lunedì 29 febbraio 2016

Il generale Cadorna ed il massacro di Palermo





Gli anni immediatamente successivi alla cosiddetta “Unità d’Italia” video la Sicilia solo marginalmente interessata da quel fenomeno di massa della resistenza armata contro i Piemontesi, che divampava in tutte le altre regioni meridionali. Ciò perché ancora bruciava ai siciliani la mancata comprensione della loro “specificità” da parte dei passati governi borbonici.
Però, man mano che cadevano ad una ad una tutte le illusioni e le speranze che aveva elargito Garibaldi, montava la collera del popolo. E così anche la Sicilia non mancò a quel tragico appuntamento con la Storia, pagando il suo non lieve tributo di sangue alla resistenza meridionale.
Le sette giornate della rivolta di Palermo del settembre 1866 furono la testimonianza tangibile di una cosiddetta “Unità Nazionale”, malamente perseguita e peggio attuata. Neanche a farlo apposta i più decisivi tra i rivoltosi furono proprio i “picciotti”, che sei anni prima avevano permesso le “strepitose” vittorie di Garibaldi.
Essi furono i più determinati nella lotta perché erano stati traditi nel peggiore dei modi: nella loro buona fede. La politica perseguita in Sicilia dal governo sabaudo, fu in quegli anni arrogante, opportunista, colonizzatrice e criminale, a questo si somma un’altra verità, che, come scrive Paolo Alatri:
<<I funzionari, per lo più settentrionali… consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non ancora pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semibarbari… Questo estremo disprezzo, intollerabile per un popolo di antica civiltà come quello siciliano, unitamente a molte altre cause tra cui, non secondarie, la crescente miseria, l’introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, provocò l’impossibile: l’alleanza tattica dei gruppi filo borbonici con l’ala oltranzista del vecchio partito filo garibaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti>>.
Le cause della sommossa furono le ottuse limitazioni imposte alle popolarissime feste di S. Rosalia, la Santa Patrona cara ai cuori di ogni palermitano, l’introduzione del monopolio statale del tabacco con la fine dell’esenzione goduta fino ad allora in Sicilia, ed il servizio di leva militare non previsto dall’ordinamento borbonico. Rapidamente divampò la protesta degli strati più popolari e si ebbero i primi disordini. Era ciò che aspettava da tempo il Comitato rivoluzionario con le sue squadre clandestine già allertate, anche perché i reparti militari piemontesi di stanza nell’isola erano profondamente depolarizzati per le recentissime disastrose sconfitte subite al Nord dall’esercito italiano contro l’Austria. Si cominciò dal controllo del circondario, facendo poi convergere tutte le squadre su Palermo. Si ripeteva la tattica del ’60, questa volta però contro i Piemontesi.
Toccò per prima a Monreale, dove un’intera compagnia di granatieri, che spalleggiava l’odiato delegato di P.S. Rampolla, fu letteralmente fatta a pezzi insieme a quest’ultimo. La scena si ripeté a Boccadifalco con lo sterminio di un reparto di “carabinieri piemontesi”. A Misilmeri al termine della giornata campale la truppa si ritirò, lasciando sul terreno ben 27 morti. Infine, come fossero un sol uomo, tutti i centomila contadini della Conca d’Oro insorsero. I più decisi, armati di vecchie scoppette da caccia, si unirono alle squadre e marciarono su Palermo, al loro seguito centinaia di carri carichi di vettovagle.
Il controllo militare delle campagne circostanti era considerato un primario obiettivo nei disegni strategici del Comitato, in quanto doveva permettere, come in effetti permise, il regolare rifornimento di derrate alla città isolata.
L’adesione a moti da parte della cittadinanza fu unanime. E fu la guerra civile, come sempre cruentissima, con innumerevoli vittime d’ambo le parti. I circa 30.000 insorti in armi (il Procuratore Generale della Corte d’Appello ne stimerà il numero in 40.000) tennero in scacco i migliori reparti del regio esercito, battendoli ripetutamente, per sette giorni e mezzo in città e per dodici giorni nel circondario. L’esercito savoiardo arrivò ad impegnare più di 40.000 uomini agli ordini del generale Cadorna, che poi fu soprannominato “il macellaio”, oltre ad ingenti forze di polizia e gran parte della Marina da guerra, che bombardò a più riprese la città (i generali piemontesi erano “eroi” nel bombardare le popolazioni inermi, come il Gen. La Marmora a Genova nel ’49 ed il Gen. Cialdini a Gaeta nel ’60 , ma sul vero campo di battaglia dimostrarono sempre codardia ed incapacità).
Il generale Cadorna impartì l’ordine di sparare a vista a qualsiasi passante: <<… Cadorna saziò la propria sete di vendetta proclamando lo stato d’assedio (3° in quattro anni), accanendosi contro la popolazione e mostrando particolare ferocia contro il clero, “la nefanda setta clericale” era solito dire… espropriati i monasteri e conventi, il regio commissario soppresse nell’isola 1027 corporazioni religiose superstiti, e spedì in galera i frati che, sfuggiti alle fucilazioni, non avevano fatto in tempo a nascondersi. Finì in carcere persino il vescovo di Monreale, il 90enne Benedetto D’Acquino e con lui 47 religiosi di Palermo, 46 di Siracusa, 40 di Girgenti, 26 di Caltanisetta, 18 di Messina. La stampa estera si schierò apertamente dalla parte dei ribelli e parlò di sacrosanto moto indipendentista, mentre in tutta Italia apparve qualche trafiletto in ultima pagina, dopo un mese…>>.
