini anno 1899].    Dipinse quattro tele: il Natale, il Riposo in Egitto, l’Epifania, la    Presentazione. 
 
 
   Tra il 1601 ed il 1610, sempre instancabile, affrescò    la volta della Cappella del Monte di Pietà con “Storie della Vita di    Cristo”, oggi proprietà del Banco di Napoli e trasformata in Museo,    sita nel Palazzo Carafa in via San Biagio dei Librai, nel cuore del    decumano inferiore. Nella chiesa della SS. Annunziata affrescò la    sacrestia con scene del Vecchio Testamento; nella Certosa di San    Martino all’interno della chiesa affrescò parte della cappella di    Sant’Ugo. 
   Strinse amicizia col pittore Giuseppe de Ribera detto lo “Spagnoletto”,     il quale lo introdusse presso il viceré       Don Pedro da Toledo che lo dichiarò “Pittor di Corte”.     Forte di questa sua carica, si diede ancor di più a vessare ed ad    intimidire gli altri pittori. Ottenne la commissione per affrescare,    in quel che poi divenne il Palazzo Reale di Napoli, due sale, lavoro    che avvenne tra il 1620/30, in stile manieristico: la Seconda    Anticamera col tema dei “Fasti d’Aragona” divisa in 5 scomparti con    una nota eccentrica, ovvero ne fece una “edizione illustrata”    con didascalie in lingua spagnola, ed affrescò con i fratelli    Onofrio e Andrea del Leone, suoi discepoli, la Sala degli    Ambasciatori col tema dei “Fasti di Spagna” divisa in 14 scomparti    di cui 3 attribuiti al maestro Massimo Stanzione o alla di lui    scuola. Tra i suoi vari affreschi vi erano quelli dipinti per il    Sedile (Seggio)    di Nido, andati persi con la distruzione dello stesso seggio durante    i lavori del “Risanamento” avvenuti nell’ultimo decennio del XIX    secolo: rappresentavano la venuta dell’imperatore Carlo V in Napoli.    Molti suoi affreschi sono andati persi per cause naturali, incuria    degli uomini o eventi bellici, possiamo solo far un elenco delle    chiese in cui erano presenti sue opere: La Chiesa di Santa Maria    della Sapienza, di San Giorgio dei Genovesi, di Santa Patrizia, in    San Paolo Maggiore, in Sant’ Andrea delle Monache, in Gesù e Maria,    in Santa Maria di Montevergine ed infine, per quel che siamo    riusciti a reperire notizie, l’affresco operato insieme ai suoi    allievi nel chiostro della chiesa di Santa Maria degli Angeli detta    alle Croci. Fu chiamato a dipingere in palazzi nobiliari tra cui: la    residenza dei di Sangro Principi di San Severo, la villa in Barra    dei signori di Casamassima, nel palazzo dei Carafa duchi di    Maddaloni, nel palazzo dei Caracciolo signori di Avellino, dei duchi    d’Airola, dei principi della Rocca e svariati altri nobili. 
 
   Fu, tra l’altro, un abile pittore ad olio, “eppure ad olio    riusciva un valentuomo” come afferma il De Dominici (op.    cit. pag. 313 tomo II), ne sono testimonianza sue tele nella chiesa    di Sant’Anna di Palazzo, in quella della Pietà dei Turchini, dei    Gerolamini, della Misericordia e nella stessa chiesa di San Severino    e Sossio. Altre sue opere fanno bella mostra nel Collegio della    chiesa dell’Annunziata della città di Nola; mentre nella Basilica di    Santa Maria a Parete, in quel di Liveri di Nola, tutto il ciclo di    affreschi del “Tempietto” è attribuito al Corenzio. 
 
La    chiesa ed il Monastero di San Severino e Sossio è tutta affrescata e    dipinta da sua mano, l’affresco della volta della navata è andato    perso nel terremoto del 1731 che fece crollare la cupola, i dipinti    del Corenzio furono poi restaurati da Antonio     La Gamba    tra il 1744/48; nell’ex refettorio del Monastero, oggi sede del    Grande Archivio di Stato voluto da re    Ferdinando    II di Borbone nel 1835, vi è il grandioso affresco “La    Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci”, di sua fattura, composto    di ben 117 figure restaurato nel settembre del 1845 per l’apertura    al pubblico dell’Archivio di Stato in occasione del VII Congresso    degli Scienziati Italiani; la chiesa fu anche causa della sua morte    e ne conserva le spoglie. Narra il Galante (op. cit. pag. 209) “È    degna di osservazione in direzione del terzo pilastro verso    sinistra, al suolo, la tomba di Belisario Corenzio, che di anni 85,    precipitò giù dalla volta di questo Tempio vi si legge    l’epigrafe greca”, Paolo de Matteis (B. De Domicini op. cit.    pag. 316 tomo II) ne parla così: “Questo    virtuoso Uomo fece infinite opere, e morì di età più che    ottuagenario d’infelicissima morte; attesoché mentre stava    ritoccando alcune minuzie nella suddetta opera di San Severino,    cadde dal tavolato, quale non era ben fatto, e finì miserabilmente    la vita. Fu buon pittore ma diseguale”. 
 
