Verso là metà del secolo XVIII tre uomini s'incontrarono, tutti penetrati da un odio profondo contro il cristianesimo; questi tre furono Voltaire, d'Alembert e Federico II re di Prussia. Voltaire odiava la religione perché ne invidiava l'Autore, come pure tutti coloro che ne avevano ottenuto della gloria, d'Alembert la odiava perché il suo cuore freddo non poteva amare nulla, Federico perché l'aveva conosciuta solo per mezzo dei nemici della religione stessa.
A questi tre uomini si deve aggiungerne un quarto, Diderot, che odiava la religione perché infatuato della natura e perché, nel suo entusiasmo prodotto dalla confusione delle proprie idee, amava costruirsi delle chimere ed inventarsi dei misteri piuttosto che sottomettere la sua fede al Dio del Vangelo.
In seguito molti adepti si lasciarono coinvolgere in questa cospirazione, per lo più in qualità di stupidi ammiratori o agenti secondari; di costoro Voltaire fu il capo, d'Alembert l'agente più astuto, Federico il protettore e sovente il consigliere, Diderot il combattente in prima linea.
Il principale di questi cospiratori, Marie-François Arouet, era nato a Parigi il 20 febbraio 1694; figlio di un antico notaio al Châtelet, aveva cambiato per vanità il suo nome in quello di Voltaire, che credeva più
nobile, più sonoro e più adatto a sostenere la fama a cui aspirava.Voltaire (François-Marie Arouet, 1694-1778).
ma sfortunatamente la severità dei costumi, lo spirito di meditazione, il genio delle discussioni e delle ricerche
approfondite non rientravano nel numero dei doni elargitigli dalla natura, e per maggior sciagura vi erano nel suo cuore tutte le passioni che rendono nocivi i talenti; cosicché già nella sua prima gioventù ci si poteva
accorgere che in futuro avrebbe rivolto tutti questi talenti contro la religione.
Infatti, quando era ancora semplice studente di retorica nel collegio di Luigi il grande, Voltaire aveva già meritato di sentirsi dire dal suo maestro il gesuita le Jay: Sciagurato! Tu sarai il portabandiera(Vita di Volt. ediz. di Kehl, e Dizion. stor. di Feller.) giammai profezia si avverò più letteralmente.
dell'empietà:
Appena uscito di collegio, Voltaire non vide né amò nient’altro che la compagnia di persone che potevano ispirare le sue inclinazioni all'incredulità per mezzo della corruzione dei costumi; visse soprattutto in compagnia di Chaulieu, l'Anacreonte di quel tempo e poeta lascivo, e con alcuni epicurei che si adunavano all'hôtel de Vendôme; debuttò scrivendo alcune satire che spiacquero al governo e delle tragedie che ne avrebbero fatto l'emulo di Corneille, Racine e Crébillon se non si fosse anche dimostrato emulo di Celso, di Porfirio e di tutti i nemici della religione. Poiché in quel tempo l'abuso dell'opinione trovava ancora degli ostacoli in Francia, pensò di rifugiarsi in Inghilterra, dove trovò degli uomini divenuti deisti per mezzo delle opere di Shaftsbury commentate da Bolingbroke, e si persuase che gli inglesi non conoscessero né apprezzassero alcuna altra specie di filosofi. Ma se allora Voltaire non si ingannava, i tempi sono ora molto diversi in Inghilterra; infatti tutti i sofisti che egli celebra perché costituirebbero la gloria della Gran Bretagna sono oggi più dimenticati e disprezzati che letti. A Londra i Collins e gli Hobbes sono posti a fianco di Thomas Payne solo da coloro che ancora ne conoscono il nome, in quanto il buon senso degli inglesi non permette loro di odiare la religione e di ostentare l'empietà; nonostante la loro tolleranza e l'incredibile varietà dei loro simboli, nulla sembra loro più indegno di un filosofo che l'affettazione dei nostri sofisti e l'odio del
cristianesimo, e soprattutto il congiurarne la distruzione.
Si dice che il filosofismo sia nato in Inghilterra, ma io non sottoscriverei questa proposizione; il filosofismo in generale è l'errore di chi, riducendo ogni cosa alla propria ragione, rigetta in campo religioso ogni altra autorità oltre a quella dei lumi naturali; si tratta dell'errore di chiunque rifiuta ogni mistero incomprensibile per la sua ragione e, rifiutando la rivelazione, sconvolge da cima a fondo la religione cristiana col pretesto di mantenere la libertà, i diritti della ragione e l'eguaglianza di questi diritti per tutti gli uomini.
Questo errore può costituire una setta, e la storia dei Giacobini antichi dimostra che la setta esisteva da lungo tempo, ma stava rintanata nei club occulti quando comparve Voltaire; oppure può esser solo l'errore di alcuni individui, e ve ne sono stati molti di tale specie negli ultimi due secoli. Dai tempi di Lutero e Calvino si era costituito un numero prodigioso di sette, ciascuna delle quali attaccava una qualche parte degli antichi dogmi dei cristianesimo; infine sorsero altri uomini che, attaccando tutti i dogmi, non vollero più credere, e costoro furono subito chiamati libertini, il solo nome che potessero
meritare.
Voltaire avrebbe ritrovato ovunque persone di questo genere, soprattutto a Parigi sotto la reggenza del Duca d'Orleans, lui pure mostruoso libertino ma che, convinto che lo stato avesse bisogno della religione, non permetteva che il cristianesimo fosse impunemente attaccato negli scritti pubblici.
E' vero che era stato proprio in Inghilterra che i libertini coi loro Collins ed i loro Hobbes avevano cominciato a darsi l'aria di filosofi e ad affibbiarsi il titolo di pensatori in alcune loro empie produzioni che nel resto della cristianità non avrebbero goduto né di una pari pubblicità né di una pari impunità; ma è anche vero che Voltaire sarebbe stato in ogni altro paese quello che divenne in Inghilterra, o almeno lo sarebbe divenuto
Giacomo Benigno Bossuet vescovo di Meaux (1627-1704). Grande letterato e polemista cattolico. Nessuno scrisse più di lui in Francia a difesa della religione e della monarchia. La sua eloquenza segnò il massimo splendore della Controriforma in Francia.
ovunque delle leggi poco repressive gli avessero permesso di assecondare la sua inclinazione a farsi tiranno dell'opinione e della gloria nel campo delle scienze e delle lettere.
Non era concesso a Voltaire di raggiungere la reputazione di Bossuet, di Pascal e di tanti altri geni distintisi nella difesa della religione, egli non amava la loro causa, invidiava la loro gloria e perfino quella del loro Dio la cui autorità aveva deciso di combattere, così volle almeno essere il primo tra i filosofi, e vi riuscì; ma per
giungere a questo traguardo bisognava che l'idea stessa di filosofia fosse snaturata e confusa con l'empietà; e questo fu ciò che suggerì a Voltaire il progetto di distruggere la religione. Tuttavia fu l'Inghilterra il luogo in cui egli riteneva di avere una possibilità di successo, o almeno Condorcet, divenuto suo adepto, suo confidente, suo storico e panegirista, ce l'assicura in questi termini: Fu là (cioè in Inghilterra) che Voltaire giurò di consacrare la sua vita a questo progetto, e ha mantenuto la parola. (Vita di Volt. ediz. di Kehl.)
Ritornato a Parigi verso l'anno 1730, nascondeva così poco questa propensione, aveva già pubblicato tanti scritti contro il cristianesimo e si vantava a tal punto di poterlo annientare, che
al signor Hérault, luogotenente di polizia che gli rimproverava un giorno la sua empietà aggiungendo: Avete un bel fare con tutto il vostro scrivere, non riuscirete mai a distruggere la
religione cristiana, Voltaire non esitò a rispondere: Lo vedremo. (Ibidem.)
al signor Hérault, luogotenente di polizia che gli rimproverava un giorno la sua empietà aggiungendo: Avete un bel fare con tutto il vostro scrivere, non riuscirete mai a distruggere la
religione cristiana, Voltaire non esitò a rispondere: Lo vedremo. (Ibidem.)
