sabato 2 marzo 2013

Il periodo austriaco raccontato da Pietro Colletta in Storia del Reame di Napoli (Parte III°)

Il periodo austriaco raccontato da Pietro Colletta in Storia del Reame di Napoli 

Parte III

IX. In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché
tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l'anno 1724, fatto atroce apportò tanto spavento al Regno, che io credo mio debito il narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla inquisizione; oggidì che per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione dell'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere in non pochi luoghi d'Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto né tristi secoli di universale ignoranza. Andarono soggetti al Santo Uffizio, l'anno 1699, fra Romualdo laico, Agostiniano, e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli «per quietismo, molinismo, eresia; questa «per orgoglio, vanità, temerità, ipocrisia». Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggieri da Dio, parlare con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura
e santa, avere inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quel miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano deliri ed eresie. Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto (attesoché gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla per fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnaché gl'inquisitori
condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracìn, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell'Atto-di-fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la «dolcezza», la «mansuetudine», la «benignità» de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, e
spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani. 
Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di sant’Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione.
Questo era per gl'inquisitori; le altre logge per il viceré, l'arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che, traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza sin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime. Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra' quali tripudi giunse prima la misera Geltrude, legata sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno. Convoiavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro,' cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gl'inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.
Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento de' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì al palco, e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; e scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata. Così fra Romualdo morì nell'altro rogo,
dopo aver visto il martirio della compagna. Tra gli spettatori notavasi un drappello sordido, mesto, di 26 prigioni del Santo-Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocché gli altri, sia viltà, o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnuoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nipoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati; che raramente le pubbliche virtù, più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del Santo
Uffizio: egli, lodato per altre opere e soprattutto per la Biblioteca siciliana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.

In foto: Antonio Joli (1700 - 1777), Il golfo di Baia con i templi di Diana, Venere e il castello
Antonio Joli (1700 - 1777), Il golfo di Baia con i templi di Diana, Venere e il castello
 

IX. In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché
tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l'anno 1724, fatto atroce apportò tanto spavento al Regno, che io credo mio debito il narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla inquisizione; oggidì che per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione dell'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere in non pochi luoghi d'Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto né tristi secoli di universale ignoranza. Andarono soggetti al Santo Uffizio, l'anno 1699, fra Romualdo laico, Agostiniano, e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli «per quietismo, molinismo, eresia; questa «per orgoglio, vanità, temerità, ipocrisia». Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggieri da Dio, parlare con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura
e santa, avere inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quel miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano deliri ed eresie. Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto (attesoché gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla per fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnaché gl'inquisitori
condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracìn, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell'Atto-di-fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la «dolcezza», la «mansuetudine», la «benignità» de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, e
spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.
Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di sant’Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione.
Questo era per gl'inquisitori; le altre logge per il viceré, l'arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che, traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza sin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime. Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra' quali tripudi giunse prima la misera Geltrude, legata sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno. Convoiavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro,' cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gl'inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.
Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento de' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì al palco, e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; e scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata. Così fra Romualdo morì nell'altro rogo,
dopo aver visto il martirio della compagna. Tra gli spettatori notavasi un drappello sordido, mesto, di 26 prigioni del Santo-Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocché gli altri, sia viltà, o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnuoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nipoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati; che raramente le pubbliche virtù, più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del Santo
Uffizio: egli, lodato per altre opere e soprattutto per la Biblioteca siciliana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.