Il Gen. Cadorna volle emulare il Gen. Cialdini, “eroe” di Gaeta, e fece anche lui infettare l’acquedotto con carcasse di animali, così da provocare una tremenda epidemia di tifo petecchiale, che provocò migliaia di morti tra la popolazione.
Pur facendo riferimento alla propria parte politica di appartenenza, vi fu sul terreno una straordinaria unità d’azione delle squadre armate. La diversità si notava soltanto nel grido con cui esse usavano andare all’assalto: “Viva la Sicilia” (i filoborbonici, gli autonomisti e gli indipendentisti), “Viva la Repubblica” (i radicali e gli azionisti), “Viva Santa Rosalia” (i cattolici tradizionalisti).
La numerosa Guardia Nazionale, che aveva rifiutato in massa di sparare sui cittadini, si disciolse come neve al sole e molti elementi passarono con i ribelli. Per ironia della sorte i più irriducibili combattenti delle squadre furono le centinaia di giovani renitenti al servizio di leva, istituito di recente dai piemontesi, e i disertori siciliani del regio esercito. La repressione che seguì fu talmente barbara da far registrare un numero di vittime di gran lunga maggiore di quello avutosi nella fatidica guerra di “liberazione” garibaldina del 1860. Ma la cosa peggiore fu come al solito il tentativo, riuscito perfettamente per l’imperante servilismo della storiografia ufficiale, di infangare la memoria storica degli sconfitti. Così se i combattenti nel Napoletano, della Lucania, delle Calabrie, e delle Puglie erano definiti briganti e banditi da strada, per i Siciliani del ’66 ci si inventò l’accusa di essere Mafia. Ed è così che quelle tragiche giornate del settembre 1866, che avevano visto versare tanto generoso sangue siciliano, passarono nei libri di testo, fino ai tempi a noi recenti, come “un episodio di malandrinaggio collettivo”. Ci sono voluti storici seri affinchè ultimamente si facesse un po’ di luce.
Scrive lo storico Rosario Romeo che la rivolta palermitana del 1866 <<… non divenne insurrezione generale dell’isola e potè essere facilmente domata solo per la mancata collaborazione dei ceti dirigenti…>>. La borghesia meridionale, per meri interessi di bottega, aveva tradito ancora una volta la sua terra e la sua gente.
Le sette giornate di Palermo costarono lacrime e sangue a tutti. I reparti del regio esercito e delle forze di polizia contarono tra le proprie fila oltre 200 morti, più un migliaio di feriti gravi e leggeri, circa 2200 uomini fatti prigionieri dagli insorti.
Le perdite dei rivoltosi non furono mai accertate ufficialmente (in verità non si volle), ma gli storici concordarono nel calcolarle a molte migliaia durante i combattimenti, a cui occorre aggiungere poi le altre migliaia di popolani arrestati e, senza regolari processi, gettai a marcire nelle patrie galere dopo la fine della rivolta, senza contare infine le numerosissime condanne a morte e all’ergastolo irrorate dai tribunali militari, i quali non permisero agli imputati di nominare i loro avvocati di fiducia, ma li fecero “difendere” da avvocati scelti minuziosamente dai tribunali stessi, e vollero in tutte le cause un interprete che traducesse loro il siciliano.
Così fino al febbraio del 1867 la popolazione fu costretta ad assistere al passaggio di colonne di detenuti in catene, spinti a calci e bastonate verso i luoghi di detenzione.
La Sicilia restava, come tutto il Sud, in uno stato di abbandono… in conto di “regione tropicale”… in mano di sfruttatori e ladri… e di una polizia che giunse all’aperta collusione con la mafia e la delinquenza locale… senza alcuna iniziativa in fatto di lavori pubblici… nel più completo analfabetismo… nella miseria contadina più vergognosa…
I Siciliani, come tutti i meridionali, per sopravvivere trovarono solo navi per l’America: tonnellate umane, come quelle dei popoli africani, i Siciliani si auto-deportarono in America. I Savoia erano passati per le contrade del Sud con le loro truppe criminali, i loro tribunali speciali, la loro macchina fiscale, la loro burocrazia e la loro magistratura corrotta… La resistenza meridionale, massacrata e sconfitta, emigrava a “Brucculinu”. E qui, sul tracciato effimero della “nuova frontiera”, i Siciliani scrissero alcune tra le pagine più belle del nascente movimento operaio americano, ma si inventarono anche, e a colpi di mitra, l’organizzazione etno-imprenditoriale più efficiente del secolo: Cosa Nostra.
Viva l’Italia!
Fonte: Real Circolo Francesco II di Borbone/Royal Club Francis II of Bourbon