La pagina 34 della Vita di Voltaire scritta dal bieco Condorcet (Vie de Voltaire par le marquis de Condorcet, Kehl 1789) nella quale si racconta l'episodio del luogotenente Hérault. Fortificandosi questo suo desiderio per mezzo degli ostacoli che incontrava, Voltaire s'irrigidì maggiormente, ritenendo di intravedere tanta gloria in questo successo che non avrebbe voluto
condividerla con nessuno. “Sono stufo, diceva, di sentirli ripetere che dodici uomini sono stati sufficienti a fondare il cristianesimo: e mi vien voglia di provar loro che ne basta uno solo a distruggerlo.”(Ibidem.)
Nel pronunciare queste parole che Condorcet riferisce con soddisfazione, l'odio lo accecava al punto da non rendersi conto che l'abilità della scimmia che distrugge o del malvagio invidioso che
rovina i capolavori, i monumenti dell'arte, non eguaglia mai la gloria di colui che li ha prodotti, che il sofista, sollevando polvere, ammassando nubi e addensando le tenebre non arriva mai al Dio della luce, e che per avvincere gli uomini sono necessarie la sapienza, i prodigi e le virtù che hanno santificato gli Apostoli.
Sebbene il suo obiettivo principale fosse limitato alla gloria di distruggere da solo ed a qualunque prezzo la religione cristiana, Voltaire pensò tuttavia in seguito di aver bisogno di cooperatori;
temeva anche che la notorietà del progetto potesse nuocere alla sua esecuzione, e così decise di agire da congiurato. I numerosi suoi scritti empi ed osceni gli avevano già acquistato alcuni ammiratori, ed i suoi discepoli sedicenti filosofi fremevano di svelare il loro disprezzo e la
loro avversione per il cristianesimo; così, esaminando coloro che appartenevano alla sua scuola, scelse d'Alembert facendone il suo principale confidente ed il suo compagno di strada nella sua guerra contro Cristo. D'Alembert meritava questa distinzione.
Se in un'armata di sofisti congiurati Voltaire era fatto per avere il ruolo di Agamennone, d'Alembert poteva in qualche modo avere quello di Ulisse. Se il paragone sembrasse troppo nobile, vi si potrebbe supplire attribuendogli il ruolo di volpe: infatti d'Alembert ne possedeva tutta l'astuzia, l'aspetto e persino il verso somigliante.
Bastardo di Fontenelle, altri dicono del medico Astruc, lui stesso non seppe mai chi fosse suo padre; la cronaca del momento poteva attribuirgliene altrettanti quanti erano gli scandali provocati da sua madre. Claudine-Alexandrine Guérin de Tencin, dapprima religiosa nel monastero di Montfleury nel Delfinato, poi disgustata dalle virtù del suo stato ed infine apostata, aveva formato a Parigi una società di certi letterati che lei stessa chiamava le sue bestie; (Diz. Stor.) e dai
suoi rapporti con qualcuna di tali bestie nacque d'Alembert. Per nascondere la vergogna ed il doppio delitto a cui aveva fatto seguito la sua nascita, sua madre lo relegò tra i trovatelli. Da principio fu chiamato Jean le Rond dal nome dell'oratorio davanti a cui fu trovato, sulla soglia, avvolto in pannicelli nella notte tra il 16 ed il 17 novembre 1717.
Allevato dalla carità della Chiesa, d'Alembert non tardò molto a punirla delle cure che si era presa della sua infanzia. Era giovane nel tempo in cui Voltaire cominciava ad arruolare i partigiani
dell'incredulità e, fruendo di qualche sussidio per la sua educazione, fece ciò che fanno tanti giovani che trovano gusto a nutrirsi furtivamente degli scritti contro la religione piuttosto che a
conoscerne l'essenza; così fece proprio quello che fanno i giovani malvagi, che si compiacciono di maledire un maestro che li tiene a freno.
Con il cuore e la mente così disposti, d'Alembert divenne assai presto discepolo di Voltaire; la conformità della loro inclinazione all'incredulità e l'odio comune per il Cristo compensarono la diversità dei caratteri e l'immensa differenza di talenti.
Voltaire era ardente, collerico ed impetuoso, d'Alembert riservato, freddo, prudente ed astuto. Voltaire amava comparire; d'Alembert si nascondeva per essere poco percepito. L'uno dissimulava solo suo malgrado, anche quando, come capo, doveva mascherare le sue batterie, e avrebbe preferito (come dice lui stesso) fare alla religione una guerra aperta, e morire sopra un mucchio di cristiani, che egli chiama bigotti, immolati a suoi piedi. (Lettera di Voltaire a d'Alembert
del 20 aprile 1761.) L'altro dissimulava per istinto, e faceva una guerra da capo subalterno che se la ride dietro ai cespugli vedendo i suoi nemici cadere gli uni dopo gli altri nelle trappole che ha teso. (V. soprattutto la lett. 100 di d'Alembert, 4 maggio 1762). Dotato di tutti i talenti e del gusto per le belle lettere, Voltaire era quasi una nullità nelle scienze matematiche, che invece erano il forte di d'Alembert; ma in ogni altra materia questi era debole, affettato, tortuoso e talvolta
basso e vile, mentre Voltaire era fluido, nobile, ricco ed elegante, quando voleva esserlo. Meditando un sarcasmo od un epigramma, d'Alembert non l'aveva ancora affilato che la penna scorrevole di Voltaire ne aveva già sparso dei volumi.
Ardito fino all'impudenza, Voltaire nei suoi scritti insulta, nega, afferma, inventa, riesce a contraffare la Scrittura, i Padri, la storia; dice egualmente sì e no e colpisce dappertutto, poco gli importa, pur di ferire. D'Alembert invece, sempre all'erta, prevede una risposta che potrebbe comprometterlo, procede nascondendosi tra nubi di oscurità e sempre in modo obliquo, per non far scoprire dove vuole andare a parare. Se attaccato, fugge, dissimula ogni confutazione preferendo
fingere di non aver combattuto pur di non far notare la sua sconfitta.
Voltaire provoca i suoi nemici e li sfida tutti; cento volte sconfitto, altrettante volte torna alla carica; invano si confuta il suo errore, egli lo ridice e non cessa di ripeterlo, vergognandosi solo della fuga e mai della sconfitta; dopo una guerra durata sessant'anni egli si trovava ancora sul campo di battaglia.
D'Alembert ambiva all'omaggio di circoli ristretti; quaranta mani che lo applaudivano in un circolo accademico erano per lui un trionfo, mentre tutte le trombe della fama che suonassero da Londra sino a Pietroburgo e da Boston sino a Stoccolma non sarebbero bastate a contentare la sete di gloria di Voltaire.
D'Alembert arruolava, formava, iniziava gli adepti subalterni, dirigeva le loro missioni e coltivava le corrispondenze di minor rilievo. Voltaire invece chiamava alla rivolta contro Cristo i re, gli
imperatori, i ministri, i prìncipi, il suo palazzo era la corte del sultano dell'incredulità e tra coloro che gli resero omaggio e che entrarono più profondamente nei suoi complotti la storia deve distinguere quel Federico II, finora conosciuto solo per i suoi meriti di re, di conquistatore e di amministratore.
In questo Federico, che i sofisti chiamavano il Salomone del nord, vi erano due uomini: uno era il re di Prussia, quell'eroe che ha diritto alla nostra approvazione non tanto per le sue vittorie e per la sua tattica nelle battaglie quanto per gli sforzi che fece per rivitalizzare i suoi popoli, l'agricoltura, il commercio e le arti, espiando così in qualche modo, con la saggezza e la beneficenza della sua amministrazione interna, le sue vittorie militari che sono state forse più appariscenti che giuste; l'altro è il personaggio che meno poteva accordarsi alla saggezza e della dignità di un monarca, il pedante filosofo, l'alleato dei sofisti, l'empio scribacchino, l'incredulo
cospiratore, un vero Giuliano del secolo XVIII, meno crudele ma più scaltro ed altrettanto pieno di odio, meno entusiasta ma più perfido del famoso Giuliano l'apostata.