Bernado de Dominici (op. cit. pag. 314 tomo II)     fa la seguente considerazione sulla sua morte, che ho creduto di     inserire per intero poiché emblematicamente condensa e     rappresenta l’operato della sua vita: 
“L’iniquo, invidioso, maligno vecchio non andò     lungo tempo impunito del suo misfatto (N.d.A. l’avvelenamento del Rodrigo)     benché desse segni di pentimento d’un     tanto errore, da poiché essendo negli ultimi anni della sua vita     notato di errori in varie sue pitture, e quasi deriso da’      Pittori, che non lo temevano più come prima, ed avendo udito,     che dal cavalier Massimo Stanzione erano stati notati errori in     alcune figure dipinte in San Severino, fattosi accomodare il     ponte, cercò di emendar così vecchio gli errori notati; ma     avendo forse sempre innanzi l’atroce suo misfatto, e non bene     avertendo ove ponesse il piede, cadde dal Palco, e sol tanto     visse quando poté dar segno di confessione ad un di que‘      Religiosi, che con gli altri Monaci erano accorsi all’infelice     spettacolo. Così terminò Belisario il corso della sua vita, e     delle opere sue; le quali certamente avrebbe potuto rendere più     gloriose se più onestamente fosse vissuto. In somma egli con tal     fine disgraziato verificò quell’adagio: che chi mal vive,     infelice muore”. 
La sepoltura conferma lo stretto legame del     pittore con l’Ordine dei Benedettini, per il quale lavorò anche     nel 1629 presso l’Abbazia di Montecassino affrescandone la     cupola, andata persa con la distruzione nei noti avvenimenti     bellici del 1944 da parte dell’aviazione Alleata. 
A tutt’oggi non si conosce più la collocazione     del suo corpo, essendo scomparsa la lapide, quale punto di     riferimento, a causa del bombardamento rovinoso subito dalla     Chiesa di San Severino e Sossio dall’aviazione Alleata     nell’agosto del 1943. Oggi la chiesa è parte integrante della     Università Federico II. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
Titoli: nobili, e marchesi 
Dimora: Palermo 
Di origine greca, nobili in    Catania e Palermo. Domenico, dottore in legge, giudice del    tribunale della Gran Corte del Regno, aggregato alla mastra nobile    di Catania in data 24 ottobre 1726 e maestro razionale nel 1743;    Costantino giudice della corte pretoriana di Palermo anni    1748/51, del tribunale del concistoro anni 1755/57; Giuseppe,    illustre magistrato, ottenne il titolo di marchese con privilegio    dell’8 gennaio 1792 in Palermo ed in eredità per i primogeniti;    Raimondo guardia a cavallo della “Compagnia delle Reali Guardie    a Cavallo” di re Francesco II di Borbone nel 1859/60. 
Iscritta nell’Elenco Ufficiale    Nobiliare anno 1922. 
Arma:    d’azzurro alla palma al naturale con una stella d’oro, sinistrata da    un leone rampante dello stesso; alias d’azzurro a 4 bande    d’oro. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
   Titoli: nobile 
   Dimora: Napoli, Palmi 
   Originaria della Calabria; ricevuta nel S.M.O. di Malta. Iscritta    tra i Nobili in Reggio Calabria; passò quindi in Palmi, occupando    cariche importanti; Gaetano sindaco di Palmi; Francesco    cadetto nel “Reggimento Real Palermo” e nel “Battaglione Real    Ferdinando” dell’Esercito del Regno di Napoli nel XVIII secolo.    Giuseppe (1837-1906) medico chirurgo, noto per aver applicato    innovativi sistemi di sterilizzazioni nelle operazioni chirurgiche,    fu vice sindaco della città di Napoli – a lui è dedicata una strada    in Napoli nel quartiere Vomero -. Il casato riconosciuto nobile in    persona di Filomeno con D. M. del 8 novembre 1925 e per i    suoi discendenti di ambo i sessi; Vincenzo, Salvatore    e Giovanni viventi nella prima metà del XX secolo. 
   Iscritta nel Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, iscritta    nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano anno 1933 
   Arma:        d’azzurro al palmizio al naturale, al terreno di verde, sostenuto da    due leoni d’oro, accompagnato da tre stelle d’oro ordinate in    fascia. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Crisafi        o     Grisafi 
 