Rincresce molto allo storico rivelare i tenebrosi misteri di questo empio con la corona, ma è fondamentale che particolarmente in questo caso si dica tutta la verità, affinché i re della terra sappiano quanta parte hanno avuto i loro pari nella congiura contro l'altare ed affinché comprendano da dove proviene la cospirazione contro i loro troni.
Federico ebbe la sventura di nascere con lo spirito di Celso e di tutta la scuola dei sofisti, di cui sarebbe stato meglio fosse privo, e non ebbe al suo fianco né un Tertulliano né un Giustino per guidare le sue ricerche sulla religione, ma al contrario era attorniato da uomini che non sapevano far altro che calunniarla. Quando era ancora principe reale, era già in corrispondenza con Voltaire, e disputava con lui di metafisica e di religione; si credeva già un gran filosofo quando
scriveva a Voltaire: “A parlarvi con la solita mia franchezza vi confesserò sinceramente che tutto ciò che riguarda l'Uomo-Dio non mi piace in bocca ad un filosofo, che dev'essere al di sopra degli errori popolari. Lasciate al grande Corneille, vecchio scimunito e ricaduto nell'infanzia, la sciocca fatica di porre in rima l'Imitazione di G. C., e non cavate che dal vostro proprio fondo ciò che avete da dirci. Si può parlare di favole, ma solo in quanto favole; e credo che sia meglio osservare un profondo silenzio sulle favole cristiane, canonizzate dalla loro antichità e dalla credulità di persone assurde e stupide.” (Lettera 53 anno 1728.)
Pierre Corneille è con Moliére e Racine uno dei tre grandi drammaturghi francesi del XVII sec.
Dalle sue prime lettere già si poteva scorgere che, insieme con il ridicolo orgoglio di un re pedante, aveva la volubilità ed anche tutta l'ipocrisia dei sofisti.
Federico dà a Voltaire delle lezioni contro la libertà quando Voltaire la difende, (vedi le loro lettere del 1737) e quando Voltaire non vede altro che l'uomo macchina, Federico non vede altro che l'uomo libero. (V. sua lett. 16 sett. 1771.) Qui sostiene che vi è necessariamente una libertà perché ne abbiamo un'idea netta, (ibid.)
mentre altrove considera l'uomo in tutto materia, quantunque non vi sia idea più oscura di quella di una materia libera e pensante che sia in grado di argomentare, anche se alla maniera di Federico. (V. sua lett. 4 dic. 1775.) Aveva rimproverato a Voltaire la sua dissimulazione quando aveva dato lode a G. C., e non si vergognava di scrivere tre anni dopo: “Per quanto mi riguarda, vi confesso che (se conviene arruolarsi sotto lo stendardo del fanatismo) io non lo farò, e mi contenterò solo di comporre alcuni salmi per dare una buona opinione della mia ortodossia.... Socrate incensava i Penati; Cicerone, che non era credulo, faceva lo stesso; bisogna prestarsi alle fantasie di un popolo sciocco per evitare la persecuzione ed il biasimo. Poiché dopo
tutto non vi è al mondo cosa più desiderabile che il vivere in pace.
Facciamo qualche sciocchezza con gli sciocchi per giungere alla tranquillità.” ( Lett. 6 genn. 1740.)
Lo stesso Federico, partecipando dell'odio del suo maestro, aveva anche scritto che la religione cristiana produceva solo erbe velenose, (lett. 143. a Volt. an. 1766) e Voltaire si era rallegrato con lui perché
aveva, meglio di qualunque altro principe, l'animo abbastanza forte, il colpo d'occhio sufficientemente giusto e perché era abbastanza istruito per sapere che dopo millesettecento anni la setta cristiana non aveva fatto che del male. ( Lett. 5 aprile 1767.) Non ci si aspetterebbe che un re così filosofo e con un colpo d'occhio così
giusto di trovasse nell'obbligo di combattere negli altri ciò che lui stesso credeva di aver capito così bene: tuttavia si legga ciò che proprio lui oppone alle medesime asserzioni quando refuta il Sistema della natura: “Si potrebbe, dice, accusare l'autore di aridità di spirito e particolarmente di goffaggine perché calunnia la religione cristiana attribuendole difetti che non ha. Come può affermare con verità che questa religione è causa di tutte le sciagure del genere umano? Per esprimersi rettamente bisognava dire semplicemente che l'ambizione e l'interesse degli uomini si sono serviti di questa religione per confondere il mondo e soddisfare le passioni. In buona fede, che cosa si può rimproverare alla morale contenuta nel Decalogo? Se anche non
vi fosse nel Vangelo che il solo precetto: non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi, si sarebbe in obbligo di convenire che queste poche parole racchiudono tutta la quintessenza della morale. Ed il perdono delle offese, e la carità, e l'umanità non furono predicate da Gesù nel suo eccellente sermone della montagna? Ecc.” (V. Esame del Sistema della natura di Federico re di Prussia, gennaio 1770.)
Quando Federico scriveva queste parole, non aveva dunque più il giusto colpo d'occhio per arrivare a concludere che questa religione non può produrre che zizzania e non ha fatto che del male. Ma per una
ancor più strana contraddizione, dopo avere così ben rilevato che la religione cristiana non è per nulla la causa dei nostri mali, egli non cessa di felicitarsi con Voltaire perché ne è il flagello, (12 agosto 1772) non ha ribrezzo di suggerire i propri progetti per distruggerla, (29 luglio 1775) e pretende che, se essa è conservata e protetta in Francia, per le belle arti e le scienze elevate è finita, e la ruggine della superstizione finirà per distruggere quel popolo che per altri versi è amabile e nato per la società. (Lett. a Volt. 30 luglio 1774.)
Gli avvenimenti successivi dimostrano che, se il re sofista fosse stato un vero profeta, avrebbe dovuto predire proprio il contrario; avrebbe predetto che quel popolo per altri versi amabile e nato per la società, subito dopo aver perduta la sua religione, avrebbe spaventato l'universo con le sue atrocità. Ma Federico come Voltaire sarebbe stato lo zimbello di tutta la sua pretesa sapienza e delle sue opinioni, come pure di tutto il suo amore per la filosofia; fu molto capriccioso, a volte pro, a volte contro di essa. Lo vedremo un giorno valutare giustamente i suoi adepti ma, pur con tutto il suo disprezzo per loro, non tralasciar di cospirare come loro per distruggere la religione di Gesù Cristo.
La corrispondenza che ci fa così ben conoscere questo re adepto ed il suo idolo Voltaire cominciò nel 1736 e continuò assiduamente per tutto il resto della loro vita, eccettuati alcuni anni di disgrazia per l'idolo; è in
queste lettere che si deve studiare l'incredulo e l'empio. Per far a dovere la sua parte, Federico quasi sempre dimenticava di essere re, ed appassionandosi per la gloria dei pretesi filosofi ancor più che della fama dei Cesari, non disdegnava di diventare la scimmia di Voltaire per eguagliarlo.
Poeta mediocrissimo, metafisico insignificante, si distingueva solo in due cose: nella sua ammirazione per Voltaire e nella sua empietà, talora perfino peggiore di quella del suo maestro.
Grazie agli omaggi ed allo zelo di Federico, Voltaire pensò saggiamente di dimenticare tutti i capricci del sovrano e tutti i dispiaceri che costui gli aveva dato a Berlino, perfino le bastonate che il sofista despota gli aveva inviate a Francoforte per mezzo di uno dei suoi ufficiali; era troppo importante per la setta e per i suoi complotti avere il potente appoggio di un adepto sovrano, e vedremo sino a qual punto Federico li assecondò. Ma per rendersi conto di quanto l'odio che suggerì tali complotti era comune a Federico ed a Voltaire, bisogna capire quali ostacoli dovette superare la setta nell'uno e nell'altro, ed è quindi necessario sentire da Voltaire medesimo ciò che ebbe a soffrire a Berlino. Era lì da pochi anni quando scriveva a
madame Denis, sua nipote e depositaria dei suoi segreti: “La Mettrie nelle sue prefazioni vanta l'estrema sua felicità di essere presso un grande re, che gli legge talvolta i suoi versi, mentre in segreto piange
con me e vorrebbe ritornarsene a piedi; ma io, perché sono qui? Or vi farò stupire. Questo La Mettrie è un uomo di nessuna importanza che conversa familiarmente col re dopo la lettura. Egli mi parla in confidenza. Mi ha giurato che, discorrendo col re nei giorni passati del mio preteso favore e della gelosia che desta, il re gli aveva risposto: Avrò bisogno di lui ancora per un anno al più; si spreme l'arancia e se ne getta via la scorza. Mi son fatto ripetere queste dolci parole, ho raddoppiato le mie domande, ed egli ha raddoppiato i suoi
giuramenti..... Ho fatto ogni sforzo possibile per non credere a la Mettrie; però non so. Rileggendo i suoi versi (del re) mi sono imbattuto in un'epistola ad un pittore chiamato Père, che è al suo
servizio; eccone i primi versi: Qual splendido spettacolo ferisce gli occhi miei! Père caro il tuo pennello t'innalza eguale a'dei. Questo Père è un uomo che lui neppure guarda in viso; e nondimeno è il Père caro, un dio; potrebbe essere lo stesso di me, cioè non molto..... Indovinerete facilmente quali pensieri, qual pentimento, quale imbarazzo, insomma qual disgusto mi provoca la confessione di La Mettrie.” (Lett. a Mad. Denis, Berlino 2 sett. 1751.)
A questa lettera se ne aggiunse una seconda del seguente tenore: “Non penso ad altro che ad eclissarmi con buon garbo, a prendermi cura della mia salute, a rivedervi ed a dimenticare un sogno durato tre anni. Mi rendo ben conto che si è spremuta l'arancia, ed ora bisogna pensare a salvarne la scorza. Per mia istruzione voglio comporre un dizionario da usare coi re: amico mio significa mio schiavo: mio caro amico vuol dire: mi siete più che indifferente. Per vi farò felice, si deve intendere vi sopporterò finché avrò bisogno di voi. Cenate con me questa sera vuol dire questa sera mi farò beffe di voi. Il dizionario può diventare lungo, è un articolo da inserire nell'Enciclopedia.”
“Sul serio, questo incidente mi opprime il cuore. È mai possibile tutto ciò che ho veduto? Compiacersi di aizzare l'uno contro l'altro quelli che vivono con lui! Parlare ad uno colla maggior tenerezza e scrivergli contro delle satire! Strappare un uomo alla sua patria con le più sacre promesse e poi maltrattarlo con la più nera malizia! Quali contrasti! E questi è colui che mi scriveva tante cose filosofiche e che ho potuto credere filosofo! E l'ho chiamato il Salomone del nord! Vi ricordate di quella bella lettera che non vi ha mai persuaso? Voi siete filosofo, diceva egli, ed anch'io lo sono. In verità, sire, non lo siamo né voi né io.” (Lett. alla stessa, 18 dic. 1752.)
Voltaire non ha mai detto nulla di più vero; né lui né Federico furono filosofi nel vero senso del termine, ma entrambi lo furono al massimo grado nel senso che davano a quell'espressione i congiurati, cioè nel senso di una ragione empia che considera l'odio al cristianesimo come se fosse l'unica virtù.
A seguito di quest'ultima lettera Voltaire lasciò furtivamente la corte del suo discepolo, il quale allora ne fece lo zimbello di tutta l'Europa; per dimenticare l'oltraggio Voltaire ebbe bisogno solo del tempo necessario per stabilirsi a Ferney. Federico e Voltaire non si rividero più, ma il primo restò nondimeno il Salomone del Nord, e in contraccambio Voltaire fu per il re di Prussia il principale filosofo dell'universo. Senza più amarsi, furono di nuovo uniti dall'odio contro Cristo che sempre li accomunava; e così la trama del loro complotto fu
ordita con minori ostacoli e condotta con più intelligenza mediante la loro corrispondenza.
Quanto a Diderot, costui volò da se stesso davanti ai congiurati; la sua testa enfatica, il suo entusiasmo delirante per il filosofismo di Voltaire, il disordine caotico delle sue idee che si faceva tanto più evidente quanto più la sua lingua e la sua penna seguivano gli slanci e l’impetuosità del suo cervello, tutto ciò fece comprendere a d'Alembert quanto il suo contributo fosse essenziale per gli scopi della cospirazione, e così se lo associò per fargli dire oppure per lasciargli dire tutto ciò che non osava dire lui stesso. Ambedue furono fino alla morte invariabilmente uniti a Voltaire, come questi lo fu a Federico.
Se il loro giuramento di distruggere la religione cristiana avesse compreso anche la sua sostituzione con un'altra religione o una qualunque dottrina, sarebbe stato difficile trovare quattro uomini meno adatti ad accordarsi in una simile impresa.
Voltaire avrebbe voluto essere deista, e sembrò che lo fosse per lungo tempo; i suoi errori lo fecero cadere nello spinozismo, e finì col non sapere qual partito prendere. I suoi rimorsi, se così si possono chiamare dubbi ed inquietudini senza pentimento, lo tormentarono sino all'ultimo giorno di vita. Ricorreva ora a d'Alembert, ora a Federico, senza che né l'uno né l'altro riuscissero ad acquietarlo.
Ormai ottuagenario, era ancora ridotto ad esprimere le sue incertezze nel modo seguente: “Tutto ciò che ci attornia è in preda al dubbio, e il dubbio è uno stato sgradevole. Vi è un Dio come si dice, un'anima come si immagina, delle relazioni quali si sono stabilite? C’è qualcosa da sperare dopo questa vita? Gilimero privato dei suoi stati aveva ragione di ridere quando fu davanti a Giustiniano? E Catone aveva forse ragione di uccidersi per timore di vedere Cesare? La gloria è forse un'illusione? E’ necessario che Mustafà nella mollezza del suo harem, facendo tutte le pazzie possibili, ignorante, orgoglioso e sconfitto, sia più felice se digerisce rispetto ad un filosofo che non riesce a digerire? Tutti gli esseri sono forse eguali al cospetto dell'Ente supremo che anima la natura? Ed in questo caso l'anima di Ravaillac sarebbe forse eguale a quella di Enrico IV? O forse non hanno anima né l'uno né l'altro? Sia il filosofo a sbrogliare tutto ciò, giacché io non
ci capisco nulla.” (Lett. 179, 12 ott. 1770.)
D'Alembert e Federico, angustiati in modo alterno da tali questioni, rispondevano ciascuno a suo modo. Il primo, non riuscendo a determinare se stesso, confessa francamente di non sapere cosa rispondere. “Vi confesso, dice, che sull'esistenza di Dio l'autore del Sistema della natura mi pare troppo fermo e troppo dogmatico, e in questa materia solo lo scetticismo mi sembra più ragionevole. Che ne sappiamo noi è per me la risposta a quasi tutte le questioni metafisiche: e la riflessione da aggiungere è che, poiché non ne sappiamo nulla, senza dubbio non c'importa di saperne di più.” (Lett. 36 anno 1770.)
Questa riflessione sulla scarsa importanza di simili questioni veniva aggiunta proprio per timore che Voltaire, tormentato dalle sue inquietudini, non si disgustasse del filosofismo, che era incapace di sciogliere i suoi dubbi su argomenti che non poteva abituarsi a considerare indifferenti alla felicità dell'uomo. Egli insistette, ed anche
d'Alembert, il quale per di più soggiunse che “il no in metafisica non gli sembrava più saggio del sì, e che il non liquet (ovvero “ciò non è chiaro”) è la sola risposta ragionevole che possa darsi a quasi tutte le domande.” (Lett. 38, ibid.)