Titoli:     barone 
Dimora:     Messina, Ragusa 
Di    origine greca discendente da GIORGIO Maniace patrizio di    Costantinopoli ed esarca di Sicilia – èxsarchos - (governatore    civile e militare delle province dell’impero bizantino). Il figlio    Crisafo o Grisafo si stabilì in Ragusa con lo stesso    incarico, creando famiglia in Messina i cui discendenti presero il    cognome dal suo nome. Giorgio II valoroso cavaliere di re    Ruggiero e di Guglielmo I, staticoto o stradigoto (giudice    criminale) in Messina nel 1179; Nicolò nel 1392 ottenne la    baronia di Linguaglossa, il feudo di Ramusali, di Fiumefreddo,l’ufficio    di maestro razionale del Regno nel 1425; Giovanni barone di    Pirago, e Bitonto; Giammichele ottenne il casale di Attilia    nel 1404; Nicoloso ottenne in oltre il feudo di Abbigliaturi    nel 1473; Filippo il feudo di Lando; Giovanni II nel    1416 acquisì la baronia di Pancaldo ed il feudo di Baccarato; frà    Tommaso arcivescovo di Messina nel 1412; Nicolò II    senatore della città di Messina nel 1454; MATTEO senatore nel 1459;    Nicolò III conte di Terranova e straticoto di Messina; frà    Carlo commendatore dell’Ordine Gerosolimitano. Il casato diede    numerosi altri cavalieri all’Ordine. 
Arma:     interziato in banda:di rosso,argento e    nero,il secondo caricato da un leone di rosso. 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
| 
 
   Titoli:        nobile 
   Dimora:        Calabria 
   Antichissima famiglia patrizia di stirpe albanese, il cui cognome    trova origine da un villaggio in Albania, a cavallo della strada che    congiunge Valona ad Argirocastro, ove si ammirano i ruderi di una    antica roccaforte“Bregu Damsit” (la rocca dei Damis) posto    sulla riva sinistra del fiume Vojussa. Si ha notizia di un Andrea    Dammisci che, nell’agosto del 1499 era al servizio della    Serenissima Repubblica Veneta e comandava, agli ordini    dell’ammiraglio Antonio Grimani una delle due galee veneziane che,    nelle acque greche di Modone, assaltarono il vascello turco di Raiz    Baruk. Nel 1540 Angelo era beneficiario di un uso prediale,    concessogli dai principi Sanveverino di Bisignano,nei territori di    Farneta e Matina. Giovanni, che nel XVI secolo risiedeva a    Siviglia e divenne ricchissimo con il commercio del sale;    Scipione prete uxorato e teologo nel 1588, padre di Anna    che andò sposa nel casato dei nobili Baffa Trasci; Angelo    priore dei francescani nel 1624 presso Belvedere Marittimo (CS), col    nome di fra Nicola da Lungro; Domenico ecclesiastico    (1729-1822) che si definisce “Epirota”, auditore nel”Collegio    Greco” di Roma, autore delle “Propositiones Philosophicas    pubblice propugnandas indiscriminatim”; Giovanni Andrea,    fratello del precedente, dottore in Utroque Jure, autore di    un trattato giuridico “De Iustitia et Iure”, destinatario nel    1769 di un privilegio di maggiorascato dal Gran Cancelliere del    Regno di Napoli; i fratelli Angelo (1844-1899) tenente    colonnello ed il maggiore generale, deputato al parlamento nazionale    Pier Domenico (1824-1904) e decorato dell’Ordine della Croce    Mauriziana, furono ferventi garibaldini. 
   Gli attuali rappresentanti del ramo primogenito sono: Giuseppe    (1930), ed i figli del fratello Pier Domenico (1935-2006)    e di Matilde Baffa Trasci: Raffaele ( 1972), Giovanni    Emanuele (1977). 
N.d.A.: Si ringrazia il dottor Demetrio Baffa Trasci    per le utilissime notizie relative al casato. 
   Arma:        non disponibile 
 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
  | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||

















































































