Federico come Voltaire non amava i dubbi, ma a forza di volersene liberare credette di esservi riuscito. “Un filosofo di mia conoscenza, risponde, uomo assai determinato nei suoi sentimenti, crede che abbiamo un sufficiente grado di probabilità per giungere alla certezza che post mortem nihil est; (ovvero che la morte non è che un sonno eterno) egli pretende che l'uomo non sia doppio, e che noi siamo solo materia animata dal movimento: quest'uomo straordinario dice che non vi è alcuna relazione tra gli animali e l'intelligenza suprema.” (Lett. del 30 ott. 1770.)
Questo filosofo così determinato, quest'uomo straordinario era lo stesso Federico. Pochi anni dopo non si curò più di nascondersi, e scrisse in tono anche più deciso: “Sono certissimo di non essere doppio, perciò mi considero un ente unico ( per parlare più a senso si dica “semplice”); so che sono un animale organizzato che pensa: perciò concludo che la materia può pensare così come ha la proprietà di essere elettrica. (Lett. 4 dic. 1775.)
Più prossimo alla tomba e sempre allo scopo d'ispirare fiducia a Voltaire, gli scrisse di nuovo: “La gotta ha spaziato per tutto il mio corpo; è naturale che la nostra fragile macchina sia distrutta dal tempo che tutto consuma. I miei fondamenti sono già scossi; ma tutto ciò non m'inquieta.” (Lett. 8 aprile 1776.)
Il quarto eroe della cospirazione, il famoso Diderot, era per l'appunto colui che a d'Alembert sembrava troppo fermo e troppo dogmatico nelle sue decisioni contro Dio. In cambio Diderot aveva dei momenti nei quali in una stessa opera, dopo aver dato torto ai deisti, talora dava ragione agli scettici o agli atei, tal'altra dava loro torto.
Ma, sia che scrivesse per Dio o contro Dio, Diderot sembrava ignorare i dubbi e le inquietudini che gli altri provavano. Scriveva sinceramente ciò che gli veniva in testa nel momento in cui pigliava in mano la penna, sia che schiacciasse gli atei sotto il peso dell'universo, e l'occhio di un tarlo e l'ala di una farfalla bastavano per sconfiggerli (Vedi i suoi Pensieri filosofici n. 20); sia quando tutto questo spettacolo non lo conduceva affatto all'idea di qualche cosa di divino (Codice della natura), e l'universo era solo il risultato fortuito del moto
e della materia (Pensieri filos. n. 21); sia quando non bisognava affermare nulla su Dio, e solo lo scetticismo in ogni luogo poteva salvarsi dai due eccessi opposti (idem. n. 33); sia quando pregava Dio per gli scettici perché li vedeva tutti mancar di lumi (idem n. 22); sia infine quando per fare uno scettico bisognava avere la testa così ben fatta quanto il filosofo Montaigne. (Idem. n. 28)
Non si è visto mai nessuno che osasse asserire il pro ed il contro con un tono più affermativo di Diderot e
che meno di lui sentisse l'imbarazzo, i rimorsi e l'inquietudine, dei quali non aveva la benché minima idea anche quando affermava arditamente che tra lui e il suo cane non vi era altra differenza che nell'abito. (Vita di Seneca pag. 377.)
Con queste disparità nelle opinioni religiose, Voltaire si ritrovava un empio tormentato dai suoi dubbi e dalla sua ignoranza, d'Alembert un empio tranquillo nei suoi dubbi e nella sua ignoranza; Federico un empio che aveva trionfato o meglio che presumeva di aver trionfato della sua ignoranza, che lasciava Dio nel cielo purché non vi fossero anime sulla terra; mentre Diderot, alternativamente ateo, materialista, deista, scettico, ma sempre empio e pazzo, era il più atto a rappresentare tutte le parti che gli si destinavano.
Era necessario conoscere i caratteri e gli errori religiosi di questi uomini per svelare la trama della cospirazione che capeggiarono, e che proveremo essere reale, indicandone lo scopo preciso e rivelandone i mezzi ed i progressi.
condividerla con nessuno. “Sono stufo, diceva, di sentirli ripetere che dodici uomini sono stati sufficienti a fondare il cristianesimo: e mi vien voglia di provar loro che ne basta uno solo a distruggerlo.”(Ibidem.)
Nel pronunciare queste parole che Condorcet riferisce con soddisfazione, l'odio lo accecava al punto da non rendersi conto che l'abilità della scimmia che distrugge o del malvagio invidioso che
rovina i capolavori, i monumenti dell'arte, non eguaglia mai la gloria di colui che li ha prodotti, che il sofista, sollevando polvere, ammassando nubi e addensando le tenebre non arriva mai al Dio della luce, e che per avvincere gli uomini sono necessarie la sapienza, i prodigi e le virtù che hanno santificato gli Apostoli.
Sebbene il suo obiettivo principale fosse limitato alla gloria di distruggere da solo ed a qualunque prezzo la religione cristiana, Voltaire pensò tuttavia in seguito di aver bisogno di cooperatori;
temeva anche che la notorietà del progetto potesse nuocere alla sua esecuzione, e così decise di agire da congiurato. I numerosi suoi scritti empi ed osceni gli avevano già acquistato alcuni ammiratori, ed i suoi discepoli sedicenti filosofi fremevano di svelare il loro disprezzo e la
loro avversione per il cristianesimo; così, esaminando coloro che appartenevano alla sua scuola, scelse d'Alembert facendone il suo principale confidente ed il suo compagno di strada nella sua guerra contro Cristo. D'Alembert meritava questa distinzione.
Se in un'armata di sofisti congiurati Voltaire era fatto per avere il ruolo di Agamennone, d'Alembert poteva in qualche modo avere quello di Ulisse. Se il paragone sembrasse troppo nobile, vi si potrebbe supplire attribuendogli il ruolo di volpe: infatti d'Alembert ne possedeva tutta l'astuzia, l'aspetto e persino il verso somigliante.
Bastardo di Fontenelle, altri dicono del medico Astruc, lui stesso non seppe mai chi fosse suo padre; la cronaca del momento poteva attribuirgliene altrettanti quanti erano gli scandali provocati da sua madre. Claudine-Alexandrine Guérin de Tencin, dapprima religiosa nel monastero di Montfleury nel Delfinato, poi disgustata dalle virtù del suo stato ed infine apostata, aveva formato a Parigi una società di certi letterati che lei stessa chiamava le sue bestie; (Diz. Stor.) e dai
suoi rapporti con qualcuna di tali bestie nacque d'Alembert. Per nascondere la vergogna ed il doppio delitto a cui aveva fatto seguito la sua nascita, sua madre lo relegò tra i trovatelli. Da principio fu chiamato Jean le Rond dal nome dell'oratorio davanti a cui fu trovato, sulla soglia, avvolto in pannicelli nella notte tra il 16 ed il 17 novembre 1717.
Allevato dalla carità della Chiesa, d'Alembert non tardò molto a punirla delle cure che si era presa della sua infanzia. Era giovane nel tempo in cui Voltaire cominciava ad arruolare i partigiani
dell'incredulità e, fruendo di qualche sussidio per la sua educazione, fece ciò che fanno tanti giovani che trovano gusto a nutrirsi furtivamente degli scritti contro la religione piuttosto che a
conoscerne l'essenza; così fece proprio quello che fanno i giovani malvagi, che si compiacciono di maledire un maestro che li tiene a freno.
Con il cuore e la mente così disposti, d'Alembert divenne assai presto discepolo di Voltaire; la conformità della loro inclinazione all'incredulità e l'odio comune per il Cristo compensarono la diversità dei caratteri e l'immensa differenza di talenti.
Voltaire era ardente, collerico ed impetuoso, d'Alembert riservato, freddo, prudente ed astuto. Voltaire amava comparire; d'Alembert si nascondeva per essere poco percepito. L'uno dissimulava solo suo malgrado, anche quando, come capo, doveva mascherare le sue batterie, e avrebbe preferito (come dice lui stesso) fare alla religione una guerra aperta, e morire sopra un mucchio di cristiani, che egli chiama bigotti, immolati a suoi piedi. (Lettera di Voltaire a d'Alembert
del 20 aprile 1761.) L'altro dissimulava per istinto, e faceva una guerra da capo subalterno che se la ride dietro ai cespugli vedendo i suoi nemici cadere gli uni dopo gli altri nelle trappole che ha teso. (V. soprattutto la lett. 100 di d'Alembert, 4 maggio 1762). Dotato di tutti i talenti e del gusto per le belle lettere, Voltaire era quasi una nullità nelle scienze matematiche, che invece erano il forte di d'Alembert; ma in ogni altra materia questi era debole, affettato, tortuoso e talvolta
basso e vile, mentre Voltaire era fluido, nobile, ricco ed elegante, quando voleva esserlo. Meditando un sarcasmo od un epigramma, d'Alembert non l'aveva ancora affilato che la penna scorrevole di Voltaire ne aveva già sparso dei volumi.
Ardito fino all'impudenza, Voltaire nei suoi scritti insulta, nega, afferma, inventa, riesce a contraffare la Scrittura, i Padri, la storia; dice egualmente sì e no e colpisce dappertutto, poco gli importa, pur di ferire. D'Alembert invece, sempre all'erta, prevede una risposta che potrebbe comprometterlo, procede nascondendosi tra nubi di oscurità e sempre in modo obliquo, per non far scoprire dove vuole andare a parare. Se attaccato, fugge, dissimula ogni confutazione preferendo
fingere di non aver combattuto pur di non far notare la sua sconfitta.
Voltaire provoca i suoi nemici e li sfida tutti; cento volte sconfitto, altrettante volte torna alla carica; invano si confuta il suo errore, egli lo ridice e non cessa di ripeterlo, vergognandosi solo della fuga e mai della sconfitta; dopo una guerra durata sessant'anni egli si trovava ancora sul campo di battaglia.
D'Alembert ambiva all'omaggio di circoli ristretti; quaranta mani che lo applaudivano in un circolo accademico erano per lui un trionfo, mentre tutte le trombe della fama che suonassero da Londra sino a Pietroburgo e da Boston sino a Stoccolma non sarebbero bastate a contentare la sete di gloria di Voltaire.
D'Alembert arruolava, formava, iniziava gli adepti subalterni, dirigeva le loro missioni e coltivava le corrispondenze di minor rilievo. Voltaire invece chiamava alla rivolta contro Cristo i re, gli
imperatori, i ministri, i prìncipi, il suo palazzo era la corte del sultano dell'incredulità e tra coloro che gli resero omaggio e che entrarono più profondamente nei suoi complotti la storia deve distinguere quel Federico II, finora conosciuto solo per i suoi meriti di re, di conquistatore e di amministratore.
In questo Federico, che i sofisti chiamavano il Salomone del nord, vi erano due uomini: uno era il re di Prussia, quell'eroe che ha diritto alla nostra approvazione non tanto per le sue vittorie e per la sua tattica nelle battaglie quanto per gli sforzi che fece per rivitalizzare i suoi popoli, l'agricoltura, il commercio e le arti, espiando così in qualche modo, con la saggezza e la beneficenza della sua amministrazione interna, le sue vittorie militari che sono state forse più appariscenti che giuste; l'altro è il personaggio che meno poteva accordarsi alla saggezza e della dignità di un monarca, il pedante filosofo, l'alleato dei sofisti, l'empio scribacchino, l'incredulo
cospiratore, un vero Giuliano del secolo XVIII, meno crudele ma più scaltro ed altrettanto pieno di odio, meno entusiasta ma più perfido del famoso Giuliano l'apostata.
Rincresce molto allo storico rivelare i tenebrosi misteri di questo empio con la corona, ma è fondamentale che particolarmente in questo caso si dica tutta la verità, affinché i re della terra sappiano quanta parte hanno avuto i loro pari nella congiura contro l'altare ed affinché comprendano da dove proviene la cospirazione contro i loro troni.
Federico ebbe la sventura di nascere con lo spirito di Celso e di tutta la scuola dei sofisti, di cui sarebbe stato meglio fosse privo, e non ebbe al suo fianco né un Tertulliano né un Giustino per guidare le sue ricerche sulla religione, ma al contrario era attorniato da uomini che non sapevano far altro che calunniarla. Quando era ancora principe reale, era già in corrispondenza con Voltaire, e disputava con lui di metafisica e di religione; si credeva già un gran filosofo quando
scriveva a Voltaire: “A parlarvi con la solita mia franchezza vi confesserò sinceramente che tutto ciò che riguarda l'Uomo-Dio non mi piace in bocca ad un filosofo, che dev'essere al di sopra degli errori popolari. Lasciate al grande Corneille, vecchio scimunito e ricaduto nell'infanzia, la sciocca fatica di porre in rima l'Imitazione di G. C., e non cavate che dal vostro proprio fondo ciò che avete da dirci. Si può parlare di favole, ma solo in quanto favole; e credo che sia meglio osservare un profondo silenzio sulle favole cristiane, canonizzate dalla loro antichità e dalla credulità di persone assurde e stupide.” (Lettera 53 anno 1728.)
Pierre Corneille è con Moliére e Racine uno dei tre grandi drammaturghi francesi del XVII sec.
Dalle sue prime lettere già si poteva scorgere che, insieme con il ridicolo orgoglio di un re pedante, aveva la volubilità ed anche tutta l'ipocrisia dei sofisti.
Federico dà a Voltaire delle lezioni contro la libertà quando Voltaire la difende, (vedi le loro lettere del 1737) e quando Voltaire non vede altro che l'uomo macchina, Federico non vede altro che l'uomo libero. (V. sua lett. 16 sett. 1771.) Qui sostiene che vi è necessariamente una libertà perché ne abbiamo un'idea netta, (ibid.)
mentre altrove considera l'uomo in tutto materia, quantunque non vi sia idea più oscura di quella di una materia libera e pensante che sia in grado di argomentare, anche se alla maniera di Federico. (V. sua lett. 4 dic. 1775.) Aveva rimproverato a Voltaire la sua dissimulazione quando aveva dato lode a G. C., e non si vergognava di scrivere tre anni dopo: “Per quanto mi riguarda, vi confesso che (se conviene arruolarsi sotto lo stendardo del fanatismo) io non lo farò, e mi contenterò solo di comporre alcuni salmi per dare una buona opinione della mia ortodossia.... Socrate incensava i Penati; Cicerone, che non era credulo, faceva lo stesso; bisogna prestarsi alle fantasie di un popolo sciocco per evitare la persecuzione ed il biasimo. Poiché dopo
tutto non vi è al mondo cosa più desiderabile che il vivere in pace.
Facciamo qualche sciocchezza con gli sciocchi per giungere alla tranquillità.” ( Lett. 6 genn. 1740.)
Lo stesso Federico, partecipando dell'odio del suo maestro, aveva anche scritto che la religione cristiana produceva solo erbe velenose, (lett. 143. a Volt. an. 1766) e Voltaire si era rallegrato con lui perché
aveva, meglio di qualunque altro principe, l'animo abbastanza forte, il colpo d'occhio sufficientemente giusto e perché era abbastanza istruito per sapere che dopo millesettecento anni la setta cristiana non aveva fatto che del male. ( Lett. 5 aprile 1767.) Non ci si aspetterebbe che un re così filosofo e con un colpo d'occhio così
giusto di trovasse nell'obbligo di combattere negli altri ciò che lui stesso credeva di aver capito così bene: tuttavia si legga ciò che proprio lui oppone alle medesime asserzioni quando refuta il Sistema della natura: “Si potrebbe, dice, accusare l'autore di aridità di spirito e particolarmente di goffaggine perché calunnia la religione cristiana attribuendole difetti che non ha. Come può affermare con verità che questa religione è causa di tutte le sciagure del genere umano? Per esprimersi rettamente bisognava dire semplicemente che l'ambizione e l'interesse degli uomini si sono serviti di questa religione per confondere il mondo e soddisfare le passioni. In buona fede, che cosa si può rimproverare alla morale contenuta nel Decalogo? Se anche non
vi fosse nel Vangelo che il solo precetto: non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi, si sarebbe in obbligo di convenire che queste poche parole racchiudono tutta la quintessenza della morale. Ed il perdono delle offese, e la carità, e l'umanità non furono predicate da Gesù nel suo eccellente sermone della montagna? Ecc.” (V. Esame del Sistema della natura di Federico re di Prussia, gennaio 1770.)
Quando Federico scriveva queste parole, non aveva dunque più il giusto colpo d'occhio per arrivare a concludere che questa religione non può produrre che zizzania e non ha fatto che del male. Ma per una
ancor più strana contraddizione, dopo avere così ben rilevato che la religione cristiana non è per nulla la causa dei nostri mali, egli non cessa di felicitarsi con Voltaire perché ne è il flagello, (12 agosto 1772) non ha ribrezzo di suggerire i propri progetti per distruggerla, (29 luglio 1775) e pretende che, se essa è conservata e protetta in Francia, per le belle arti e le scienze elevate è finita, e la ruggine della superstizione finirà per distruggere quel popolo che per altri versi è amabile e nato per la società. (Lett. a Volt. 30 luglio 1774.)
Gli avvenimenti successivi dimostrano che, se il re sofista fosse stato un vero profeta, avrebbe dovuto predire proprio il contrario; avrebbe predetto che quel popolo per altri versi amabile e nato per la società, subito dopo aver perduta la sua religione, avrebbe spaventato l'universo con le sue atrocità. Ma Federico come Voltaire sarebbe stato lo zimbello di tutta la sua pretesa sapienza e delle sue opinioni, come pure di tutto il suo amore per la filosofia; fu molto capriccioso, a volte pro, a volte contro di essa. Lo vedremo un giorno valutare giustamente i suoi adepti ma, pur con tutto il suo disprezzo per loro, non tralasciar di cospirare come loro per distruggere la religione di Gesù Cristo.
Federico II di Prussia (1712-1786). Sovrano “illuminato” seguace di Voltaire che ospitò a Berlino. Assecondò i piani per distruggere la religione, ma si schierò in difesa dei Gesuiti del suo regno provocando le rimostranze del "maestro".
queste lettere che si deve studiare l'incredulo e l'empio. Per far a dovere la sua parte, Federico quasi sempre dimenticava di essere re, ed appassionandosi per la gloria dei pretesi filosofi ancor più che della fama dei Cesari, non disdegnava di diventare la scimmia di Voltaire per eguagliarlo.
Poeta mediocrissimo, metafisico insignificante, si distingueva solo in due cose: nella sua ammirazione per Voltaire e nella sua empietà, talora perfino peggiore di quella del suo maestro.
Grazie agli omaggi ed allo zelo di Federico, Voltaire pensò saggiamente di dimenticare tutti i capricci del sovrano e tutti i dispiaceri che costui gli aveva dato a Berlino, perfino le bastonate che il sofista despota gli aveva inviate a Francoforte per mezzo di uno dei suoi ufficiali; era troppo importante per la setta e per i suoi complotti avere il potente appoggio di un adepto sovrano, e vedremo sino a qual punto Federico li assecondò. Ma per rendersi conto di quanto l'odio che suggerì tali complotti era comune a Federico ed a Voltaire, bisogna capire quali ostacoli dovette superare la setta nell'uno e nell'altro, ed è quindi necessario sentire da Voltaire medesimo ciò che ebbe a soffrire a Berlino. Era lì da pochi anni quando scriveva a
madame Denis, sua nipote e depositaria dei suoi segreti: “La Mettrie nelle sue prefazioni vanta l'estrema sua felicità di essere presso un grande re, che gli legge talvolta i suoi versi, mentre in segreto piange
con me e vorrebbe ritornarsene a piedi; ma io, perché sono qui? Or vi farò stupire. Questo La Mettrie è un uomo di nessuna importanza che conversa familiarmente col re dopo la lettura. Egli mi parla in confidenza. Mi ha giurato che, discorrendo col re nei giorni passati del mio preteso favore e della gelosia che desta, il re gli aveva risposto: Avrò bisogno di lui ancora per un anno al più; si spreme l'arancia e se ne getta via la scorza. Mi son fatto ripetere queste dolci parole, ho raddoppiato le mie domande, ed egli ha raddoppiato i suoi
giuramenti..... Ho fatto ogni sforzo possibile per non credere a la Mettrie; però non so. Rileggendo i suoi versi (del re) mi sono imbattuto in un'epistola ad un pittore chiamato Père, che è al suo
servizio; eccone i primi versi: Qual splendido spettacolo ferisce gli occhi miei! Père caro il tuo pennello t'innalza eguale a'dei. Questo Père è un uomo che lui neppure guarda in viso; e nondimeno è il Père caro, un dio; potrebbe essere lo stesso di me, cioè non molto..... Indovinerete facilmente quali pensieri, qual pentimento, quale imbarazzo, insomma qual disgusto mi provoca la confessione di La Mettrie.” (Lett. a Mad. Denis, Berlino 2 sett. 1751.)
A questa lettera se ne aggiunse una seconda del seguente tenore: “Non penso ad altro che ad eclissarmi con buon garbo, a prendermi cura della mia salute, a rivedervi ed a dimenticare un sogno durato tre anni. Mi rendo ben conto che si è spremuta l'arancia, ed ora bisogna pensare a salvarne la scorza. Per mia istruzione voglio comporre un dizionario da usare coi re: amico mio significa mio schiavo: mio caro amico vuol dire: mi siete più che indifferente. Per vi farò felice, si deve intendere vi sopporterò finché avrò bisogno di voi. Cenate con me questa sera vuol dire questa sera mi farò beffe di voi. Il dizionario può diventare lungo, è un articolo da inserire nell'Enciclopedia.”
“Sul serio, questo incidente mi opprime il cuore. È mai possibile tutto ciò che ho veduto? Compiacersi di aizzare l'uno contro l'altro quelli che vivono con lui! Parlare ad uno colla maggior tenerezza e scrivergli contro delle satire! Strappare un uomo alla sua patria con le più sacre promesse e poi maltrattarlo con la più nera malizia! Quali contrasti! E questi è colui che mi scriveva tante cose filosofiche e che ho potuto credere filosofo! E l'ho chiamato il Salomone del nord! Vi ricordate di quella bella lettera che non vi ha mai persuaso? Voi siete filosofo, diceva egli, ed anch'io lo sono. In verità, sire, non lo siamo né voi né io.” (Lett. alla stessa, 18 dic. 1752.)
Voltaire non ha mai detto nulla di più vero; né lui né Federico furono filosofi nel vero senso del termine, ma entrambi lo furono al massimo grado nel senso che davano a quell'espressione i congiurati, cioè nel senso di una ragione empia che considera l'odio al cristianesimo come se fosse l'unica virtù.
A seguito di quest'ultima lettera Voltaire lasciò furtivamente la corte del suo discepolo, il quale allora ne fece lo zimbello di tutta l'Europa; per dimenticare l'oltraggio Voltaire ebbe bisogno solo del tempo necessario per stabilirsi a Ferney. Federico e Voltaire non si rividero più, ma il primo restò nondimeno il Salomone del Nord, e in contraccambio Voltaire fu per il re di Prussia il principale filosofo dell'universo. Senza più amarsi, furono di nuovo uniti dall'odio contro Cristo che sempre li accomunava; e così la trama del loro complotto fu
ordita con minori ostacoli e condotta con più intelligenza mediante la loro corrispondenza.
Quanto a Diderot, costui volò da se stesso davanti ai congiurati; la sua testa enfatica, il suo entusiasmo delirante per il filosofismo di Voltaire, il disordine caotico delle sue idee che si faceva tanto più evidente quanto più la sua lingua e la sua penna seguivano gli slanci e l’impetuosità del suo cervello, tutto ciò fece comprendere a d'Alembert quanto il suo contributo fosse essenziale per gli scopi della cospirazione, e così se lo associò per fargli dire oppure per lasciargli dire tutto ciò che non osava dire lui stesso. Ambedue furono fino alla morte invariabilmente uniti a Voltaire, come questi lo fu a Federico.
Se il loro giuramento di distruggere la religione cristiana avesse compreso anche la sua sostituzione con un'altra religione o una qualunque dottrina, sarebbe stato difficile trovare quattro uomini meno adatti ad accordarsi in una simile impresa.
Voltaire avrebbe voluto essere deista, e sembrò che lo fosse per lungo tempo; i suoi errori lo fecero cadere nello spinozismo, e finì col non sapere qual partito prendere. I suoi rimorsi, se così si possono chiamare dubbi ed inquietudini senza pentimento, lo tormentarono sino all'ultimo giorno di vita. Ricorreva ora a d'Alembert, ora a Federico, senza che né l'uno né l'altro riuscissero ad acquietarlo.
Ormai ottuagenario, era ancora ridotto ad esprimere le sue incertezze nel modo seguente: “Tutto ciò che ci attornia è in preda al dubbio, e il dubbio è uno stato sgradevole. Vi è un Dio come si dice, un'anima come si immagina, delle relazioni quali si sono stabilite? C’è qualcosa da sperare dopo questa vita? Gilimero privato dei suoi stati aveva ragione di ridere quando fu davanti a Giustiniano? E Catone aveva forse ragione di uccidersi per timore di vedere Cesare? La gloria è forse un'illusione? E’ necessario che Mustafà nella mollezza del suo harem, facendo tutte le pazzie possibili, ignorante, orgoglioso e sconfitto, sia più felice se digerisce rispetto ad un filosofo che non riesce a digerire? Tutti gli esseri sono forse eguali al cospetto dell'Ente supremo che anima la natura? Ed in questo caso l'anima di Ravaillac sarebbe forse eguale a quella di Enrico IV? O forse non hanno anima né l'uno né l'altro? Sia il filosofo a sbrogliare tutto ciò, giacché io non
ci capisco nulla.” (Lett. 179, 12 ott. 1770.)
D'Alembert e Federico, angustiati in modo alterno da tali questioni, rispondevano ciascuno a suo modo. Il primo, non riuscendo a determinare se stesso, confessa francamente di non sapere cosa rispondere. “Vi confesso, dice, che sull'esistenza di Dio l'autore del Sistema della natura mi pare troppo fermo e troppo dogmatico, e in questa materia solo lo scetticismo mi sembra più ragionevole. Che ne sappiamo noi è per me la risposta a quasi tutte le questioni metafisiche: e la riflessione da aggiungere è che, poiché non ne sappiamo nulla, senza dubbio non c'importa di saperne di più.” (Lett. 36 anno 1770.)
Questa riflessione sulla scarsa importanza di simili questioni veniva aggiunta proprio per timore che Voltaire, tormentato dalle sue inquietudini, non si disgustasse del filosofismo, che era incapace di sciogliere i suoi dubbi su argomenti che non poteva abituarsi a considerare indifferenti alla felicità dell'uomo. Egli insistette, ed anche
d'Alembert, il quale per di più soggiunse che “il no in metafisica non gli sembrava più saggio del sì, e che il non liquet (ovvero “ciò non è chiaro”) è la sola risposta ragionevole che possa darsi a quasi tutte le domande.” (Lett. 38, ibid.)
Federico come Voltaire non amava i dubbi, ma a forza di volersene liberare credette di esservi riuscito. “Un filosofo di mia conoscenza, risponde, uomo assai determinato nei suoi sentimenti, crede che abbiamo un sufficiente grado di probabilità per giungere alla certezza che post mortem nihil est; (ovvero che la morte non è che un sonno eterno) egli pretende che l'uomo non sia doppio, e che noi siamo solo materia animata dal movimento: quest'uomo straordinario dice che non vi è alcuna relazione tra gli animali e l'intelligenza suprema.” (Lett. del 30 ott. 1770.)
Questo filosofo così determinato, quest'uomo straordinario era lo stesso Federico. Pochi anni dopo non si curò più di nascondersi, e scrisse in tono anche più deciso: “Sono certissimo di non essere doppio, perciò mi considero un ente unico ( per parlare più a senso si dica “semplice”); so che sono un animale organizzato che pensa: perciò concludo che la materia può pensare così come ha la proprietà di essere elettrica. (Lett. 4 dic. 1775.)
Più prossimo alla tomba e sempre allo scopo d'ispirare fiducia a Voltaire, gli scrisse di nuovo: “La gotta ha spaziato per tutto il mio corpo; è naturale che la nostra fragile macchina sia distrutta dal tempo che tutto consuma. I miei fondamenti sono già scossi; ma tutto ciò non m'inquieta.” (Lett. 8 aprile 1776.)
Il quarto eroe della cospirazione, il famoso Diderot, era per l'appunto colui che a d'Alembert sembrava troppo fermo e troppo dogmatico nelle sue decisioni contro Dio. In cambio Diderot aveva dei momenti nei quali in una stessa opera, dopo aver dato torto ai deisti, talora dava ragione agli scettici o agli atei, tal'altra dava loro torto.
Ma, sia che scrivesse per Dio o contro Dio, Diderot sembrava ignorare i dubbi e le inquietudini che gli altri provavano. Scriveva sinceramente ciò che gli veniva in testa nel momento in cui pigliava in mano la penna, sia che schiacciasse gli atei sotto il peso dell'universo, e l'occhio di un tarlo e l'ala di una farfalla bastavano per sconfiggerli (Vedi i suoi Pensieri filosofici n. 20); sia quando tutto questo spettacolo non lo conduceva affatto all'idea di qualche cosa di divino (Codice della natura), e l'universo era solo il risultato fortuito del moto
e della materia (Pensieri filos. n. 21); sia quando non bisognava affermare nulla su Dio, e solo lo scetticismo in ogni luogo poteva salvarsi dai due eccessi opposti (idem. n. 33); sia quando pregava Dio per gli scettici perché li vedeva tutti mancar di lumi (idem n. 22); sia infine quando per fare uno scettico bisognava avere la testa così ben fatta quanto il filosofo Montaigne. (Idem. n. 28)
Michel de Montaigne, filosofo umanista del XVI sec. con tendenze scettiche, non raggiunse mai
l’agnosticismo puro, ma mise in rilievo più il dubbio che la Fede, che egli relegava nell’esclusivo dominio della Rivelazione. Il suo pensiero influì su Rousseau, ed è considerato un precursore della filosofia relativistica moderna
Non si è visto mai nessuno che osasse asserire il pro ed il contro con un tono più affermativo di Diderot e
che meno di lui sentisse l'imbarazzo, i rimorsi e l'inquietudine, dei quali non aveva la benché minima idea anche quando affermava arditamente che tra lui e il suo cane non vi era altra differenza che nell'abito. (Vita di Seneca pag. 377.)
Con queste disparità nelle opinioni religiose, Voltaire si ritrovava un empio tormentato dai suoi dubbi e dalla sua ignoranza, d'Alembert un empio tranquillo nei suoi dubbi e nella sua ignoranza; Federico un empio che aveva trionfato o meglio che presumeva di aver trionfato della sua ignoranza, che lasciava Dio nel cielo purché non vi fossero anime sulla terra; mentre Diderot, alternativamente ateo, materialista, deista, scettico, ma sempre empio e pazzo, era il più atto a rappresentare tutte le parti che gli si destinavano.
Era necessario conoscere i caratteri e gli errori religiosi di questi uomini per svelare la trama della cospirazione che capeggiarono, e che proveremo essere reale, indicandone lo scopo preciso e rivelandone i mezzi ed i progressi.